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Procreare tra simbolismo e ritualizzazione. Il corpo della donna

Autore


Rossella Bonito Oliva

Università di Napoli "L'Orientale"

Indice


 

  1. Procreare
  2. La madre santa
  3. Eros, corpo, proprietà: governare la vita
  4. Desiderio e paura
  5. Il corpo esposto
  6. Immaginario della generazione

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S&F_n. 16_2016

Abstract


Procreating between Symbolism and Ritualization. Woman’s Body


The event of the birth is charged with a constellation of meanings that steal the act of engendering to the woman. Specifically, the "history" of pregnancy and its outcome are occupied by the rites and myths that survive, and are translated into codified knowledge and neutral practices. These results do not give value to birth in return, nor give attention to women who, engendering, go through a delicate phase of her physiological and psychological life. Paradoxically a sort of sacralization of the procreation in our culture sacrifices the woman, and reproduces with anthropocentrism a symbolic domain of paternalistic imprint. An oblivion in which new forms of parenting and relationship with nature are involved.


  1. Procreare

Scegliere un termine, usarlo nella comunicazione risponde a una scelta precisa, che ne concretizza il significato rispetto allo sfondo mobile del significante. Il legame tra significante e significato dà forma nella comunità alla forma di vita come sfondo di espressioni, scambio e pratiche di conoscenza. Questo accade anche con il termine “procreare” in cui il prefisso “pro” mette in gioco un’esteriorità prima spaziale e poi temporale che tocca il generare, il dar vita marcandone la differenza dal creare, dal creare dal nulla. Nonostante il passare del tempo e l’articolarsi differente delle forme di vita in contesti culturali diversi, all’atto del dare la vita a qualcuno si associa l’idea che la nascita e la crescita del nuovo nato segnino il progressivo distacco dal corpo che lo/la ha generato/a, allo stesso modo che dal rapporto amoroso che lo ha reso possibile. In altri termini in un qualsivoglia contesto culturale religioso, laico, più recentemente segnato dal progresso tecnologico e informato delle problematiche bioetiche, il procreare, pur strettamente connesso al corpo della donna nella gravidanza e nel parto, sancisce il distacco dell’evento della nascita dal corpo femminile. Se la vita permane come simbolo di rinnovamento, di forza, di crescita della vita comune – come nuova energia per il consolidamento, la difesa o le conquiste della comunità – il generare viene in qualche modo sottratto al corpo della donna[1].

Sin dalle comunità più antiche procreazione e nascita sono accompagnate da una serie di riti, dalla fissazione di modi di relazione che vanno dall’uso dei colori, alla scansione tra intimità e pubblicità nei gesti dell’igiene e dell’alimentazione in cui il corpo della donna quasi viene dissociato dal vissuto della singola persona per essere consegnato alla sfera comune[2]. Nel diritto romano questa tutela del ventre materno da parte della comunità giunge ad assicurare alla donna gravida attraverso una legge specifica un’abitazione, il sostentamento, l’esonero dai lavori materiali. In forma distinta viene poi tutelato il patrimonio della stessa in quanto appartenente alla famiglia. Le due tutele vengono poi riunificate con la legge augustea che riconosce entrambi questi diritti nelle leggi a tutela dell’intera famiglia e del suo patrimonio. Il diritto pubblico e il diritto privato si mescolano, allo stesso modo che il corpo della donna gravida viene inserito e surrogato nel diritto pubblico e la nascita assunta nel consolidamento del patrimonio di famiglia. Significativamente il procreare partecipa della contaminazione tra spazio privato della famiglia e spazio pubblico della legge radicalizzando il peso istituzionale nei legami affettivi e isolando simbolicamente il corpo femminile dai vissuti di ciascuna donna[3].

Nel Cristianesimo il diritto privato della famiglia viene incorporato nella sacralizzazione della nascita all’interno della comunità dei fedeli che si riconoscono nella ecclesia. Questo progressivo sbilanciamento dell’interesse sul nascituro, sul significato sociale della nascita attraversa sotterraneamente e continuamente il nostro universo simbolico determinando una forma di progressiva espropriazione del corpo e l’esercizio di una violenza invisibile ai danni della donna, che il progresso e la spersonalizzazione della tecnologia, allo stesso modo che il dibattito bioetico non mettono in questione[4]. Nella nostra cultura questa vicenda accompagna la storia delle donne destinate alla maternità e insieme vittime di uno strabismo simbolico: necessarie alla procreazione, ma quasi immolate al servizio della vita di una comunità e di un genere vivente. Un corpo necessario e tuttavia sottratto all’unità psicofisica vissuta e portatrice di senso della singola donna.

