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Il design tra persuasione e retorica. Riflessioni a margine di Peter Sloterdijk

Autore


Alessandra Scotti

Università di Napoli Federico II

Indice


  1. Il regno millenario della competenza
  2. Il design come simulazione di sovranità
  3. I primi cristiani facevano il segno del pesce e si credevano salvi
  4. Dasein ist design

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S&F_n. 17_2017

Abstract


Design between Persuasion and Rhetoric. Footnotes to Peter Sloterdijk


What is design? In this article we’ll try to explain how design is a phenomena of contemporary world, as an expression of the power typical of human being. In this regard, design, is conceived from the point of view of “operativeness”, and it shows how post-modernism is born from modernism, with no empowerment from a logic of power. Furthermore design shows several points of contacts with the ancient rhetoric: both of them work as “simulators of sovereignty”, by giving a power otherwise impossible to give. Rhetoric, ritual, power: through these three categories we are going to rethink design as one of the events more fascinating of postmodernism.


Persuaso è chi ha in sé la sua vita: l’anima ignuda nelle isole dei beati.

Carlo Michelstaedter

  1. Il regno millenario della competenza

“Dal design accattivante”: avremo sentito questa frase centinaia di volte. Cosa si nasconde dietro questa formula? Appare evidente un intento retorico: il design è concepito per persuaderci. L’oggetto di design affascina e, agendo come un simulatore di sovranità, restituisce un potere mancante a chi ne è attratto ossia il potere di impossessarsi di qualcosa di cui s’ignora l’intimo funzionamento. Come un traghettatore di significati, il design è la bellezza che maggiormente riluce nel sensibile, un sapere talmente superficiale da divenire profondo. Interrogarsi sul design equivale a porre in discussione l’apostolato del potere della conoscenza e chiedersi: quanto ci manca per essere davvero copernicani? Ne La condizione postmoderna, Lyotard definisce con precisione il suo oggetto di studio, vale a dire

la condizione del sapere nelle società più sviluppate. Abbiamo deciso di chiamarla “postmoderna”. […] Essa designa lo stato della cultura dopo le trasformazioni subite dalle regole dei giochi della scienza, della letteratura e delle arti a partire dalla fine del XIX secolo[1].

Tali trasformazioni, secondo Lyotard, hanno molto a che fare con la fine delle grandi narrazioni,

la funzione narrativa perde i suoi funtori, i grandi eroi, i grandi pericoli, i grandi peripli e i grandi fini[2].

Il post dell’era postmoderna sta a indicare, quindi, l’emersione di nuove strategie del sapere che oscurano il luccichio degli eroi della modernità – che si tratti di Cartesio o Magellano è indifferente – relegati al novero di non più attuali e che, tuttavia, ci pone in una condizione di epigoni rispetto a tali eroi, geni dell’operatività e dell’innovazione. La domanda intorno al postmoderno riguarda ancora una volta la condizione del sapere – che cosa posso sapere – è opportuno dunque interrogarsi sul significato di quel potere e sulle sue implicazioni. I soggetti moderni sono portatori sani di potenza, una potenza provvista di un indice d’incremento. Se la radice della conoscenza è da ricercarsi nel poter sapere più che nel sapere stesso, allora appare evidente che la storia della civiltà è da leggersi come un continuum, come una tensione inalienabile a un aumento di potenza e, di conseguenza, a una ininterrotta intensificazione della vita. A sostegno di una lettura inclusiva tra moderno e postmoderno, Peter Sloterdijk, nel saggio L’attrezzatura per la potenza, dimostra che non ci si è affatto liberati dal “sempre oltre” quale essenza della modernità europea e che quella stessa modernità, o postmodernità, può essere ancora definita come il romanzo epocale del potenziamento. Il postmoderno verrebbe quindi ricompreso nel moderno come una sua continuazione, e l’assenza di pathos nella manipolazione degli oggetti postmoderna rappresenterebbe un esito dello stesso movimento spiraliforme teso all’incremento della potenza, all’instancabile potenziamento della competenza.

La modernità, in tal modo, è la fase finale di se stessa e fino a quando continuerà a permanere nella rotazione della spirale delle competenze non potrà essenzialmente essere altro, per se stessa, se non la propria fonte di futuro[3].

