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L’impasse epistemologica, le relazioni di potere e lo stigma. Alcuni appunti sulla storia della psichiatria

Autore


Delio Salottolo

Università di Napoli - L'Orientale

Indice


  1. La tensione tra storia e passato nella “storia delle scienze”
  2. La storia della medicina e della psichiatria tra impasse epistemologica e determinazione politica
  3. Il piano dell’istituzione, lo stigma e il sé. Note conclusive

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S&F_n. 13_2015

Abstract



In this essay, I intend to analyze the epistemological, ontological and sociological complexity of the terms “normal” and “pathological” and of psychiatry tout court as a theoretical and institutional device. While “mental illness” is indeed undefinable, its definition is, nevertheless, critical to understand some aspects of social partitioning in bourgeois and capitalist modernity. Thus, the parallel tracks that I will follow here pertain on one hand to the importance of the definition of the “history of science” and on the other to the ambiguity inherent to the definition of “abnormality” itself. The conflict between facts and values is key not only in terms of scientific definition but also as for the position of the “stigmatized” in relation to the institution, the social body, the self, and within the interaction that is always determined as asymmetrical.


  1. La tensione tra storia e passato nella “storia delle scienze”

La rivoluzione scientifica o, per meglio dire, le rivoluzioni scientifiche che hanno attraversato la Modernità segnano un momento decisivo e un passaggio determinante nel rapporto tra verità e temporalità. Se da un lato una “rivoluzione” ha sempre la caratteristica di un evento improvviso che muta radicalmente la percezione delle cose e l’utilizzazione delle parole per denotare quelle cose, dall’altro è chiaro come ogni scienza e ogni nuova impostazione metodologica necessiti di un passato alle sue spalle che ne permetta il riconoscimento e ne scandisca l’autorevolezza. Il sociologo inglese Nikolas Rose definisce questa relazione tra evento e temporalità in altri termini, partendo dal presupposto che una scienza, per essere accolta e ammessa all’interno della comunità scientifica, deve «avere un lungo passato – che ne garantisce la rispettabilità –, ma una breve storia – che ne assicura la scientificità»[1]. In questo senso, si crea una relazione contraddittoria tra passato e storia, nella misura in cui sembra necessario trovare dei predecessori o degli anticipatori (il lungo passato), ma anche segnalare come l’avvicinamento alla verità sia una questione che procede per scarti improvvisi e l’attuale sia sempre una soglia rispetto al presente (la breve storia).

C’è, dunque, un problema che riguarda lo stesso impianto di ciò che può essere chiamato “storia delle scienze”: essa solitamente viene considerata come una disciplina tutt’al più erudita o collezionistica, ai limiti della curiosità intellettuale; è probabile, invece, che l’inserimento di una dimensione storica nella comprensione dei fatti e dei valori della scienza possa rappresentare una modalità particolare di ingresso in dispositivi teorici e pratici che non sono a-temporali ma storici e che determinano una certa relazione complessa con tutti gli altri ambiti dell’umano[2]. Il punto è questo: o si considera la scienza come un piano a se stante del reale e la si analizza nelle sue procedure interne e nella sua struttura portante e dunque la sua storia si racconta mediante una narrazione lineare delle sue conquiste, o si considera la scienza come uno dei piani che compongono la realtà e dunque va messa in dialogo con altri aspetti dell’umano, come la dimensione sociale, in maniera tale che la sua stessa storia definisca il luogo della sua intensità di veridizione. Tertium non datur, nella misura in cui, soprattutto nella nostra contemporaneità, la scienza sembra sempre di più promettere grandi cambiamenti e trasformazioni e, contemporaneamente, sembra dimenticare la sua storia, le sue contraddizioni e la sua intima complessità: basti pensare all’impatto che le neuroscienze stanno avendo, non soltanto sulla teoria, ma anche sulla stessa prassi (sia “prassi scientifica”, da intendersi come dimensione di procedure, investimenti pubblici e privati, riconoscimenti, sia “prassi simbolica”, da intendersi come nuovi modi di concepire vecchie determinazioni, come l’etica, la morale, l’estetica, l’economia, etc.)[3]. La relazione complessa, dunque, è quella che si viene a instaurare tra l’epistemologia, come ciò che delinea le procedure e la logica interna di una scienza o di un apparato scientifico, e la storia delle scienze, come ciò che dovrebbe determinare la tensione tra storia e passato. E ancora di più, la questione riguarda il movimento dell’autocoscienza nella scienza stessa: l’inserimento della dimensione temporale e storica, all’interno del percorso di verificazione delle procedure scientifiche, non sempre viene ammesso come elemento fondante e fondamentale; la scienza viene spesso percepita (e percepisce se stessa) come qualcosa di distante e separato non soltanto per la sua specifica specializzazione e le sue domande sempre più complesse (che hanno per oggetto la verità e il suo statuto), ma anche per il suo percepirsi al di fuori del tempo storico delle vicende umane: un neurone o una quasar posseggono una verità (scoperta o da scoprire) che è la medesima oggi, ieri, nel Medioevo o nei più inquietanti futuri immaginati o immaginabili.