 

  1. La madre santa

Un caso emblematico è la figura della madre di Cristo. La Madonna genera il figlio di Dio senza essere stata fecondata da seme umano: è protagonista dell’evento miracoloso che concilia il divino e l’umano, pur conservando una posizione di secondo piano nella vita straordinaria del figlio. Nelle rappresentazioni pittoriche della Vergine non a caso viene privilegiato il momento dell’Annunciazione o la scena della Madre con il bambino spesso già cresciuto, quasi a sottolineare la funzione di sostegno alla redenzione dell’umanità, piuttosto che l’esperienza diretta della maternità di Maria che riappare poi solo alla fine nei panni della testimone tragica della morte del figlio. Eppure non è sempre stato così e non tutte le raffigurazioni di Madonne rispondono del tutto a quell’idea di fertilità e mitezza messa in figura da Piero della Francesca. Una lunga serie di Madonne incinte sono presenti nella pittura sacra medievale e molte di queste madonne presentano tratti di femminilità sensuale e ambigua che, forse per questo, inducono la Chiesa della Controriforma a vietarle e distruggerle.

Vitale da Bologna Madonna nell’attesa del parto (1359)

 

Come la Madonna incarna per la ecclesia il significato elevato del procreare, in cui gli stessi abiti alludono allo stato particolare, spogliando il corpo di ogni segno distintivo, la donna comune, investita del compito della generazione, rimane quasi spettatrice di un “evento” straordinario che la mette fuori gioco come soggetto dei propri desideri, delle proprie paure e delle proprie aspettative. Il passaggio da moglie a madre appare quasi del tutto naturale, nonostante la piena appartenenza della donna a un genere caratterizzato da acquisizioni culturali. La donna rimane incapsulata in questa ragnatela anche in una tradizione culturale profondamente trasformata e tradotta nel linguaggio secolarizzato: custode temporanea di un evento che la trascende[5].

Di fatto se la nascita coinvolge l’intera comunità, la condizione fisica e psichica della donna durante la gravidanza e il parto passano in secondo piano. Il corpo della donna viene in qualche modo sacrificato[6] al consolidamento della vita familiare prima e sociale poi. Non si tratta soltanto di quanto la donna o le donne subiscono in termini di espropriazione nel paternalismo che la scienza medica riproduce e rafforza, ma anche di tutto quanto le donne metabolizzano condizionando poi la relazione con il proprio corpo in un processo che ha in sé qualcosa di straordinario: a un tempo regolato fisiologicamente e tradotto simbolicamente nel contesto di significato della nascita che, come si è detto, autonomizza il nascituro dalla gestante, rompe l’unità dei due corpi e li espone entrambi al trauma di una perdita. Il bambino perde l’ambiente protettivo della vita fetale, la madre perde quasi una parte del corpo di cui si è presa cura come del corpo proprio, tuttavia la separazione conserva il ritmo della vita e conferisce significato all’evento della nascita. Nella misura in cui il dato di fatto del parto risulta irreversibile e gli effetti sulla vita psichica del bambino e della madre sono inevitabili, l’elaborazione di questo passaggio è affidato a un universo simbolico in cui le gradazioni e le differenze emotive dell’esperienza della donna passano in secondo piano rispetto al significato del procreare. L’istinto materno rimane intatto e l’emotività femminile acquista la scena solo quando assume il carattere del patologico e della colpa, dell’eccezione, nei casi di depressione dopo parto, del disconoscimento e del rifiuto del ruolo materno che arriva anche a forme violente. Un confinamento del patologico che permette di non intaccare l’immagine della donna/madre e lascia sotto silenzio tutto quanto ha significato nella complessità e profondità emotiva nell’esperienza ordinaria delle donne.