Nell’ottica di Sloterdijk, dunque, la storia occidentale si configura come un regno millenario della competenza. Ma tale competenza se da un lato accresce perennemente se stessa, dall’altro vede rimpicciolirsi i propri confini, come un oggetto che pur aumentando di peso diminuisce di volume sotto la pressione del sapere.

Questo paradosso della competenza individuale al tempo stesso in crescita e in decrescita – afferma il filosofo tedesco – configura lo sfondo sul quale si sviluppa il sistema dell’individualismo moderno[4].

Dal punto di vista psicosociale ciò significa che il singolo individuo deve sapersi come detentore di

un’astratta disponibilità alla prestazione e di una concreta facoltà di prestazione[5].

Nell’universo della competenza il singolo concepisce se stesso come possessore di una sovranità parodistica, limitata alla sua sfera d’azione sempre più relativizzata e specializzata:

l’esperto moderno si trova nella condizione di potere sempre meno e sempre meglio[6]

in bilico fra l’orgoglio specista e un’ineliminabile senso di frustrazione. È proprio grazie a questa bizzarra condizione che il design trova il suo posto nel sistema.

  1. Il design come simulazione di sovranità

Il parente più prossimo della parola inglese design è l’italiano disegno; tuttavia la radice etimologica rinvia all’antenato latino signum, il che mette in luce un retroscena linguistico che dà a pensare. Più che disegnare, il design, ha a che fare col designare, si nutre più di parole che di immagini. Il design si dispone all’interpretazione: è fatto per essere interpretato nel linguaggio dei segni. Inoltre, nella lingua inglese, design funge sia da sostantivo sia da verbo (to design) con l’accezione di “architettare”, “simulare”, “ideare”, “abbozzare”, “agire in modo strategico”. Insomma, sembra che questi significati rinviino alla dimensione semantica dell’astuzia e della simulatio. È sorprendente notare che rientrano nel medesimo ambito semantico anche i termini di meccanica e macchinario. Il greco méchos indica un dispositivo escogitato per trarre in inganno e chi lo progetta è chiamato polymechanikós ossia “astuto”. L’antica radice da cui deriva la parola méchos è Magh, che si rispecchia nel tedesco Macht – “potere”, “forza” – e mögen – “volere” e “desiderare”[7]. Tale ricostruzione etimologica ben si accorda con la definizione sloterdijkiana del design:

il design non è altro che l’abile esecuzione di qualcosa per il quale non si possiede alcuna abilità. […] Cosicché il design si può definire come una simulazione di sovranità: il design è quando si può nonostante non si possa[8].

Il design si configura come il quinto lato del quadrato leibniziano, a metà strada tra il possibile e l’impossibile. Che cos’è l’arte – e dunque in design in quanto artifex – se non un poter non potere, se non l’elogio del contingente che ingloba al suo interno il possibile e il possibile di non? La potenza, e adottiamo qui la lettura agambeniana della dynamis aristotelica, è «definita essenzialmente dalla possibilità del suo non-esercizio»[9]. Ma il design riguarda, più che il non esercizio del potere, l’esercizio di un potere ironico: il designer è come un abile retore che, facendosi carico di una dissimulazione, gioca e dice senza esserne persuaso. Egli assume un atteggiamento di disimpegno rispetto alle opinioni da lui stesso pronunciate. Ma prima di soffermarci sulle affinità tra la retorica e il design, è importante sottolineare un altro aspetto: proprio in quanto forma di potere che irride se stessa, il design è un rituale contemporaneo. Come ricorda Sloterdijk:

i rituali tengono insieme le strategie vitali dei loro praticanti e possiedono in questo senso ben preciso il potere di mettere in ordine un mondo che altrimenti sfuggirebbe al controllo[10].

Il rituale fornisce cioè il repertorio gestuale necessario per superare eventi che mettono in scacco la nostra capacità di azione; esso permette di fare laddove non c’è niente da fare riorganizzando risorse vitali sufficientemente efficaci; come la domenica, che è vuota di attività ma piena di rituali. Resti di competenze rituali sono inoltre osservabili nei casi limite, come la morte di persone a noi vicine che sembra determinare una implosione delle nostre tecniche di sopravvivenza quotidiana, una crisi, che trova soluzione solo nel mettere in pratica, in un’ottica comunitaria, dei rituali ben codificati[11]. Nell’epoca contemporanea, il design rappresenta il rituale dell’incontro tra un consumatore e l’oggetto di consumo, va a sopperire, con un aspetto invitante, all’impenetrabilità delle apparecchiature di cui ogni giorno ci serviamo, dallo smartphone al computer. Così

Il design conferisce alle impenetrabili scatole nere un aspetto esteriore accessibile. Queste interfacce utente sono il make-up delle macchine; […] Quanto più la vita interna delle scatole è incomprensibile e trascendente, tanto più il suo volto dovrà sorridere al viso naturale del cliente in modo invogliante e trasmettergli questo messaggio: tu e io, noi possiamo farlo insieme[12].

