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Biomoral Enhancement. Definizioni e problemi aperti

Autore


Luca Lo Sapio

Università degli Studi di Napoli Federico II

Dottore di ricerca in Bioetica presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Premessa
  2. Inadatti al futuro
  3. Obiezioni e chiarificazioni teoriche
  4. Una possibile prospettiva per il dibattito in corso

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S&F_n. 12_2014

Abstract



This paper focuses on the important disputation about biomoral enhancement, the new frontier of human enhancement international debate. In the first part, it analyses the main issues of Unfit for the future, the 2012 book of Savulescu and Persson, which represents a very relevant step within this theme. In the second part, it considers some arguments against Persson and Savulescu’s thesis and their own replies. Finally, it develops some arguments to show the difficulties related to the idea that it is possible to clearly understand the nature of a moral enhancement and point out the hurdle to circumscribe the basic elements we have to intervene on in order to obtain a real improvement of human moral attitudes.

     


Noi possiamo provare un bene profondo, disinteressato per quelli che conosciamo, ma è raro che quell’empatia si estenda oltre il nostro sguardo.

Interstellar di C. Nolan

 

 

  1. Premessa

Nel 2008 il filosofo neozelandese Thomas Douglas, attualmente Senior Research Fellow presso il prestigioso Uehiro Centre for Practical Ethics di Oxford, pubblicava un importante (e, in seguito, citatissimo) paper sul tema dell’enhancement morale[1]. La tesi centrale del paper era che, sebbene alcune delle obiezioni mosse dai bioconservatori al potenziamento umano tramite tecnologie biomediche potessero avere un fondamento[2], quelle stesse obiezioni non sarebbero risultate fondate rispetto all’enhancement morale tramite tecnologie biomediche.

Douglas dava la seguente definizione di moral enhancement: «una persona si potenzia moralmente se modifica se stessa in una modalità tale che ci si possa ragionevolmente attendere che abbia in futuro motivazioni morali complessivamente migliori di quelle che avrebbe altrimenti avuto»[3].

A partire da questa definizione, sarebbe risultato difficile trovare argomentazioni stringenti contro la liceità dell’enhancement morale. «Tutte le teorie etiche che siano plausibili, infatti, concordano sul fatto che una persona che ha motivi morali migliori tenderà ad avvantaggiare gli altri»[4].

Douglas, poi, nonostante le difficoltà (possibili) nel rintracciare con chiarezza «quali cambiamenti psicologici possano valere come enhancement morale» sottolineava come vi fossero dei cambiamenti che, in talune circostanze, «si sarebbero chiaramente configurati come enhancement morale»: l’attenuazione dei cosiddetti contro-sentimenti morali (odio, sentimenti razzisti, sentimenti di aggressività, etc.) avrebbe complessivamente portato all’emergere di persone con motivi morali migliori.

Le argomentazioni di Douglas venivano riprese e rilanciate da due noti ed eminenti bioeticisti, Ingmar Persson e Julian Savulescu, in un paper altrettanto importante e citato[5].

Qui, i due autori, proponevano le seguenti tesi:

1) Il rapido sviluppo della tecnologia ha messo (potenzialmente) nelle mani di gruppi terroristici o soggetti deviati strumenti capaci di annichilire la vita umana sul pianeta;

2) l’applicazione della ricerca biomedica e farmacologica, in vista del potenziamento delle capacità cognitive dell’uomo, può favorire un ulteriore sviluppo tecnologico e, pertanto, aumentare ulteriormente i rischi di una catastrofe finale;

3) queste circostanze «parlano contro la desiderabilità dell’enhancement cognitivo, con il conseguente aumento di conoscenza, se esso non è accompagnato da un potenziamento morale dell’umanità»[6];

4)poiché la realizzazione dell’enhancement morale tramite tecnologie biomediche non è attuabile nel futuro prossimo, l’enhancement cognitivo non va incentivato.

Tali tesi troveranno, quattro anni dopo, un ulteriore sviluppo nel volume Unfit for the future[7].

Nel prosieguo dell’articolo cercherò, pertanto, di inquadrare analiticamente le argomentazioni principali contenute nel volume summenzionato; darò conto di alcune obiezioni mosse all’impianto teorico di Persson e Savulescu e delle repliche fornite a chiarimento della loro posizione; infine proporrò alcuni rilievi critici, il cui filo conduttore, è rappresentato dalle seguenti tesi: i principali concetti impiegati in ambito morale (senso di giustizia, altruismo, simpatia, etc.) 1) non sono mai riducibili a singoli elementi del corredo bio-fisico umano e, più ampiamente, 2) sono sempre il risultato di molteplici fattori sui quali è impossibile intervenire “chirurgicamente”, 3) infine, dipendono strettamente dal contesto socio-economico e culturale entro il quale sono inseriti. Pertanto, pur condividendo le preoccupazioni di Persson e Savulescu circa il futuro della nostra specie, e pur non individuando specifiche obiezioni morali all’attuazione di alterazioni (modificazioni) di tratti caratteristici del corredo bio-fisico umano resto, tuttavia, poco persuaso circa l’effettiva possibilità di migliorare la resa morale dell’uomo (anche) attraverso interventi che vadano a modificare singoli tratti del corredo bio-chimico.