 

  1. Eros, corpo, proprietà: governare la vita

Nell’evolversi dei costumi, nella preoccupazione per l’insicurezza della “società degli individui” a cui i governi sovrani devono porre rimedio il destino della donna non si sottrae alla politica della vita. Là dove l’autonomia si concretizza nella responsabilità del singolo, l’individuo si distacca dall’adesione immediata al sociale che nel suo dilatarsi di fatto non garantisce maggiore libertà, ma una crescente formalizzazione delle relazioni. Il disagio della civiltà, cura necessaria di disciplina dell’umano, e il disinvestimento del corpo a favore di un pieno governo di sé incide sull’intero universo simbolico che ha la sua cifra nel dominio maschile[7], articolando i rapporti tra uomini e donne. Un dominio che non scioglie i dilemmi dell’eros: da un lato il corpo della donna incarna l’erotismo stesso e con esso quanto la disciplina della cultura tiene a freno, dall’altro quello stesso corpo consente la traduzione salutare dell’erotismo nei valori stabilizzanti della famiglia[8]. Il filo rosso di questo universo scorre dal diritto romano fino ai nostri giorni sovrapponendo eros, corpo, proprietà e governo delle vite. Il corpo gravido include virtualmente questo plesso di fattori il cui equilibrio viene garantito dalle strategie di ordine, controllo e costellazioni culturali[9]. Il sapere scientifico legittima le procedure di assistenza del processo che assicura con la procreazione e la nascita il perpetuarsi della comunità nell’ethos dell’eros, nell’igiene dei corpi e nella prevenzione delle devianze. La “buona” nascita viene messa progressivamente nelle mani del sapere/potere del medico. La presa in carico della procreazione da parte della medicina garantisce ufficialmente il miglior risultato, che richiede la sterilizzazione di ogni contaminazione e mette in questione perciò le antiche pratiche rituali di accudimento e di partecipazione affettiva. L’ospedalizzazione diventa la risposta preventiva ai rischi di una fase che in qualche modo associa la gravidanza alla situazione di pericolo, il sapere si prende in carico la sicurezza del parto e la sorte del nascituro, rispetto alle quali le emozioni più intime delle donne perdono valore. La neutralizzazione assicura e rassicura dallo sconfinamento delle emozioni maschili e femminili, dà forma lasciandosi alle spalle l’opaco sfondo di ogni singola storia.

Il paternalismo, quello medico in questo caso, diventa garanzia di protezione anche per le donne stesse che affidano il senso di fragilità, determinato dagli specifici e complessi processi ormonali, psichici in atto durante la gravidanza, a colui che sa di ciò che ella non sa, in quanto non vede, non domina, non prevede negli sviluppi. In qualche modo, se così si può dire, la donna collabora e sottoscrive questa strategia di controllo, sospende la sua emotività, si sottomette volontariamente a questa sorta di espropriazione del proprio corpo in nome della garanzia dei risultati[10]. Il momento del parto o anche la decisione di rinunciare o di non poter generare, per vari motivi personali, sociali, come ogni esperienza limite riporta tuttavia a emergenza il sentimento di perdita del due in uno o il senso di colpa e di impotenza rispetto all’obiettivo mancato, allo stato di improduttività di un ventre immaginato da uomini e donne come destinato alla procreazione. Il generare diventa a un tempo terreno di commistione di maschile e femminile e banco di prova di un persistente immaginario che vuole la donna madre per vocazione e l’uomo padre per posizione sociale.

Gli esiti del sapere medico e della prevenzione non sono decisamente garantiti, la sicurezza richiede prezzi sempre più alti nella forbice tra quanto attiene agli individui e quelli che sono i suoi compiti sociali e che rendono uomini e donne riconoscibili e tutelabili. La programmabilità va a danno della naturalità, tuttavia la natura serve ancora a spiegare l’aspirazione universale della donna alla maternità, l’istinto “materno” che non potrebbe opporsi alla difesa del nascituro: la natura rafforza l’idea della necessità delle tappe della procreazione che non ammette un altrimenti e prescrive una terapeutica divisione tra i sessi. In questa prospettiva il corpo della donna può essere monitorato, sostenuto e persino sussidiato in caso di malattia e di morte. La donna rimessa al suo corpo fragile può soltanto affidarsi docilmente alla “cura” del sapere: una strana alleanza tra chi può perché sa e chi deve perché ha in carico le sorti dell’intero genere umano.

 

  1. Desiderio e paura

La rappresentazione che fornisce Frida Kahlo di questa commistione tra paura, affidamento e desiderio è emblematica: la malattia del corpo dell’artista segnalata dal busto rigido a cui era costretta, l’immaginario della deflagrazione affidato al sangue, il sentimento di isolamento rafforzato dal letto isolato in una stanza e dall’immagine di un ventre gravido separato dal resto del corpo. L’artista chiude il circolo con la fredda pesantezza del macchinico e la larva di nuova vita che attraverso una serie di fili che si diramano e ritornano a quel corpo steso sul letto dell’ospedale di Detroit non a caso intitolato a Henry Ford.