Canguilhem è sicuramente colui che nel XX secolo ha posto tale questione nella maniera più articolata, soprattutto perché, con attitudine da filosofo, ha costruito un sistema in cui trova posto un’interrogazione sul ruolo dell’epistemologia, ma anche una questione ontologica sulla potenza creatrice dell’errore[4]. Nel fondamentale saggio Il ruolo dell’epistemologia nella storiografia scientifica contemporanea[5], Canguilhem nota come all’interno della riflessione sulla storia delle scienze si parta sempre dal presupposto che «la Storia dipenderebbe dalla Memoria»[6] e che la «ricerca degli antecedenti dell’attualità, ricerca più o meno estesa o abbreviata a seconda dei mezzi e dei bisogni del momento […] chiama “passato” la sua condizione attuale di esercizio e la considera in anticipo come un tutto di capacità indefinita»[7]. La storia della scienza ritiene che il passato sia una preparazione del presente, che il passato, non avendo ancora chiari gli strumenti adeguati e la metodologia esatta, rappresenti il luogo dell’errore inteso come tenebra, come inadeguatezza, come mancanza di precisione. Tutto va letto a partire dallo stato presente del progresso e quindi ciò che ha potuto anticipare lo stato attuale viene recuperato all’interno di una narrazione lineare, ciò che invece si pone agli antipodi dello stato attuale viene rigettato. In più la connessione e l’articolazione della Storia a partire dalla Memoria non fa altro che ritenere la verità e l’oggetto scientifico come sostanze più o meno immobili che attendono che lo sguardo dello scienziato le riesca a cogliere nella loro interezza e completezza. La storia della scienza non sarebbe altro che la storia del progressivo adeguamento dello spirito umano alla verità attraverso una sorta di deformazione prospettica: «la totalità del passato vi è rappresentata come su una specie di piano continuo determinato, sul quale è possibile spostare, secondo l’interesse del momento, il punto di partenza del progresso, il cui punto di arrivo è costituito proprio dall’oggetto attuale dell’interesse […] si può ritenere che ciò che la storia delle scienze ha il diritto di attendere dall’epistemologia sia una deontologia delle libertà di spostamento regressivo sul piano immaginario del passato integrale»[8]. La proposta di Canguilhem è allora «di sostituire alla storia delle scienze le scienze secondo la loro storia»[9]; il che vuol dire che la Storia non deve essere Memoria, ma deve essere Giudizio, «perché da parte del giudizio, l’errore è un incidente possibile, ma da parte della memoria ogni alterazione colpisce l’essenza»[10]. Come ha sostenuto lo stesso Bachelard (di cui Canguilhem accetta determinate impostazioni metodologiche[11]) è proprio sul terreno del modo di concepire la storia che si gioca la partita dell’epistemologia[12]. Per Canguilhem l’epistemologia è necessariamente una disciplina storica ed è immediatamente storia dell’epistemologia: il motivo è semplicissimo, da quando è mutato il quadro ontologico per cui la verità non si mostra più mediante la sua possente forza[13] ma deve essere strappata attraverso un lavoro che necessita di attrezzi concettuali sempre più specializzati, allora è chiaro come l’epistemologia, che dovrebbe rappresentare l’analisi e la definizione di tali attrezzi concettuali e di questo specifico lavoro, non possa che essere la storia di se stessa, nella misura in cui ha essa stessa una storia. Prendiamo ad esempio Kant: con il filosofo tedesco la teoria della conoscenza scientifica si è slegata dalla ricerca di un supporto ontologico e si è insediata all’interno del funzionamento dell’atto conoscitivo e della “struttura della mente” che lo rende possibile – quella che Kant chiamava rivoluzione copernicana; per Canguilhem, la riflessione di Kant non può rappresentare una qualche forma di “verità” ma soltanto l’espressione di una determinata struttura conoscitiva del proprio tempo, che ha permesso che la scienza venisse slegata da ogni altro supporto che non fosse la legiferazione propria dell’intelletto. Ecco perché la storia non è memoria ma è giudizio: la memoria definisce una linearità del percorso, il giudizio apre alla molteplicità dei sentieri. Canguilhem cita apertamente il Kant della seconda Prefazione alla Kritik der reinen Vernunft: se è vero, infatti, che l’atto conoscitivo produce l’oggetto di conoscenza (l’intelletto legislatore della natura), l’Io penso serve soltanto a rappresentare una modalità particolare di legittimazione del progresso delle scienze e dunque della ragione stessa, lasciando da parte la storicità delle stesse categorie della riflessione scientifica: «quando si pensa la storia delle scienze secondo la categoria del progresso della ragione, è difficile intravvedere la possibilità di una storia delle categorie del pensiero scientifico»[14]. È necessario, insomma, pensare al di fuori di una concezione unitaria della ragione per poterne cogliere la molteplicità espressiva e la pluralità determinante – e bisogna anche pensare al di là di un progresso lineare e costante per rendere conto della complessità della scoperta scientifica. L’epistemologia deve dunque riattivare il processo di costituzione di una storia delle categorie del pensiero scientifico e per farlo deve attuare una sorta di mimesi del lavoro dello scienziato; piuttosto che giudicare il lavoro dello scienziato del passato a partire da uno sguardo retrospettivo, scandendo la dinamica del “precursore”, l’epistemologo deve praticare la scienza e ciò «equivale allora a mimare la pratica dello scienziato, tentando di ricostruire i gesti che producono conoscenze, grazie allo studio assiduo dei testi originali in cui il produttore ha spiegato la sua attività»[15]. Questo procedimento di mimesi è fondamentale per comprendere la maniera attraverso la quale Canguilhem lavora per ricostruire la genealogia di un determinato concetto[16] e l’epistemologia storica è essa stessa una “tecnica del pensiero”, che permette di mettere in contatto l’ambito scientifico con l’ambito non-scientifico. Immergersi nei regimi discorsivi di una determinata epoca significa cogliere lo sviluppo di un determinato concetto nel suo farsi, e il farsi di un concetto non avviene semplicemente in un laboratorio al di fuori del mondo ma avviene in stretta connessione con l’insieme di pratiche (anche non scientifiche) di una determinata epoca[17].

Tale topologia mimetica contraddistingue il luogo di apparizione della pratica epistemologica e rende chiaro il suo ruolo critico in senso kantiano ma anche oltre-kantiano. L’atto di porsi all’interno di un determinato regime discorsivo significa cogliere le condizioni di possibilità di un enunciato scientifico che ha raggiunto lo statuto di verità. Ma la verità o – per meglio dire – il processo di produzione della verità si costituisce all’interno dell’insieme di possibilità che una determinata epoca ha di produrre concetti e, in questo senso, la definizione del campo di possibilità è l’operazione critica in senso kantiano. Non si tratta, però, semplicemente di un’interrogazione sulla definizione dell’oggetto conosciuto e del soggetto conoscente (a partire dalla domanda assoluta sul “che cosa” e sul “chi” della conoscenza), ma si tratta piuttosto dell’interrogazione sulla definizione dell’oggetto scientifico a partire dalle pratiche concrete che lo hanno prodotto: elaborazioni teoriche, ricerche di laboratorio, regimi di pensabilità, relazioni di potere di una determinata epoca.