 

  1. Inadatti al futuro

Il punto zero della riflessione di Persson e Savulescu è il seguente: l’enorme sviluppo della tecnologia ha aumentato (fortemente) la capacità dell’uomo di arrecare danno ai suoi simili; tale sviluppo tecnologico, però, non ha proceduto parallelamente allo sviluppo di una psicologia morale adeguata. Al crescere del primo, si è avuta una sostanziale invarianza della seconda.

In particolare, la nostra psicologia morale, si sarebbe evoluta, nei suoi tratti principali, durante il Pleistocene e sarebbe, pertanto, adatta a fronteggiare un ambiente totalmente differente da quello attuale[8].

La nostra moralità di senso comune presenterebbe, quindi, tutta una serie di caratteristiche che la rendono inadatta a rapportarsi alle situazioni dischiuse dallo sviluppo tecnologico.

Ad esempio, siamo portati ad avere più paura rispetto a certe situazioni perché abbiamo già fatto esperienza di un esito negativo (pregiudizio della disponibilità)[9].

Agiamo sulla base di un modello azione-omissione e su una concezione della responsabilità fondata dal punto di vista causale[10]. Siamo emotivamente coinvolti nel caso di benefici o danni che vengono procrastinati a un futuro prossimo piuttosto che rispetto a un futuro remoto (pregiudizio del futuro prossimo)[11].

Inoltre, i nostri sentimenti morali si indirizzano spontaneamente verso parenti o amici prossimi, anche se questi non sono spazialmente vicini a noi, ma non sono elicitati, parimenti, per persone lontane da noi (dal punto di vista affettivo).

Pertanto, arriviamo alla seguente situazione riguardo alla nostra moralità di senso comune e alla psicologia di ciò che è moralmente rilevante. Siamo primariamente responsabili per quello che causiamo, in proporzione al nostro contributo causale. Ciò che è moralmente più rilevante è che non causiamo la violazione dei diritti degli altri. Inoltre, siamo psicologicamente miopi, disposti a preoccuparci più di quello che succede a noi e ad alcuni individui che ci sono cari e vicini nel futuro prossimo. Siamo capaci di empatizzare e simpatizzare maggiormente con singoli individui e non riusciamo a empatizzare e simpatizzare con i collettivi, in proporzione al loro numero. Poiché siamo equipaggiati con un set di risposte tit-for-tat il nostro altruismo parrocchiale ci consente di operare in uno spazio di sincronicità. Questa situazione, però, non è funzionale nelle moderne società con milioni di cittadini[12].

 

Secondo Persson e Savulescu, quindi, l’attuale situazione ci spinge, sempre più, verso l’estinzione[13].

Il carattere parrocchiale (miope) della moralità di senso comune non consente l’attivazione di sentimenti morali che vadano oltre il pregiudizio del futuro prossimo, della disponibilità, della responsabilità basata causalmente. Questo determina ciò che Persson e Savulescu, sulla scorta di Garrett Hardin, chiamano la tragedia dei beni comuni[14], ossia il fatto che ciascun individuo, con il suo agire, credendo di massimizzare l’interesse individuale, si comporta, sul lungo periodo, contrariamente all’interesse del gruppo di cui fa parte, ad esempio esaurendo risorse naturali fondamentali o inquinando l’ambiente.

Come è possibile uscire da questo circolo vizioso?

La nostra conclusione è, allora, che la soluzione ai problemi climatici e ambientali non è interamente tecnologica. Né ci sarà una soluzione politica all’interno delle forme democratiche di governo, a meno che il desiderio di agire moralmente cresca fortemente nel pubblico. Perché questi problemi riguardano temi che suscitano così poco interesse, nella misura in cui non si ha a che fare con fatti che ineriscono l’immediato futuro o persone a loro prossime[15].

 

In effetti anche se le democrazie liberali hanno consentito la diffusione di un’ideologia egualitaria, questa non rappresenta ancora una motivazione così forte da mettere capo a una radicale mutazione dello stile di vita.

Si dovrebbe, quindi, lavorare per un incremento del senso di giustizia e dell’altruismo, che rappresentano due delle componenti imprescindibili dell’universo morale soggettivo.

Si dovrebbe, però, anche capire (bene) quanto tale aumento possa essere ottenuto tramite gli strumenti tradizionali dell’educazione.

Un punto di partenza per sospettare che attraverso questi sistemi l’enhancement morale non possa essere condotto a un livello sufficiente, in tempo per evitare conseguenze disastrose legate alle odierne tecnologie, è che il livello dell’enhancement morale ottenuto nei 2500 anni successivi all’apparizione dei primi grandi maestri della morale non si avvicina neanche lontanamente al grado del progresso tecnologico durante lo stesso periodo[16].