 

Frida Kahlo Henry Ford Hospital. Il letto volante (1932)

 

Un’anatomia di paure e desideri parcellizza e ricompone il fragile equilibrio del corpo gravido su cui si addensa l’atmosfera di estraneazione e di abbandono che Frida Kahlo offre quasi come specchio alle donne incinte: uno, tanti e talvolta associati istanti che convivono in uno stesso corpo e in una sola mente. Non si tratta di un’ossessione di una donna, ma, come sempre nel caso dell’arte, di un’intensificazione che focalizzandosi sulla condizione di passività mette in luce l’impotenza della mente femminile sovraccarica di un immaginario di violenza, aspettativa e responsabilità. Frida vuole quel bambino, ma sa anche che il suo desiderio deve fare i conti con un corpo malato, deve misurarsi con l’unica possibilità di soddisfazione consentita dalle macchine, dal letto di ospedale, da un sostanziale ritiro dal mondo e dalla vita ordinaria.

Una condizione raffigurata nella sua drammaticità dall’arte e riprodotta fuori dall’arte nella spettacolarizzazione del pathos dei corpi. Questa sorta di esproprio/consegna del corpo delimita l’universo simbolico attraverso cui la neutralizzazione del corpo gravido penetra in soggetti attivi e passivi di questo evento. La donna entra sulla scena senza abbandonare una posizione laterale: può guardare attraverso l’occhio del medico o attraverso la macchina, farsi guardare esibendo il suo corpo. Condividendo l’illusione secondo cui vedere permette di controllare e mostrarsi significa assumere la posizione di protagonista, la donna in realtà sposta in avanti o fuori il senso di fragilità. Il monitoraggio attraverso frequenti ecografie spettacolarizza anche il corpo ancora invisibile del feto, rendendolo quasi più reale delle sensazioni che la donna può avvertire attraverso il suo stesso corpo. L’estetica in cui il pancione viene quasi messo in evidenza piuttosto che mascherato secondo le vecchie regole del pudore non denota una maggiore familiarità o accettazione di un corpo trasformato dalla gravidanza; costituisce piuttosto l’esibizione che rievoca il busto senza testa e senza gambe dell’immagine di Frida Kahlo: lo scatto e la postura esaltano la sporgenza e le dimensioni del ventre. Esistono servizi fotografici su donne gravide che girano su internet in cui mettere in mostra il corpo riproduce e ripete la pornografia dei corpi, nel caso del corpo gravido spogliato della densità del processo organico e fisiologico in corso: superficie spettacolarizzata e patinata che rende immortali creando un momento di protagonismo della donna. Uno/tanti corpi riproducibili in quanto produttori e consumatori di qualcosa che annulla la profondità inquietante del due in uno di una vita in gestazione: il corpo gravido, quasi un mostruum nella sua eccezionalità, si espone felicemente alla banalizzazione[11]. Modelle, attrici e donne comuni contribuiscono a un’estetica del corpo gravido.

 

  1. Il corpo esposto

Se i servizi fotografici delle donne con il pancione segnalano un’uscita dal falso pudore di un corpo nascosto e protetto dallo sguardo, esattamente come l’emancipazione dalle raccomandazioni antiche su quanto le donne potevano o non potevano fare durante il ciclo mestruale[12], il rovesciamento della riservatezza nell’esibizione non deriva da e tanto meno genera una vera consapevolezza di sé. A nostro avviso riproduce acriticamente l’immagine a senso unico della donna madre, costituisce quasi una rivendicazione, una mossa reattiva, che lascia intatto l’equilibrio dei ruoli dell’universo paternalista. Non basta uscire dal ghetto del privato, assicurarsi l’attenzione della scienza e dell’estetica se e nella misura in cui l’universo femminile rinuncia a far risuonare “un’altra voce” dissonante dall’ideale della prestazione, della produzione e della proprietà del nascituro.

Quel corpo esposto, fotografato e messo in rete rimane aderente agli schemi di una buona e sana maternità accudita dalla scienza e garantita dalla legge. Sottratti allo scatto fotografico isolato e distribuiti nell’orrore della simultaneità di corpi gravidi con volti e colori diversi i corpi gravidi di Vanessa Becroft restituiscono il vuoto della riproducibilità in cui l’assenza di committenti e di destinatari dell’atto del generare rimette ai corpi il senso di isolamento.