Se l’impianto concettuale di Canguilhem ha un certo valore, allora il problema della relazione tra epistemologia e storia delle scienze è ancora più vivo all’interno di quelle scienze dallo statuto (perlomeno) difficile da delineare: parliamo della medicina e, in queste brevi note, soprattutto della psichiatria[18]. Quello che si dovrà chiarire è da un lato l’impasse nella quale inciampano i principi epistemologici (ma anche, più semplicemente, tassonomici) della scienza che pretende di determinare e delineare cosa sia la “follia”, e dall’altro, sulla scorta di Foucault, cercare di capire se la pretesa epistemologica della psichiatria (in tutte le sue forme anche quella che muove dai “sé neurochimici”[19]) non nasconda invece altri dispositivi e non sia determinante per la comprensione della struttura stessa della contemporaneità. Infine, si discuterà, facendo dialogare Foucault e Goffman, della questione dello stigma e si analizzerà la dimensione della psichiatria a partire da determinazioni sociologiche e antropologiche.

 

 

  1. La storia della medicina e della psichiatria tra impasse epistemologica e determinazione politica

È ancora una volta Canguilhem a indicare dove risiede la complessità della definizione epistemologica di una (pesudo)scienza come la medicina. Il problema fondamentale, cui richiama l’attenzione l’epistemologo francese, è di una semplicità disarmante: se la medicina ha come scopo primario quello di prendersi cura della salute dei malati, costruendo un ponte tra attenzione per il singolo individuo e attenzione per la specifica popolazione, allora entra in contraddizione con se stessa nel momento in cui ricorre a metodologie di ricerca che non partono dalla concretezza e dall’immanenza del caso singolo (o popolazionale) della malattia ma pretendono di fornire spiegazioni scientifiche onnicomprensive e produrre verità assolute sui fatti patologici[20].

Dunque, il problema è il discrimine tra la verità dei fatti patologici e la verità scientifica che si costruisce su di essa. In questo senso, e seguendo questa direzione, per delineare quanto sia complessa la definizione epistemologica di “malattia mentale” non possiamo fare altro che affrontare la questione dal punto di vista della storia della psichiatria – la stessa storia delle scienze chiarisce questioni epistemologiche e la stessa epistemologia non può che fare i conti con la propria storia che si sovrappone a quella delle scienze. Può essere, dunque, utile determinare quali sono stati i passaggi fondamentali negli ultimi decenni, in maniera tale da cercare di capire se la pretesa scientifica di costruire una verità sulla “malattia mentale” non vada incontro a contraddizioni difficilmente superabili. Nikolas Rose riassume in questo modo la “storia” del DSM, il Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders:

Il primo Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders, pubblicato nel 1952, venne approntato da un comitato per la nomenclatura e la statistica dell’American Psychiatric Association sulla scia delle esperienze della psichiatria durante la guerra, e concepiva le malattie mentali come reazioni della personalità a fattori psicologici, sociali e biologici […] Il DSM II, pubblicato nel 1968, era di centotrentaquattro pagine e conteneva centottanta categorie inquadrate nel linguaggio interpretativo della psicoanalisi. La terza edizione, pubblicata nel 1980, sfiorava le cinquecento pagine ed è sovente considerata una risposta alla crisi di legittimità che la psichiatria visse negli anni Settanta. La versione rivista nel 1987 sciorinava duecentonovantadue categorie, ciascuna definita da un criterio oggettivo “visibile”. Idealmente, ciascuna di queste categorie rappresentava un determinato disturbo, con un’eziologia e una prognosi specifiche, suscettibile di un particolare genere di cura. La quarta edizione, pubblicata nel 1994, arriva a ottocentottantasei pagine e classifica trecentocinquanta differenti sindromi, dal disturbo acuto da stress al voyeurismo. La quarta edizione avverte che all’interno di qualsiasi gruppo diagnostico gli individui sono eterogenei, e che le categorie vanno intese solamente come un aiuto al giudizio clinico. Essa però propone un’idea di specificità della diagnosi legata a una concezione di specificità della malattia sottostante[21].

 

Al di là delle impostazioni specifiche di ogni DSM (ma è già chiaro quanto sia vasta l’influenza del “mondo” nella definizione di “malattia mentale”), quello che risulta chiaro è che, quando si intende definire un qualcosa che vada sotto la categoria di “malattia mentale”, entrino in gioco tutta una serie di questioni che eccedono quella meramente “scientifica”. Il problema è (per così dire) “filosofico”: se la malattia mentale ha a che fare per definizione con la mente, cos’è questa mente che sarebbe suscettibile di ammalarsi? E ancora di più: che rapporto c’è tra la mente e il suo sostrato biologico e supporto fisiologico, il cervello? L’epoca delle neuroscienze non è certo la prima negli ultimi due secoli in cui la spiegazione di una “malattia mentale” venga ricercata nella struttura organica e funzionale del cervello. Ma anche: che rapporto c’è tra il singolo individuo e la comunità che lo stigmatizza come “malato mentale”? E di rovescio: quali sono gli effetti di soggettivazione che si producono nei processi di individuazione del cosiddetto “malato mentale” attraverso la stessa definizione di “malato mentale”? E ancora: come si struttura all’interno di una comunità l’idea dell’efficacia di una cura e quale ruolo occupa il “malato mentale” in questa o quell’altra organizzazione sociale e culturale? Infine: che ruolo ha avuto la psichiatria e la dicotomia normale/patologico nella formazione della cultura e della Modernità occidentale (intesa sia dal punto di vista dei regimi discorsivi sia dal punto di vista delle relazioni di potere)?