Per essere più precisi, si potrebbe fare una distinzione tra miglioramento delle dottrine morali e miglioramento delle azioni e reazioni morali (le quali richiederebbero un’introiezione di queste dottrine). Se, per quanto riguarda le prime, si può ravvisare miglioramento, per le seconde la situazione appare essere più problematica.

Di conseguenza, c’è un divario crescente tra ciò che noi siamo praticamente capaci di fare, grazie alla tecnologia, e quello che siamo moralmente capaci di fare, nonostante il fatto che, rispetto ai nostri antenati, sembriamo essere moralmente migliori in alcune circostanze. È l’introiezione delle dottrine morali che noi crediamo possa essere accelerata attraverso l’esplorazione scientifica delle basi genetiche e neurobiologiche del nostro comportamento[17].

 

Secondo gli autori del volume in esame, il sentimento di simpatia, alla base delle nostre azioni morali, non può essere migliorato semplicemente migliorando le nostre facoltà razionali o la nostra percezione dell’interesse individuale, bensì attraverso un intervento sul senso di giustizia e l’altruismo .

Noi riteniamo che la simpatia e il senso della giustizia siano indispensabili per essere pienamente morali, e che la spiegazione del perché l’umanità non sia riuscita a fronteggiare adeguatamente il cambiamento climatico e la distruzione ambientale, nonostante i poteri della ragione accresciuti, è che essi lasciano l’interesse individuale intoccato e richiamano la nostra insufficiente simpatia e senso della giustizia così come per le future generazioni e gli animali non umani[18].

 

L’accrescimento del senso della giustizia e dell’altruismo, in quanto disposizioni morali fondamentali, può comportare anche la riduzione di pregiudizi come l’attenzione per il futuro immediato e la concezione della responsabilità fondata causalmente.

Di fatto, quando si parla di altruismo si intende: empatia (mettersi al posto di un’altra persona, a livello immaginativo); preoccupazione simpatetica per il benessere di questo soggetto in vista del suo stesso bene, (intrinseco desiderio di rimuovere il dolore, occasionato dall’atto empatico dell’immaginazione).

Tali sentimenti, per altro, possono essere rintracciati anche in molti animali, a testimonianza della loro base biologico-evolutiva.

Seguendo questa prospettiva vediamo, ad esempio, che l’empatia è un sentimento più sviluppato nelle donne (non sarebbe un caso che la violenza e l’aggressività sia più ridotta in esse).

Alcuni critici dell’enhancement morale hanno avanzato il timore che esso potrebbe corrodere la libertà e, di conseguenza, la nostra responsabilità morale[19]. Questo esempio, però, dovrebbe farci capire che questa paura è mal riposta: le donne non sono meno libere e responsabili degli uomini perché a causa della loro natura biologica esse sono più altruiste e meno aggressive. In risposta alle obiezioni di Harris si può dire che sia nel caso in cui la nostra libertà e responsabilità siano pienamente determinate (dal punto di vista causale), sia nel caso in cui regni un certo indeterminismo nella sfera dell’uomo, gli interventi di biomoral enhancement non possono essere riguardati come una minaccia alla libertà umana. Infatti, coloro che si fossero sottoposti a enhancement morale si comporterebbero come coloro i quali, già oggi, sono moralmente migliori. Così come le persone naturalmente virtuose non fanno in maniera compulsiva quello che esse ritengono essere giusto, così gli individui moralmente potenziati non faranno in maniera compulsiva quello che ritengono sia giusto[20].

Per quanto riguarda i bambini, ancora, l’enhancement morale sarebbe né più né meno di un’estensione di ciò che già oggi avviene con l’educazione, che essi, di fatto, non scelgono per se stessi.

L’enhancement morale, quindi, aumenterebbe la libertà piuttosto che restringerla.

I due autori cercano, poi, di spiegare che i mezzi tradizionali non sono sufficienti ma non vanno cassati. Essi devono agire in sinergia con gli altri[21].

Infatti, non può essere solo una questione di apprendimento. Sapere che la nicotina fa male, ad esempio, oppure che gli zuccheri vanno limitati nella dieta, non costituisce un freno reale per molte persone, che continuano a utilizzarli. Ciò su cui bisogna incidere sono, infatti, le disposizioni morali.

Una delle linee di ricerca più promettenti riguarda l’ossitocina[22]. Essa però si è dimostrata promettente soprattutto in relazione allo sviluppo di sentimenti di fiducia e pro-sociali all’interno del gruppo di appartenenza (per essere precisi, davanti a due gruppi, se il comportamento poteva favorire un membro del proprio gruppo di appartenenza, l’aumentato livello di ossitocina sembrava giocare un ruolo).

Proprio per il suo riferimento diretto al gruppo di appartenenza, essa non si rivela sufficiente a elevare moralmente gli individui, ma ciò esula dal non considerarla un aiuto indispensabile.

Altri farmaci sono gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina.