Per l’utente medio l’ignoranza deve poter diventare potenza: «un utente è sempre un idiota che vorrebbe comprare sovranità»[13]. È in questa simulazione di sovranità, per l’appunto, che il design trova sorprendentemente il suo antecedente negli antichi maestri di retorica.

  1. I primi cristiani facevano il segno del pesce e si credevano salvi

Alla domanda di Socrate “di cosa si occupa la retorica?” Gorgia risponde genericamente “dei discorsi”; ma uno soltanto è il discorso retorico per eccellenza, ossia quello che conferisce potere a chi parla, il potere di persuadere. La persuasione però, secondo Platone, non si accorda con l’educazione delle anime di chi ascolta. A differenza della dialettica che produce conoscenza, la retorica produce solo credenza e piacere, si fonda sull’ignoranza e attecchisce su chi non sa. La retorica funziona come un marchingegno linguistico: anche laddove non c’è una parola adatta deve pur sempre esserci una parola cui ricorrere. Subito prima di uccidersi, nell’ottobre del 1910, Carlo Michelstaedter consegna la sua tesi di laurea, La persuasione e la rettorica, che in teoria sarebbe un’analisi della retorica in Platone e Aristotele, ma in pratica è una delle più grandi opere filosofico-letterarie che la lingua italiana partorisca in quegli anni. Come nelle grandi opere, egli scorge nella persuasione e nella retorica le due categorie filosofiche di un pensiero ostinatamente asistematico. Nella loro insanabile frattura sembra rispecchiarsi il divario tra fisiologia e gnoseologia, vita e lingua, così la retorica è definita da Michelstaedter come «l’inadeguata affermazione d’individualità»[14].

Essa è una manipolazione dell’essere, mediante la retorica l’uomo vuole costituirsi come persona, e quando dice “io so” la sua voce sembra gridare “eccomi, sono qui, riconoscimi”. In tal modo, gli uomini

poiché niente hanno, e niente possono dare, s’adagiano in parole che fingano la comunicazione: poiché non possono fare ognuno che il suo mondo sia il mondo degli altri, fingono parole che contengano il mondo assoluto, e di parole nutrono la loro noia, di parole si fanno un empiastro al dolore; con parole significano quanto non sanno e di cui hanno bisogno per lenire il dolore – o rendersi insensibili al dolore: ogni parola contiene il mistero – e in queste s’affidano, di parole essi tramano così un nuovo velo tacitamente convenuto all’oscurità[15].

Nel tratteggio di una simile origine del linguaggio, sembrano riecheggiare le parole nietzscheane sulla genesi illusoria, consuetudinaria, menzognera, morale e antropomorfa della verità, monete consunte «che hanno perduto la loro immagine e ora son considerate come metallo, non più come monete»[16]. Ci si chiederà cosa c’entrino simili considerazioni col design, ebbene se è vero che il design ha molto a che fare con una simulazione di sovranità, e che questo virtuoso esercizio di potere ricorda la retorica antica, la rettorica di Michelstaedter rappresenta la simulazione massima di sovranità, una sovranità sulla vita e della vita.

Così fiorisce la rettorica accanto alla vita. Gli uomini si mettono in posizione conoscitiva e fanno il sapere[17].

Visto sotto questa lente, il design getta la maschera, mostrandosi nella sua essenza come qualcosa che non ha niente a che fare col design in quanto tale.

  1. Dasein ist Design

Il design è l’apoteosi del funzionalismo e in esso la dicotomia tipica della modernità, tra materialità da un lato e forma dall’altro, si dissolve. Come afferma Bruno Latour in Un Prometeo cauto? Primi passi verso una filosofia del design

per quanto la vecchia dicotomia tra funzione e forma può essere vagamente mantenuta per un martello, una locomotiva o una sedia, è ridicolo applicarla a un telefono cellulare[18].