Muovendo dal presupposto che le questioni sollevate sono probabilmente (e per definizione) irrisolvibili, partiamo immediatamente da quest’ultima interrogazione. Ancora una volta, conviene prendere le mosse da Canguilhem, il quale ha pubblicato nel 1943 e rivisto nel 1966, il saggio Il normale e il patologico, che è divenuto sempre di più il punto di partenza per gli approcci alle questioni riguardanti la storia e l’epistemologia della medicina. Senza entrare nello specifico dei singoli passaggi della trattazione, l’idea di Canguilhem è che, alla base della costituzione della medicina moderna, a partire da Broussais e Comte e passando ovviamente per Claude Bernard, vi sia stata una sovrapposizione tra il piano dei fatti e la dimensione dei valori: nel momento in cui si ritiene che la malattia (il patologico) sia soltanto un eccesso o un difetto di uno stato corrispondente fisiologico (il normale), si delinea una concezione che fa della malattia un qualcosa che ha a che vedere con delle “quantità” misurabili – insomma, il passaggio dal qualitativo al quantitativo che determina l’ingresso nella maggiore età della scienza. Il problema, però, è che al di sotto della presentazione oggettiva e quantitativa dei fatti patologici si trova in realtà una determinazione che attiene alla dimensione dei valori: «come lo stato patologico è “il disordine di un meccanismo normale, consistente in una variazione quantitativa, un’esagerazione o un’attenuazione dei fenomeni normali” (Bernard 1877, p. 360), così lo stato morboso è costituito da “l’esagerazione, la sproporzione, la disarmonia dei fenomeni normali (Bernard 1876, p. 391). Chi non vede qui che il termine “esagerazione” ha un senso nettamente quantitativo nella prima definizione, e un senso piuttosto qualitativo nella seconda?»[22]. Sembra, insomma, che sia possibile determinare in maniera quantitativa e “scientifica” lo stato di salute, ma, quando si va a delineare le caratteristiche dello stato di malattia, allora subentra un linguaggio qualitativo che pone l’attenzione sulla perdita di “equilibrio”, “armonia” e “proporzione”. La posta in gioco di Canguilhem non riguarda soltanto il sottolineare la difficoltà nel determinare la correttezza epistemologica della patologia, ma il dimostrare come vi sia una differenza valoriale che l’individuo vivente istituisce tra il suo stato normale e il suo stato patologico. Quello che Canguilhem vede operare all’interno della scienza medica e psichiatrica è una sorta di “ritorno del rimosso”: se la grande rimozione della scienza moderna e occidentale ha investito la dimensione soggettiva, valoriale e qualitativa della vita, della salute e della malattia, esse ritornano appena ricoperte da una parvenza di oggettività e spuntano ogni volta che si intende mettere mano a un’epistemologia della medicina o della psichiatria. Un punto fermo della nostra trattazione e una domanda dalla quale si deve partire è, dunque, la seguente: «la differenza di valore che il vivente istituisce tra la propria vita normale e la propria vita patologica è un’apparenza illusoria che lo scienziato è legittimato a negare? Se questo annullamento di un contrasto qualitativo è teoricamente possibile, è chiaro che esso è legittimo; se non è possibile, la questione della sua legittimità è superflua»[23]. Si tratta di capire se la prospettiva da cui partire debba essere quella dell’immanenza valoriale dell’individuo o della trascendenza fattuale della scienza medica e psichiatrica e, soprattutto, quale ruolo giochi il “mondo” sia in senso “fenomenologico” sia in senso strettamente “socio-politico”.

Foucault, nella sua riflessione decennale sulla questione della malattia, del normale e del patologico, e della “follia”, aveva preso le mosse proprio da un’impostazione di carattere “fenomenologico”[24], per poi superarla nel momento stesso in cui l’abbracciava: «ma con ciò siamo forse giunti a uno dei paradossi della malattia mentale, il che ci costringe a trovare nuove forme di analisi: se la soggettività dell’insensato è, al tempo stesso, appello e abbandono al mondo, non è forse al mondo stesso che bisogna chiedere il segreto del suo enigmatico statuto? La malattia non comporta forse un nucleo di significati che deriva dall’ambito in cui si è manifestata – e in primo luogo il semplice fatto di esservi circoscritta in quanto malattia?»[25]. Il brano citato contiene, contemporaneamente, un accenno alla lettura del fatto patologico di carattere fenomenologico («il processo patologico è, come dice Binswanger, una Verweltlichung»[26]), ma già l’apertura a una concezione differente di relazione con il mondo: da un lato il “mondo” che definisce un determinato statuto per la “malattia mentale” (statuto mutevole nel tempo e nello spazio – questione epistemologica) e dall’altro un mondo che, attraverso una costruzione semantica di significati e regimi di verità, determina lo stigma che colpisce il “folle”[27] – questione politica (in senso lato). Si tratta di quella che potrebbe essere definita la grande contraddizione di Foucault, presente anche e soprattutto nella sua prima opera importante, Storia della follia, sempre in bilico tra la descrizione di una “esperienza originaria” del soggetto e una definizione “strutturalista” della determinazione di ciò che è “normale” e di ciò che non lo è a partire da precise pratiche di esclusione e assoggettamento[28]. Una “contraddizione” feconda, dunque, e capace di delineare perfettamente lo statuto della soggettività moderna, stretta costantemente tra processi di soggettivazione e procedure di assoggettamento – il soggetto moderno si determina e si riconosce proprio mediante questa tensione.

Secondo il Foucault degli anni ‘70 l’indagine epistemologica e “politica” sulla storia della psichiatria permette di accedere all’interno di uno dei dispositivi storico-genealogici fondamentali per determinare i regimi discorsivi e le relazioni di potere del mondo “moderno”.  

La riflessione di Foucault è spesso stata avvicinata a quella dell’antipsichiatria, anche se lo stesso filosofo francese ne delinea le differenze d’approccio soprattutto su una questione di “ontologia politica”: le letture anti-psichiatriche – pensiamo ad esempio all’italiano Franco Basaglia[29] – si incentravano soprattutto su una critica alla forma repressiva che assumevano le istituzioni – il potere, insomma, veniva letto come qualcosa che “priva”, e il soggetto “psichiatrizzato” come oggetto di “privazione”; Foucault, nello stesso periodo, si stava muovendo verso un’idea differente del modo di operare delle relazioni di potere nella Modernità capitalistica occidentale: esse non sarebbero semplicemente “repressive” e, al limite, non produrrebbero una dinamica di “privazione”, bensì sarebbero “produttive”, nella misura in cui il “soggetto psichiatrizzato” si trova a dover produrre su di sé un processo di soggettivazione che lo determina e lo plasma mediante un effetto di ritorno dall’oggettivo al soggettivo in chiave “produttiva”.