In ogni caso, è chiaro che modificazioni del cervello attraverso farmaci come SSRIs hanno conseguenze morali. Gli esempi dell’ossitocina e serotonina mostrano che la manipolazione della biologia può avere effetti morali. Ci sono pertanto prospettive legate all’enhancement morale […]. Tuttavia non è sorprendente che non siano stati scoperti fino a questo momento ulteriori farmaci capaci di potenziare le abilità morali. Inoltre anche se questi farmaci venissero scoperti, l’obiettivo scoraggiante di applicarli a un sufficiente numero di persone – probabilmente nell’ordine di centinaia di milioni rimarrebbe[23].

 

Ora, gli autori sottolineano come non è loro obiettivo quello di mettere in secondo piano i mezzi tradizionali di potenziamento. Essi devono continuare a sussistere. Anzi dovrebbero essere incrementati. Però, bisogna, parimenti, sottolineare come i bioenhancers medici non incappano in obiezioni morali decisive.

La ricerca sull’enhancement morale non può subire battute d’arresto né precludersi alcune strade.

È facile e conveniente pensare che gli uomini verranno a capo dei loro problemi grazie alla politica o alle tecnologie perché questi problemi, in fin dei conti, sono esterni a noi.

Per altro, le odierne democrazie liberali potrebbero avere qualche difficoltà nell’implementare questi programmi di potenziamento morale, poiché nell’ideologia liberale si ritiene che lo stato debba avere una posizione di neutralità valutativa.

Il ruolo dello stato deve essere, quindi, rivisto alla luce del fatto che le nostre comunità si sono enormemente ingrandite e i nostri doveri, al fine di non danneggiare terzi, si sono quantomeno allargati (alla comunità mondo).

Tutte le tecnologie odierne presentano il problema del dual use effect.

Le situazioni attuali, quindi, richiedono risposte rinnovate.

Gli autori lanciano, infine, una provocazione. Essi dicono che, tutto sommato, il progresso scientifico ha avuto per lo più effetti negativi. Questo perché una larga parte della popolazione mondiale vive in condizioni di miseria e perché la scienza ci sta conducendo verso l’autodistruzione.

Il fatto che sia più facile arrecare danno che benefici accentua l’importanza che il nostro comportamento sia sotto controllo da un punto di vista morale e informato dal punto di vista fattuale. Poiché il nostro potere di azione è allargato grazie alla tecnologia scientifica, la nostra capacità di arrecare danno cresce più della nostra capacità di portare benefici […]. In una democrazia la responsabilità di decidere ricade in ultima battuta sulle spalle dei votanti, ed essi dovrebbero essere moralmente attrezzati e scientificamente informati per comportarsi nella maniera corretta. Decisioni sagge richiedono non solo una buona conoscenza scientifica ma anche l’internalizzazione di un robusto e ben fondato insieme di valori[24].

 

Essi richiamano, pertanto, la necessità di mettere capo a una scienzo-sofia, intesa come saggezza morale che ha di mira la definizione degli scopi della ricerca scientifica e le sue applicazioni pratiche.

In particolare, l’informazione scientifica e un robusto senso morale dovrebbero essere in grado di evitare investimenti in linee di ricerca, come quelle militari o quelle sulla longevità perché, ad esempio quest’ultima, andrebbe a esacerbare divari esistenti.

Anche se in un futuro prossimo la scienza fosse in grado di risolvere tecnicamente il problema dei cambiamenti climatici o dell’ambiente ci sarebbe sempre il problema di possibili usi distorti del potere tecnologico.

 

  1. Obiezioni e chiarificazioni teoriche

Tra le principali obiezioni mosse alle argomentazioni di Persson e Savulescu ci sono quelle di Harris, Agar, Beauchamp[25].

Secondo Harris, come accennato già nel paragrafo precedente, il biomoral enhancement metterebbe a repentaglio la libertà dell’uomo e, giocoforza, l’essenza stessa della morale, in quanto un comportamento può dirsi morale se è il risultato di una libera scelta dell’individuo.

Una cosa che possiamo dire, con buon margine di sicurezza, è che la competenza morale non significa “essere migliori nell’essere buoni”, piuttosto significa “essere migliori nel conoscere il bene e comprendere che cosa verosimilmente può condurre al bene”. Lo spazio tra il conoscere il bene e fare il bene è una regione completamente governata dalla libertà. La conoscenza del bene è premessa necessaria, ma la libertà di sbagliare è tutto. Senza la libertà di sbagliare, il bene non può essere una scelta, e una volta sparita la libertà, con essa anche la virtù. Non vi è alcuna virtù nel fare ciò che devi[26].

 

Secondo Agar, invece, il biomoral enhancement

è pericoloso non a causa del fine che persegue, ma, invece, a causa del modo in cui i bioenhancers morali quasi sicuramente lavoreranno. Non ci sono verosimilmente pillole o iniezioni che producano direttamente in noi giudizi morali superiori o motivazioni superiori. I bioehnacers morali raggiungeranno quel fine indirettamente, rinforzando alcune delle diverse collezioni di inputs cognitivi, emotivi, motivazionali nella riflessione morale […]. Potenziamenti non bilanciati possono avere effetti negativi […] e produrre, addirittura, peggioramenti dal punto di vista morale […]. Il rafforzamento di componenti del giudizio morale non produce un miglioramento del giudizio morale come un tutto[27].