Come mai? Il fatto è che nel design la funzione sovrasta la cosa.

Il design è la forma esecutiva del funzionalismo – chi pratica il design si professa funzionalista osservante, è l’operatore del verbo funzionare, l’apostolo della fede, diffusa in tutto il mondo, nella preminenza della funzione sulla struttura[19].

Utilizzando un lessico schiettamente heideggeriano, sia Latour sia Sloterdijk s’interrogano circa la cosa, su come essa si doni o meno all’individuo. Nella sua ormai divenuta celebre riflessione sulla cosa, Heidegger pone l’esempio di una brocca: quest’ultima è l’oggetto per eccellenza, essa è il significante dell’essere del significato. È ciò che rende utensili tutti gli utensili, e questo perché la brocca è l’archetipo della macchina: esibisce esemplarmente la fecondità del nulla. Una brocca contiene perché abitata dalla mancanza. L’essenza della brocca è il mescere in quanto offrire. Siamo a un passo dal cuore dell’ontologia della cosa heideggeriana, che stabilisce esattamente che l’essenza della cosa è il dono. La cosa donantesi può offrirsi all’uomo come utilizzatore o all’uomo come raccoglitore. Quest’ultimo è l’emblema del pre-moderno, colui che raccoglie e ringrazia incarna la posizione del puro e semplice anti-design. Viceversa secondo Sloterdijk:

tutto il design scaturisce da un anti-raccoglimento, al suo inizio c’è la decisione di porre in modo nuovo la domanda sulla forma e sulla funzione delle cose[20].

I designer in nessun caso saranno “pastori dell’essere”, e la loro visione del mondo metterà perennemente in discussione i criteri gnoseologici e semiotici. Il designer legifera nello stato d’eccezione vigente:

sovrano è colui che decide sullo stato d’eccezione relativamente alla questione della forma. E il design è lo stato di eccezione permanente nelle questioni relative alla forma delle cose; esso dichiara la fine di ogni umiltà di fronte al costituirsi delle cose in forza di una tradizione e manifesta la volontà di una nuova versione di tutte le cose improntata allo spirito di un domandare radicale sulla funzione e sul suo signore e fruitore[21].

Il design, in ultima analisi, è un dispositivo la cui estensione è in grado di provare se e quanto abbiamo smesso di credere di essere moderni.

 

 


[1] J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, tr. it. Feltrinelli, Milano 2014, p. 5.

[2] Ibid., p. 6.

[3] P. Sloterdijk, L’attrezzatura per la potenza. Osservazioni sul design come modernizzazione della competenza in L’imperativo estetico. Scritti sull’arte, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2017, p. 70.

[4] Ibid., p. 71.

[5] Ibid., p. 70.

[6] Ibid., p. 71.

[7] Per l’etimologia di design si rinvia al testo di Vilém Flusser, il quale mette ben in luce la connessione tra arte e tecnica tipica del design. Cfr. Vilém Flusser, Filosofia del design, tr. it. Mondadori, Milano 2003.

[8] P. Sloterdijk, L’attrezzatura per la potenza..., cit., pp. 71-72.

[9] G. Agamben, La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Vicenza 2005, p. 285; Vedi anche “Su ciò che possiamo non fare” in Nudità, Nottetempo, Roma 2009.

[10] P. Sloterdijk, L’attrezzatura per la potenza..., cit., p. 73.

[11] Pensiamo agli studi di de Martino sulla crisi della presenza e sul pianto rituale; cfr. E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino 2000; Id. Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino 2000.

[12] P. Sloterdijk, L’attrezzatura per la potenza..., cit., p. 75.

[13] Ibid.

[14] C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi, Milano 2005, p. 98.

[15] Ibid., p. 99.

[16] Nietzsche, Su verità e menzogna, tr. it. Bompiani, Milano 2006, p. 95.

[17] C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, cit., p. 100.

[18] B. Latour, Un Prometeo cauto? Primi passi verso una filosofia del design, in «E|C», III, 3/4, 2009, p. 257.

[19] P. Sloterdijk, L’attrezzatura per la potenza..., cit., p. 77.

[20] Ibid., p. 78.

[21] Ibid., pp. 78-79.

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