Il percorso di Foucault, sulla questione dell’anormalità, muove da quella che viene considerata la contraddizione fondamentale della psichiatria, contraddizione che allo stesso tempo sottolinea e oltrepassa la semplice indeterminazione epistemologica: «a lungo, e in buona parte ancora ai nostri giorni, la medicina, la psichiatria, la giustizia penale, la criminologia si sono collocate nella zona di confine che sta tra una manifestazione della verità secondo le norme della conoscenza e una produzione della verità nella forma della prova, dove però quest’ultima ha sempre teso a nascondersi sotto la prima e a farsi giustificare da essa»[30]. In questo senso, la stessa spazializzazione dell’ospedale risponde a questa duplice esigenza: quando “nasce” nella sua forma moderna, esso rappresenta proprio quel luogo separato che può permettere una tale dinamica (contraddittoria e ideologica) di veridizione. Ma poi c’è una soglia: la fisiologia bernardiana e quella che viene definita la “semplificazione pasteuriana” mutano lo scenario, nella misura in cui si scinde il ruolo del medico da quello dello “scienziato” e quello dell’ospedale da quello del laboratorio[31]. L’ospedale non è più il luogo in cui il medico produce la verità della malattia, esso diviene soltanto il luogo dell’intervento: se Foucault forse esagera nel dire che «Pasteur infliggeva così ai medici una formidabile ferita narcisistica»[32], riesce comunque a fotografare il momento in cui l’ospedale si scinde dal manicomio, e il ruolo del medico da quello dello psichiatra.

La follia, prima del XVIII secolo, rientrava nella dimensione dell’errore (non dell’anormalità, così come la concepiamo oggi) e seguiva la serie verità-errore-coscienza; a partire dal XIX secolo subentra la dinamica dell’internamento e cambia completamente il dispositivo che determina la serie, la questione ora riguarda la triangolazione di passione-volontà-libertà. Il fatto centrale, dunque, è l’internamento e il manicomio assume le medesime funzioni che ricopriva l’ospedale prima della ferita narcisistica: diviene, infatti, il luogo all’interno del quale deve avvenire il disvelamento della malattia (la dimensione della “produzione di verità” – basti pensare a Charcot[33]), e il luogo di incontro/scontro tra la volontà malata del folle e la volontà retta del medico (la dimensione delle “relazioni di potere”). Secondo Foucault, l’antipsichiatria non è soltanto il modello a lui coevo ma è una sorta di movimento parallelo alla stessa stabilizzazione della psichiatria[34] perché sin dall’inizio «a essere in questione è stata la maniera in cui il potere del medico risultava implicato nella verità di ciò che diceva e, inversamente, il modo in cui questa poteva venire fabbricata e compromessa dal suo potere»[35]. Ma il passaggio è ancora ulteriore, se è vero che i regimi di verità e le relazioni di potere all’interno delle quali si manifestano e acquistano autorevolezza sono inscindibili, si può immediatamente dire che la stessa istituzione manicomiale, come realizzazione materiale e spaziale della nascente psichiatria moderna, sia nata da una duplice esigenza: una “medica”, che imponeva l’esclusione dei folli dalla società; una “politica”, che implicava la pericolosità della follia per l’ordine e l’armonia sociale[36]. È chiaro che queste istituzioni si trovano a nascere proprio nel periodo in cui la borghesia necessitava di rafforzare la propria presa sul corpo sociale, nel momento in cui il vecchio mondo crollava e c’era la necessità di fondarne uno nuovo: la riorganizzazione del corpo sociale doveva necessariamente passare attraverso la dimensione del controllo e del disciplinamento – la follia non poteva che essere rinchiusa, le soggettività devianti disciplinate.

A Foucault, però, non interessa soltanto il versante allo stesso tempo repressivo e produttivo delle istituzioni, centrale risulta essere una questione più generale: la costituzione della soggettività normale e la costruzione del dispositivo di normalizzazione che delinea alcune caratteristiche fondamentali di partizione all’interno del corpo sociale moderno. A operare all’interno dei nuovi dispositivi di potere, che hanno accompagnato l’ascesa della borghesia, non è la dinamica della legge, bensì la dinamica della norma: se la legalità si fonda sul determinare ciò che non si deve fare – e dunque è per natura repressiva –, la norma si fonda sul determinare ciò che si deve fare – e dunque è per natura produttiva di verità, istituzioni, soggettività. La legge, inoltre, colpisce “qualcuno”, colui che la evade, la normalizzazione può essere pressoché totale, nella misura in cui qualsiasi soggetto deve adeguarsi a essa, per sentirsi “normale” e rientrare nella “normalità” della vita sociale organizzata. Il passaggio dalla dimensione della “legge” e del “prelievo” a quella della “norma” e della “produzione” (passaggio che “complica”, non che “esclude”) sancisce la nascita dell’organizzazione sociale di tipo capitalistico. In poche parole, la questione del normale e dell’anormale non riguarda soltanto l’ambito della psichiatria, o più genericamente della medicina, ma determina le stesse possibilità di soggettivazione nella Modernità, e la contiguità tra normalità e anormalità – e la facilità di passaggio dall’una all’altra – è ciò che definisce il problema fondamentale.

La domanda da porsi, dunque, è chi è l’anormale e quale sia (e se sia possibile) la sua definizione. La risposta a questa domanda non può che incrociare le difficoltà che abbiamo già incontrato nella definizione di normalità e patologia e richiama da vicino la sovrapposizione del piano dei fatti e del piano dei valori. La risposta può porsi su due versanti: uno storico-genealogico, in poche parole foucaultiano, che delinea qual è la complessità di definizione dell’anormale nella modernità; un altro sociologico e interazionista, quello proprio di Erving Goffman, che propone la nozione di stigma e lavora sulla “posizione” dell’anormale sia in seno all’istituzione psichiatrica e nella complessità dell’interazione sociale sia dinanzi al proprio sé e alla costruzione della propria identità.