 

Beauchamp, ancora, sottolinea la difficoltà di individuazione di specifiche disposizioni morali da implementare. Inoltre, sostiene che la simpatia ed empatia, viste quali componenti-base della disposizione morale all’altruismo, non sono precisamente definite da Persson e Savulescu[28].

Persson e Savulescu cerano di rispondere a queste e altre questioni in un articolo pubblicato recentemente sul Journal of Medical Ethics[29]. Altre considerazioni sono sviluppate in un articolo scritto a quattro mani da Guy Kahane e Savulescu[30] e in un capitolo del volume collettaneo The Future of Bioethics: International Dialogue[31].

Innanzitutto in KS (Kahane-Savulescu) viene elaborata una differenza tra supernatural enhancement e normal range enhancement. I due autori, infatti distinguono tra interventi di enhancement radicale, che sono lungi dall’essere disponibili e interventi di enhancement che sono già alla portata dell’uomo. È su questi ultimi che il dibattito dovrebbe concentrarsi[32].

In un passaggio rilevante è, poi, detto, apertis verbis, che

 

l’enhancement morale è un processo complesso e legato al contesto al quale possono contribuire molti fattori differenti: immaginazione morale, empatia, simpatia, altruismo, intelligenza generale, forza di volontà, desiderio di rimediare agli errori morali[33].

 

In particolare, quest’ultima considerazione sembra aprire alla possibilità di un ripensamento parziale della questione e, altresì, rispondere in modo appropriato ai rilievi di Beauchamp e Agar.

Persson e Savulescu (e gli altri autori che si sono a loro affiancati) hanno, ampiamente, messo in evidenza come gli interventi di biomoral enhancement non devono sostituire quelli tradizionali (ad esempio l’educazione scolastica) né quelli sociali[34]. Anzi, questi ultimi costituiscono lo zoccolo duro del potenziamento morale. La situazione attuale, però, consiglia di impiegare qualsiasi strumento possibile per implementare le disposizioni morali soggettive.

Inoltre, Persson e Savulescu riconoscono che l’altruismo e il senso di giustizia non sono le uniche disposizioni morali rilevanti. Essi, però, concentrano il discorso su queste per motivi pragmatici, essendo, forse, le più importanti per la definizione delle basi del senso morale.

Infine, la libertà non sembra essere messa a repentaglio dagli interventi di enhancement morale perché, in alcuni casi, essi possono, addirittura, essere opzionati dai soggetti stessi che vi si sottopongono. Negli altri casi, il discorso può essere più complesso ma valgono le seguenti osservazioni.

Se si modifica, ad esempio, il livello di serotonina presente in un individuo x, non si sta privando quell’individuo della sua libertà, più di quanto quell’individuo non fosse, già prima (con il suo livello naturale di serotonina), privo di libertà.

In effetti, sarà proprio quel livello (definito naturale) di serotonina a condizionare i comportamenti x,y,z del soggetto considerato.

Variare il livello di serotonina non farà altro che condizionare i comportamenti di quel soggetto in modo differente[35].

Sarebbe un po’ come dire che le donne sono meno libere degli uomini perché i loro livelli di ossitocina sono maggiori[36].

Se si condividono le premesse del discorso di Persson e Savulescu (il punto zero) e si conviene sulla necessità di implementare le disposizioni morali dell’individuo, risulta molto complicato formulare delle argomentazioni coerenti contro la liceità morale del biomoral enhancement (quantomeno in linea di principio).

Di fatto, anche la necessità di rendere obbligatorio l’enhancement morale (via politiche statali)[37], posta l’urgenza della situazione, risulta meno problematico di quello che sembra.

Qual è, allora, il punto?

Le argomentazioni di Persson e Savulescu, in merito alla liceità morale dell’enhancement, sono convincenti, ma, nello stesso tempo, risultano coerenti se e solo se si accetta una specifica visione della morale (quella veicolata dalla loro teoria)[38] e se si ammette la possibilità di isolare singoli elementi dell’arredo morale, l’altruismo, l’empatia, il senso di giustizia, sui quali poter intervenire attraverso tecniche biomediche complesse.

Quindi, pur non considerando illecito il biomoral enhancement, avanzo il sospetto che sia sovrastimata la possibilità di isolare dei segmenti del comportamento morale di un individuo dal complesso intreccio di cui tale comportamento è il precipitato ultimo[39].

Se così stanno le cose, probabilmente, puntare su massicci finanziamenti in questa direzione è problematico, ancorché non da escludere.

 

  1. Una possibile prospettiva per il dibattito in corso

Il biomoral enhancement, in definitiva, è la soluzione al problema della “sopravvivenza dell’uomo”?