Secondo Foucault sono tre le “figure” storiche che anticipano e determinano il “discorso” sull’anormale e la sua presa all’interno dell’istituzione: il “mostro umano”, l’”individuo da correggere” e il “bambino masturbatore”[37]. L’interesse per questa genealogia sta tutta nel fatto che riesce a ricostruire molte delle “aspettative” e dei “pre-giudizi” che nella quotidianità della vita sociale contemporanea si dedicano all’anormale. La prima forma di “anticipazione” è data dal cosiddetto “mostro umano”, colui che si mostra già sempre come un’infrazione all’ordine giuridico-biologico della natura e che rappresenta la forma che assume nella natura la contronatura, suscitando due forme di reazioni differenti, da un lato la “violenza”, «la volontà di soppressione pura e semplice»[38], dall’altro la “pietà” attraverso l’utilizzazione delle cure mediche; l’elemento fondamentale in questo primo dispositivo è la connessione e la confusione tra la dimensione giuridica e la dimensione biologica, vero e proprio antesignano di ogni possibile “criminologia” e di ogni atteggiamento lombrosiano («qual è il grande mostro naturale che si nasconde dietro il ladruncolo?»[39]); il mostro, infatti, non sfida soltanto le leggi positive e sociali ma, anche e soprattutto, quelle naturali – l’anormale odierno altro non sarebbe che un mostro banalizzato e sbiadito. La seconda figura genealogica (sviluppatasi in un secondo momento) è quella dell’individuo da correggere: si tratta di un importante spostamento, tale individuo, infatti, non rappresenta un’infrazione “cosmologica” o macrofisica, un disordine allo stesso tempo naturale e giuridico, bensì si presenta come un individuo piuttosto comune, la cui caratteristica è l’infrazione rispetto alle norme locali e microfisiche di disciplina; l’incorreggibile, allora, può comparire nella scuola, nell’esercito, nella famiglia o nella fabbrica e la sua caratteristica fondamentale è anche la sua più intima contraddittorietà: proprio perché non si è riusciti a disciplinarlo, l’individuo da correggere è già sempre incorreggibile, deve essere corretto nella misura in cui non può essere corretto; proprio in quanto semplicemente “indisciplinato”, tale soggetto è anche molto comune e di difficile definizione, difficile è infatti comprendere quale sia il discrimine che separa l’indisciplinato dal disciplinato, discrimine che, in linea di massima, può essere attraversato da chiunque e facilmente: «si disegna un asse della correggibile incorreggibilità, in cui ritroveremo più tardi l’individuo anormale e che servirà da supporto a tutte le istituzioni specifiche per anormali che si svilupperanno nel XIX secolo»[40]. Infine, c’è il bambino masturbatore il cui ambito è ancora più ristretto («è la camera, il letto, il corpo; sono i genitori, i sorveglianti diretti, i fratelli e le sorelle; è il medico. Insomma: la microcellula attorno all’individuo e al suo corpo»[41]) e la sua diffusione ancora maggiore, e che soprattutto riguarda praticamente chiunque: l’elemento fondamentale sta nell’ingresso della dimensione degli istinti naturali e della sessualità nella definizione della soggettività (universale, non mostruosa né semplicemente incorreggibile): «nella patologia della fine del XVIII secolo non vi sarà praticamente nessuna malattia che non abbia la possibilità di dipendere, in un modo o nell’altro, da questa etiologia sessuale»[42]; l’elemento epistemologico (ma anche “politico”) fondamentale riguarda l’intima contraddizione di un dispositivo di spiegazione universale (la sessualità) per definire ogni caso singolo: si tratta di un modo di organizzare, dal punto di vista discorsivo, il campo sociale omnes et singulatim.

Quando si parla, dunque, di “anormale” e si stigmatizza una persona come “pazza”, si mescolano in questo giudizio (e nella Modernità le parole hanno una storia e una stratificazione genealogica anch’esse) tre dimensioni: una biologico-giuridica (il mostro “cosmologico” che infrange ogni legge umana e naturale), un’altra disciplinare (l’incorreggibile che proprio non intende disciplinarsi) e un’altra sessuale e universale attraverso la serie istinto-immaginazione-piacere.

Questa genealogia delinea, allora, un quadro molto articolato: da un lato la complessità epistemologica nella definizione dell’anormalità dal punto di vista psichiatrico è spiegabile attraverso la sovrapposizione tra regimi discorsivi differenti (la biologia, la giurisprudenza, la disciplina, la sessualità) e dall’altro l’intima contraddizione dell’istituzione psichiatrica sta proprio nel dover mescolare tutti questi elementi all’interno di un dispositivo che deve gestire anomalie biologiche, infrazioni al diritto, incorreggibilità oltre ogni limite, sessualità e istintualità irrefrenabile. L’anormale, dunque, sembra essere indefinibile, ma la sua definizione è fondamentale per il funzionamento sociale. In questo senso, è spiegabile come la psichiatria del XIX secolo si definisca sia come una branca dell’igiene pubblica e della protezione sociale sia come una scienza medica, essa infatti fa da ponte tra il giuridico e il biologico e si è prodotta all’incrocio di una definizione medica della follia (la follia come “malattia” e non come errore) e una definizione normativa della follia (la follia come “pericolo sociale”): «la psichiatria, fin da quando si è messa a funzionare come sapere e potere all’interno del campo generale dell’igiene pubblica, della protezione del corpo sociale, ha sempre cercato di ritrovare il segreto dei crimini che potrebbero annidarsi in ogni follia […] ha sempre cercato di trovare il nocciolo di follia che deve per forza trovarsi in tutti gli individui che costituiscono un pericolo per la società»[43].

 

  1. Il piano dell’istituzione, lo stigma e il . Note conclusive

Il piano dell’istituzione è ciò che invece interessa maggiormente Erving Goffman, autore di un’opera tanto importante negli anni ‘60/’70 quanto pressoché dimenticata oggi: si tratta di Asylums, il noto saggio sui meccanismi dell’esclusione all’interno di quelle che vengono definite “istituzioni totali”[44]. Nonostante la lontananza tra gli approcci e soprattutto tra le finalità del discorso, Goffman potrebbe concordare con Foucault su un elemento “metodologico”: non tanto la comune critica all’istituzione psichiatrica, quanto il fatto che, per analizzare la figura dello “psichiatrizzato” (o più generalmente dello “stigmatizzato”), occorra non tanto partire da un soggettivismo fondato sulla natura umana o sull’individuo agente che costituisce la situazione, ma muovere dalle “strutture” all’interno delle quali si determina un particolare processo di soggettivazione (Foucault) e dalle situazioni in cui si costruisce o si nega il sé (Goffman). Per Foucault, sulla scia di Canguilhem, l’elemento fondamentale è la ricostruzione storico-genealogica di un dispositivo, vale a dire di un insieme complesso di tre elementi: la verità (cioè: i regimi discorsivi che la determinano come tale), il potere (cioè: le relazioni concrete che producono effetti di verità), la soggettività (cioè: la duplicità di assoggettamento/soggettivazione caratteristica della modernità capitalistica). Il compito che si assegna Goffman è, se vogliamo, più limitato ma risulta essere comunque decisivo per l’analisi del dispositivo: si tratta né più né meno di capire cosa capita a un internato (al suo sé, alla costruzione della sua identità) quando viene inserito all’interno di un’istituzione totale, a partire dall’orizzonte dello stigma, come quella dinamica specifica che si produce nell’interazione sociale tra gruppi differenti e asimmetrici. L’approccio è pienamente interazionista e non contano tanto le soggettività agenti ma le situazioni all’interno delle quali le soggettività si trovano ad agire, non conta tanto il “sé” in una sua forma assoluta o statica, nella sua “avventura” nel mondo, quanto il “sé” nel suo procedere all’interno di momenti che lo plasmano e lo determinano, con effetti di ritorno e di riproduzione delle dinamiche di costruzione dell’identità: se è vero che è «la società a stabilire quali strumenti debbano essere usati per dividere le persone in categorie e quale complesso di attributi debbano essere considerati ordinari e naturali»[45], è allora ancora più vero che vi è sempre una soglia tra un’identità sociale virtuale, che può realizzarsi a seconda dei contesti e a seconda dei pre-giudizi, e un’identità sociale attualizzata, che è già realizzata all’interno di una determinata struttura di interazione sia simbolica sia concreta. Questa soglia determina anche l’aspetto fondamentale del lavoro sociologico di Goffman: l’interazione precede sempre i soggetti che la agiscono ed è sempre a-simmetrica, in quanto i presupposti sociali definiscono già sempre dei ruoli e delle posizioni e dunque delle “parti” da agire e degli “stigmi” da rivelare, rivendicare, produrre o riprodurre. In questo senso l’istituzione totale diviene un luogo privilegiato per cogliere, in maniera parossistica, alcuni aspetti fondamentali dell’interazione sociale: e così se il piano istituzionale è quello fondamentale («un’istituzione totale può essere definita come il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che […] si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato»[46]), l’interesse principale del sociologo riguarda la struttura del sé (il self) dal momento che «nella nostra società [esistono] luoghi in cui si forzano alcune persone a diventare diverse […] un esperimento naturale su ciò che può essere fatto del »[47]. Non esiste alcun naturalismo, allora, né nella struttura dell’identità né tantomeno nelle strutture sociali tra gli individui: lo scenario di Goffman è in questo senso vicino a quello delineato da Foucault, l’uomo è già sempre immerso in dispositivi (“culturali” nel senso più vasto del termine) e il richiamo a una natura della natura umana è già sempre “sintomo” di una costruzione ideologica che ha una duplice funzione, di produzione di verità “inoppugnabili” e di costituzione di relazioni di potere “insuperabili”.

La posizione dell’internato o, più genericamente, dello “stigmatizzato” («egli possiede un attributo che lo rende diverso dagli altri, dai membri della categoria di cui presumibilmente dovrebbe far parte, un attributo meno desiderabile […] nella nostra mente, viene così declassato da persona completa e a cui siamo comunemente abituati, a persona segnata, screditata»[48]) produce una forma di costruzione e ristrutturazione del sé molto complessa; un internato in un istituto psichiatrico deve essere pronto a definire il proprio accettando una determinata immagine che è già sempre duplice e ambigua: da un lato quella della normalità dal punto di vista psichiatrico (un sé normale, sano e pronto alla vita sociale, pur consapevole della propria irriducibile “differenza” da stigmatizzato), dall’altro quella della normalità dal punto di vista sociale (un sé normale, pronto ad assumersi le proprie responsabilità, a divenire un adulto saggio e che agisce con dignità e rispetto di se stesso). Il dello psichiatrizzato e dello stigmatizzato non differisce dal sé “normale” perché introietterebbe il discorso dell’istituzione e della società per riprodurlo nella struttura della propria identità – del resto tutti parlano dalla prospettiva del gruppo di appartenenza – ma perché si costituirebbe su un duplice binario, la necessità di essere “normale” (secondo il regime discorsivo psichiatrico e sociale) accompagnato dalla necessità di rivelare la propria “diversità” e differenza. Ed è proprio su questa duplicità che sembra che Goffman riecheggi Durkheim, nella misura in cui una società qualsiasi, per definirsi, necessita della costruzione di un’identità e di una gestione dello stigma (cioè: di ciò che eccede in differenti direzioni il “normale”, insomma il “deviante”):

lo stigma non riguarda tanto un insieme di individui concreti che si possono dividere in due gruppetti, lo stigmatizzato e il normale, quanto piuttosto un processo sociale a due, assai complesso, in cui ciascun individuo partecipa in ambedue i ruoli, almeno per quello che riguarda certe connessioni e durante certi periodi della vita. Il normale e lo stigmatizzato non sono persone, ma piuttosto prospettive[49].

 

Per concludere queste note sparse e un po’ disordinate, si può forse cogliere quale sia l’importanza di una storia delle scienze che sia considerata a tutti gli effetti parte determinante della stessa scienza sulla quale lavora: qualsiasi sia l’immagine che possiamo avere della medicina o della psichiatria, è fin troppo chiaro che la definizione di un’epistemologia definitiva non soltanto sia insensata (la scienza è per definizione ciò che supera costantemente se stessa) ma nasconda le implicazioni che una determinata scienza necessariamente produce (e riproduce) nella relazione con altri ambiti dell’umano. Si tratta di una forma di apertura e, probabilmente, di onestà intellettuale: la scienza (e non soltanto quelle dallo statuto più indefinibile, come la biologia, la medicina e, al suo interno, la psichiatria) è uno dei piani interconnessi che compongono la nostra realtà ed è essa stessa oggetto di “storia” (e non semplicemente di “passato”) e la produttività della sua storia, soprattutto con gli strumenti della genealogia, permette di chiarirne funzioni e scopi che sono immediatamente e già sempre extrascientifici. La medicina e la psichiatria, poi, nel loro essere fondamentalmente scienze (se vogliamo usare ancora il termine) umane e sociali, mettono in campo un apparato discorsivo e specifiche relazioni di potere che esondano dai tranquilli argini della scienza moderna da laboratorio, e scendono in piazza e si confrontano costantemente con tutte le domande “assolute” che l’uomo rivolge a se stesso e alla sua storia: chi sono e come posso fare a diventare ciò che sono.


[1] N. Rose, La politica della vita (2007), tr. it. Einaudi, Torino 2008, p. 299.

[2] Va da sé che la verità, anche quella “scientifica”, è una questione storica e sociale – questo l’insegnamento dell’epistemologia francese a partire da Bachelard e fino a Foucault, passando ovviamente per Canguilhem.