Se da un lato, la premessa dell’impianto argomentativo di Persson e Savulescu (quella che ho definito punto zero) è suffragata da una mole di dati impressionante[40] e se, ancora, non si ravvisano argomentazioni morali, assolutamente convincenti, circa l’illiceità dell’enhancement morale tramite tecnologie non tradizionali, è, altrettanto, chiara la difficoltà di avere dati incontrovertibili al riguardo.

La tesi che intendo, qui, brevemente, sviluppare è che risulta difficile associare l’enhancement morale, inteso come potenziamento delle disposizioni morali fondamentali (senso della giustizia e altruismo), alla messa in atto di interventi volti ad aumentare (o diminuire), ossia variare il livello quantitativo, di determinate componenti bio-chimiche dell’organismo.

Pertanto, il punto cruciale non sarebbe (tanto) se l’enhancement morale è lecito o meno (a tale questione risponderei positivamente) ma che cosa deve intendersi per enhancement morale e se la variazione quantitativa nel livello di una o più sostanze chimiche dell’organismo ci consente di ottenerlo. La risposta a questi interrogativi può portarci a ritenere che l’importanza attribuita al biomoral enhancement (nei termini proposti da Persson e Savulescu) è sovrastimata e che, di conseguenza, la ricerca e gli investimenti in questa direzione, non andrebbero, probabilmente, sopravvalutati[41].

Ho detto, nella premessa dell’articolo, che i principali concetti impiegati in ambito morale (senso di giustizia, altruismo, simpatia, etc.) 1) non sono mai riducibili a singoli elementi del corredo bio-fisico umano e, più ampiamente, 2) sono sempre il risultato di molteplici fattori sui quali è impossibile intervenire “chirurgicamente”, 3) infine, dipendono strettamente dal contesto socio-economico e culturale entro il quale sono inseriti.

Dal momento che l’uomo è un ente naturale, risulta plausibile (e ampiamente verificato) che, nel mondo animale (e, in particolare, nella classe[42] dei mammiferi e nella famiglia delle scimmie antropomorfe) si possano rintracciare i precursori dei comportamenti morali umani[43].

Inoltre, risulta plausibile, in ragione della precedente considerazione, che i comportamenti morali dell’essere umano abbiano una base biologica e, come nel caso delle scimmie antropomorfe, siano, in parte riconducibili all’attivazione di 1) ormoni (come l’ossitocina); 2) neurotrasmettitori (come la serotonina); 3) circuiti neurali (come rilevato in molteplici esperimenti)[44].

Possiamo definire questi elementi come l’insieme delle basi biologiche del senso morale[45] .

La morale ha (certamente) una componente emotiva e una componente cognitiva (che interviene, se non altro, nella formalizzazione dei giudizi morali espliciti), ma ha, tuttavia, anche una componente culturale che va, opportunamente, messa in rilievo.

Dire che l’altruismo è una delle componenti fondamentali di qualsiasi comportamento morale, non giustifica, in maniera diretta, l’affermazione secondo la quale 1) esso può essere implementato attraverso la variazione quantitativa del livello di una determinata sostanza a esso connessa; 2) la variazione quantitativa di questa sostanza, unitamente ai mezzi tradizionali di potenziamento morale, consente un’implementazione del senso morale dell’uomo (per mezzo di un accrescimento del suo altruismo).

L’altruismo, infatti – così come gli altri concetti morali – è un concetto complesso.

Esso non può essere ricondotto (in maniera costante) alla presenza di (un certo livello di) una sostanza. Infatti, la sua definizione non è univoca. Esso dipende strettamente dal retroterra culturale (filosofico, scientifico, artistico, religioso) entro cui si colloca. Un individuo di religione x vedrà il comportamento y quale espressione di altruismo, mentre un individuo di religione k vedrà il comportamento z come espressione di altruismo.

Non basta modificare una delle componenti della disposizione all’altruismo per ottenere un potenziamento morale perché l’altruismo non è semplicemente un sentimento, ma (anche) un concetto che varia nello spazio e nel tempo, in relazione alle diverse culture umane[46].

Quale dovrebbe essere, pertanto, il target del nostro intervento? L’ossitocina? Oppure la serotonina? Prima di capire quale sostanza andare a modificare, bisognerebbe avere un’idea precisa di qual è il target del nostro intervento. In altri termini, quando diciamo che stiamo implementando l’altruismo che cosa stiamo, effettivamente, implementando? Con quale idea di altruismo ci stiamo confrontando? Persson e Savulescu danno una definizione di altruismo in termini di empatia e simpatia. Stanno, probabilmente, solo spostando il problema, senza trovare una soluzione.

Che cos’è l’empatia? Il mettersi al posto dell’altro. Ma cosa significa mettersi al posto dell’altro? In che modalità ci si può mettere al posto dell’altro? Posto, quindi, che l’altruismo sia, innanzitutto e per lo più, empatia e simpatia, il problema non è risolto.

Come posso trovare un correlato ormonale o neuronale dell’empatia?

Quest’ultima ha, entro di sé, non solo una componente emotiva (che si presenta, forse, come la più semplice da individuare) ma anche una componente cognitiva e culturale, come tutti i concetti che costituiscono l’arredo del mondo morale.