[3] Per la complessità della “questione neuroscienze” cfr. «S&F_scienzaefilosofia.it», 5, 2011, consultabile liberamente su www.scienzaefilosofia.it. Il dossier è interamente dedicato al problema.

[4] Canguilhem, sulla scorta della scoperta del DNA e della sua funzione di trascrizione, scrive un saggio molto interessante sul rapporto che intercorre tra concetto e vita, richiamando Kant e proponendo una definizione ontologica dell’errore. Cfr. G. Canguilhem, Le concept e la vie (1966), in Id., Études d’histoire et de philosophie des sciences concernant les vivants et la vie, Paris, 1968, pp. 335-364

[5] G. Canguilhem, Il ruolo dell’epistemologia nella storiografia scientifica contemporanea, in Id., Ideologia e razionalità nella storia delle scienze della vita (1977), tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1992, pp. 1-22.

[6] Ibid., p. 2.

[7] Ibid., p. 4.

[8] Ibid., pp. 4-5.

[9] Ibid., p. 3.

[10] Ibid., p. 2.

[11] Cfr. G. Canguilhem, Un’epistemologia concordataria (1957), tr. it. in «Discipline Filosofiche», XVI, 2, 2006, pp. 21-29.

[12] Su questo tema, alcuni testi di Gaston Bachelard risultano fondamentali per l’importanza “sotterranea” che hanno avuto nello sviluppo della riflessione francese e per il modo attraverso il quale declinano la questione dal punto di vista epistemologico, gnoseologico e ontologico. Cfr. G. Bachelard, Il nuovo spirito scientifico (1934), tr. it. Laterza, Bari 1978; Id., La formazione dello spirito scientifico (1938), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1995; Id., La filosofia del non (1940), tr. it. Armando Editore, Roma 1998.

[13] Cfr. H. Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia (1960), tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, pp. 7-14.

[14] G. Canguilhem, Il ruolo dell’epistemologia nella storiografia scientifica contemporanea, cit., p. 11.

[15] Ibid., p. 9.

[16] Nella direzione di una complessificazione genealogica di alcuni concetti medici e biologici cfr. G. Canguilhem, La conoscenza della vita (1952), tr. it. Il Mulino, Bologna 1976, nel quale si trovano alcuni saggi molto importanti tra i quali: Il normale e il patologico, pp. 219-237; L’essere vivente e il suo ambiente, pp. 149-183; Macchina e organismo, pp. 185-217; La teoria cellulare, pp. 73-121; La mostruosità e il portentoso, pp. 239-255.

[17] Il riferimento è chiaramente al Foucault degli anni ‘60: cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (1966), tr. it. BUR, Milano 2004; Id., L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura (1969), tr. it. BUR, Milano 2005. Sulle influenze reciproche tra Foucault e Canguilhem mi permetto di rinviare a D. Salottolo, Una vita radicalmente altra. Saggio sulla filosofia di Michel Foucault, Mimesis, Milano-Udine 2013, soprattutto pp. 24-32 e pp. 95-99.

[18] Ottime indicazioni su tali questioni si trovano in A. Pagnini (a cura di), Filosofia della medicina. Epistemologia, ontologia, etica, diritto, Carocci, Roma 2010.

[19] Cfr. N. Rose, La politica della vita, cit., pp. 297-352.

[20] Cfr. G. Canguilhem, Le statut épistémologique de la médecine, in «History and philosophy of life sciences», n. 100, 1988, pp. 15-29.

[21] N. Rose, La politica della vita, cit., pp. 312-313.

[22] G. Canguilhem, Il normale e il patologico, tr. it. Einaudi, Torino 1998, pp. 49-50.

[23] Ibid., p. 50.

[24] La scuola “fenomenologica” è rappresentata in Italia, in questo periodo, da Eugenio Borgna, autore di libri interessanti e molo ben scritti. Sul tema della schizofrenia cfr. E. Borgna, Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofrenica, Feltrinelli, Milano 2006 e Id., Le figure dell’ansia, Feltrinelli, Milano 2007.

[25] M. Foucault, Malattia mentale e psicologia (1954), tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 1997, p. 65.

[26] Ibid.

[27] Cfr. E. Goffman, Stigma. L’identità negata (1963), tr. it. Giuffrè Editore, Milano 1983.

[28] Cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica (1961), tr. it. BUR, Milano 2004.

[29] Cfr. F. Basaglia, L’istituzione negata, Baldini Castoldi Dalai, Milano 1998.

[30] M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), tr. it. Feltrinelli, Milano 2010, p. 285.

[31] Sulla complessità di questa trasformazione e di questa soglia epistemologica cfr. C. Bernard, Un determinismo armoniosamente subordinato. Epistemologia, fisiologia e definizione della vita, tr. it. Mimesis, Milano-Udine 2014. In particolare mi sia consentito di rimandare al saggio introduttivo, D. Salottolo, Claude Bernard e lo strano caso del suo “determinismo armoniosamente subordinato”, pp. 7-41.

[32] M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., p. 287.

[33] Cfr. G. Didi-Huberman, L’invenzione dell’isteria. Charcot e l’iconografia fotografica della Salpêtrière (1982), tr. it. Marietti 1820, Genova 2008.

[34] Il filosofo francese legge in questo senso anche la psicanalisi di Freud, cfr. M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., pp. 133-135.

[35] Ibid., p. 291.

[36] «Erano cinque le ragioni fornite da Esquirol per giustificare tale isolamento: 1) garantire la loro sicurezza personale e insieme quella delle rispettive famiglie; 2) liberarli dalle influenze esterne; 3) vincere le loro resistenze personali; 4) sottometterli a un regime medico; 5) imporre loro nuove abitudini morali e intellettuali» (ibid., p. 294).

[37] Cfr. M. Foucault, Gli Anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), tr. it. Feltrinelli, Milano 2009, pp. 57-78.

[38] Ibid., p. 58.

[39] Ibid.

[40] Ibid., p. 60.

[41] Ibid.

[42] Ibid., p. 61.

[43] Ibid., p. 112.

[44] E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza (1961), tr. it. Einaudi, Torino 1968.

[45] Id., Stigma, cit., pp. 1-2.

[46] Id., Asylums, cit., p. 29.

[47] Ibid., p. 42.

[48] Id., Stigma, cit., pp. 2-3.

[49] Ibid., p. 150.

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