Inoltre, la disposizione all’altruismo va sempre inserita nella trama complessa degli elementi che strutturano la storia di vita di un determinato soggetto.

L’altruismo non può essere isolato dall’insieme della componenti che caratterizzano l’esistenza di un soggetto. Ogni tentativo di demarcazione rigida si rivela controproducente per una corretta comprensione delle dinamiche psicologiche soggettive.

Se le difficoltà sono così accentuate, pur condividendo la premessa dell’argomentazione di Persson e Savulescu, il sospetto è che non si dovrebbe concentrare eccessivamente l’attenzione sul biomoral enhancement.

Anzi, proprio a partire dalla condivisione della premessa e viste le difficoltà summenzionate, risulta, probabilmente, improduttivo investire ingenti somme di denaro pubblico in progetti di ricerca la cui premessa indispensabile è l’individuazione dei correlati bio-fisici di concetti morali fondamentali.

Di fatto, nonostante Persson e Savulescu insistano sulla necessità di un’azione sinergica nell’impiego dei biomoral enhancers e di mezzi tradizionali di elevazione morale (educazione in primis), l’idea che sia plausibile individuare precisamente dei marcatori morali che fungano da correlati oggettivi di concetti complessi, quali altruismo, benevolenza, senso della giustizia, empatia, simpatia, etc. risulta problematica[47].

Al di là dell’accettazione del loro impianto teorico, il merito di Persson e Savulescu è stato, in ogni caso, aver strutturato una riflessione decisiva per il campo dell’etica applicata e aver cercato delle linee di soluzione rispetto al tema della persistenza della specie homo, che non può essere più elusa dalla ricerca filosofica.

D’altro canto l’intento di questo articolo non è quello di formulare argomentazioni a favore del o contro l’enhancement morale, ma più a monte, quello di invitare a una riflessione attenta e ponderata intorno ai limiti e all’intervallo di validità nell’uso di concetti che per loro natura risultano complessi e difficili da risolvere in componenti basiche, a loro volta difficili da individuare.


[1] T. Douglas, Moral enhancement, in «Journal of Applied Philosophy», 25, 3, 2008.

[2] «Tuttavia la moralità nell’uso di tecnologie biomediche in vista del potenziamento rimane una questione controversa. Alcuni sostengono che sarebbe meglio se le persone fossero più intelligenti, vivessero più a lungo e fossero più forti fisicamente, e che non c’è nessuna obiezione all’uso delle tecnologie biomediche per il raggiungimento di questi obiettivi. Altri, invece, ritengono che il potenziamento biomedico andrebbe evitato […]. La tesi bioconservatrice può essere difesa in vari modi, ma molti dei principali argomenti sono basati su considerazioni di ordine sociale: sebbene il potenziamento potrebbe essere una cosa buona per gli individui potenziati, esso potrebbe essere, con buona probabilità, una cosa negativa per gli altri […]. Questi argomenti potrebbero risultare persuasivi se diretti alle forme di enhancement più comuni […]. Ma ci sono altri tipi di enhancement biomedico contro i quali essi sembrano essere molto meno persuasivi. In questo paper mi concentrerò su una specifica possibilità: che in futuro le persone potrebbero utilizzare la tecnologia biomedica per “potenziare” moralmente se stesse» (ibid., p. 230).

[3] Ibid.

[4] Ibid., p.231.

[5] I. Persson, J. Savulescu, The perils of Cognitive Enhancement and the Urgent imperative to enhance the moral character of humanity, in «Journal of Applied Philosophy», 25, 3, 2008.

[6] Ibid., p. 162.

[7] Id., Unfit for the future. The need for moral enhancement, Oxford University Press, Oxford 2012.

[8] Ibid., pp. 1-2.

[9] Ibid., p. 19.

[10] Ibid., p. 22.

[11] Ibid., p. 27.

[12] Ibid., pp. 39-40.

[13] Savulescu, in alcune conferenze, parla anche di “triangolo delle Bermuda dell’estinzione”, il quale sarebbe dato dall’azione congiunta dello sviluppo tecnologico, delle democrazie liberali (incapaci di far fronte efficacemente a sfide come il riscaldamento globale o la minaccia del terrorismo) e della natura deficitaria della psicologia morale umana (cfr. J. Savulescu, Unfit for the future: Genetically enhance humanity or face extinction in https://www.youtube.com/watch?v=PkW3rEQ0ab8 – ultimo accesso 03/12/2014).

[14] G. Hardin, The tragedy of the Commons, in «Science», 162, 3859, 1968.

[15] I. Persson, J. Savulescu, Unfit for the future. The need for moral enhancement cit., p. 104.

[16] Ibid., p. 106.

[17] Ibid., p 107.

[18] Ibid., p. 108.

[19] Cfr. J. Harris, Moral enhancement and freedom, in «Bioethics», 25, 2, 2011.

[20] Cfr. J. Savulescu, I. Persson, Unfit for the future, cit., p. 113.

[21] Ibid., pp. 116-117.

[22] Ibid., p. 118.

[23] Ibid., p. 121.

[24] Ibid., p. 130.

[25] Molti altri autori sono intervenuti nel dibattito ma, a mio avviso, queste sono le posizioni (contrarie) più significative. In altri casi, infatti, vengono criticati singoli aspetti delle argomentazioni di Persson e Savulescu ma non l’impianto generale, come nel caso di Fenton o Rakić (V. Rakić, Voluntary moral enhancement and the survival-at-any-cost bias, in «Journal of Medical Ethics», 40, 2014; E. Fenton, The perils of failing to enhance: a response to Persson and Savulescu, in «Journal of Medical Ethics», 36, 2010).

[26] J. Harris, op. cit., p. 104.

[27] N. Agar, Moral bioenhancement is dangerous, in «Journal of Medical Ethics», http://jme.bmj.com/content/early/2013/12/17/medethics-2013-101325

December 2013, p. 1.

[28] T. L. Beauchamp, Are we unfit for the future, in «Journal of Medical Ethics», http://jme.bmj.com/content/early/2013/12/17/medethics-2013-101728

December 17, 2013.

[29] I. Persson, T. Douglas, J. Savulescu, Reply to commentators on Unfit for the future, in A. Akabayashi (a cura di), The future of Bioethics: International Dialogues, Oxford University Press, Oxford 2014.

[30] G. Kahane, J. Savulescu, Normal Human variation: refocussing the enhancement debate, in «Bioethics», http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/bioe.12045/full  August 2, 2013.

[31] I. Persson, J. Savulescu, Reply to Commentators, op. cit.

[32] G. Kahane, J. Savulescu, op. cit.

[33] J. Savulescu, T. Douglas, I. Persson, op. cit., p. 134.

[34] Cfr. i vari articoli e saggi citati nel presente articolo.

[35] I. Persson, J. Savulescu, Reply to commentators on Unfit for the future, in «Journal of Medical Ethics»,

http://jme.bmj.com/content/early/2014/01/10/medethics-2013-101796 January 10, 2014.

[36] Vedi nota 21.

[37] Questo è un punto su cui Persson e Savulescu hanno presentato diverse (e a volte leggermente contrastanti) argomentazioni.

[38] La quale si configura come una forma di welfarismo aperto a un’etica mondiale.

[39] In altri termini, questi interventi potrebbero non sortire l’effetto sperato. D’altro canto, le ricerche già avviate in questa direzione non stanno dando risultati inequivocabili. In particolare, il setting sperimentale, in taluni casi, può amplificare determinati risultati o non coglierne la corretta portata. Lungi dal mettere capo a processi di trasformazione radicale della soggettività, gli interventi di cui parlano Persson e Savulescu potrebbero essere ben al di sotto delle aspettative.

[40] Non ultimo il report, da poco pubblicato (novembre 2014), dall’IPCC. Qui, possiamo apprendere, attraverso dati chiari e convincenti, che il cambiamento climatico antropogenico è un dato di fatto, difficilmente obiettabile, rispetto al quale resta, forse, poco tempo (se ancora ne resta) per porre rimedio (cfr. IPCC, Climate change 2014. Synthesis report. Longer report, Adottato il 1 novembre 2014).

[41] Questo non significa escluderli ma diminuirne la portata e l’importanza.

[42] Intesa in senso tassonomico

[43] La prima intuizione, in questa direzione, è stata di Darwin (C. Darwin, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872), tr. it. Bollati Boringhieri, Milano 2012), e percorsa, successivamente, da autori come de Waal (F. de Waal, Il bonobo e l’ateo (2013), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2013).

[44]Cfr. J. D. Greene, Moral Tribes. Emotion, Reason and the gap between us and them, Atlantic Books, Londra 2014.

[45] Mutuando, in parte, il titolo da quello di Neil Levy, che parla delle basi neurologiche del senso morale (cfr. N. Levy, Neuroetica. Le basi neurologiche del senso morale (2007), tr. it. Apogeo, Milano 2009).

[46] In qualche misura, potrebbe essere portato, quale argomento in grado di far emergere alcune criticità della proposta di Persson e Savulescu, quello delle molteplici realizzazioni. Vale a dire che, da un lato, potrebbero esserci molteplici fattori alla base della disposizione morale all’altruismo o al senso di giustizia, non sempre uguali, e variabili in maniera non del tutto prevedibile, da persona a persona; dall’altro alcuni fattori potrebbero essere alla base di differenti disposizioni morali. Per cui, la variabilità delle situazioni in gioco, rende estremamente difficile impostare un discorso scientifico, che dovrebbe potersi basare sulla generalizzazione e la riproducibilità di ciò che costituisce il suo oggetto.

[47] Risulta, invece, meno problematico, da questo punto di vista operare nell’ambito dell’enhancement cognitivo, dell’enhancement fisico, del mood enhancement e così via, ma questa ulteriore articolazione del discorso non può essere qui esaminata.

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