 

Vanessa Beecroft VB66 (Mercato Ittico di Napoli, 2010)

Se ci spingiamo oltre la macchina organizzativa, se allarghiamo lo sguardo e proviamo a interrogare l’immaginario omologato attraverso l’esperienza ordinaria, il procreare rimane un atto complesso in cui entrano in gioco beni simbolici e materiali che creano un cortocircuito. Alla famiglia ideale della pubblicità, alla narrazione di una tecnologia sempre più in grado di sostenere contro i rischi, di creare forme alternative di procreazione, al riconoscimento delle differenze sessuali resiste inspiegabilmente la crisi della famiglia, l’incapacità di mettere mano a regole in grado di governare forme alternative di procreazione, il pregiudizio sulla “buona genitorialità” di due sessi differenti. Ancora una volta la questione non riguarda il saper e il poter fare, se non in ultima istanza. Ciò che rimane in gioco è l’universo simbolico che sottende convinzioni, decisioni e teorie. E ancora una volta dietro o avanti rimane la questione di fondo della naturalizzazione della nascita la cui prima vittima, consenziente o meno, finisce per essere la donna. Là dove come insegna il diritto romano la nascita si lega al valore del maschio e della femmina, della virilità e della femminilità fuori dalle storie e dai desideri personali, all’interno dell’idea di una coincidenza tra corpo e proprietà, tra normalità e omologazione, sembra ancora difficile uscire fuori da un immaginario che nel momento stesso in cui esalta la donna/madre alimenta nel maschio la paura dell’ignoto, nel momento in cui rivendica l’ineludibile legame tra femmina e nascituro, la necessità della divisione dei sessi nella genitorialità rimuove l’unità psicofisica della donna. Nella stessa direzione il senso di potere della donna gravida si traduce dopo la nascita nel senso di proprietà in cui ella sublima le paure, attenua l’attenzione al cambiamento del proprio corpo, lascia in secondo piano la paura del parto, piuttosto che fare esperienza di una trasformazione. Dall’una e dall’altra parte si reitera una forma di negazione che isola dal mondo e dalla vita comune, spegne ogni tipo di comunicazione dell’opaca complessità del generare in nome di un narcisismo timoroso verso la singolarità irriproducibile dell’evento[13].

Sarebbe difficile se non impossibile spiegare tutto questo concentrarsi di strategie e incroci di immaginari sul procreare, in cui si gestisce e si mette in scena qualcosa isolandolo dalle sue condizioni di possibilità – l’amore, l’aspettativa e l’attesa – e dalla ricaduta di responsabilità in termini di cura e di accudimento. La spersonalizzazione rende paradossale l’identificazione del corpo della madre naturale con la procreazione e della genitorialità con l’eterosessualità, nella sottovalutazione dei vissuti in cui solo si inscrive la cifra dell’amore e della responsabilità. A fronte di mutamenti delle forme e delle regole di vita perdura un arcaico attaccamento a un universo simbolico disfunzionale all’esperienza concreta e alla relazione tra le persone.

 

 

  1. Immaginario della generazione

Ancora una volta le immagini possono meglio della riflessione restituire il nesso tra indicibile (in quanto non codificabile per la specificità dell’esperienza e non esprimibile per quella ragnatela che impedisce di andare fino in fondo nella zona grigia dei domini simbolici) e il dicibile (in quanto può essere detto o potrebbe essere detto sperimentando una diversa prospettiva). Dal momento che si tratta ancora una volta di un terreno in cui si mescolano passioni calde e fredde, potere e sottomissione, paura e aspettativa, un doppio angolo di lettura consente di avvicinarsi alla questione senza pretendere trasparenza o verità. Mettiamo a confronto due immagini una di Salvator Dalì e l’altra di Henry Moore. L’ovulo/mondo di Dalì da cui cerca di liberarsi un uomo, intitolato significativamente metafisica, enfatizzazione della procreazione come creazione di qualcosa di più grande della donna,

Salvador Dalì Bambino geopolitico guarda la nascita dell'uomo nuovo (1943)

e la statua di Moore intitolata semplicemente “madre” che restituisce anche per il suo essere posizionata in un giardino il connubio tra natura, materia e corpo gravido.

Henry Moore Mother (1983)  

 

La prima spinge lo sguardo in verticale, provando a traslare l’atto della nascita dell’uomo che esce dall’ovulo al significato più alto della creazione che lascia la donna, di piccole dimensioni con il bambino attaccato alle gambe, in posizione laterale, quasi spettatrice. La grandezza della statua di Moore si protende in orizzontale a segnalare in quel corpo grande il connubio con la natura, la solidarietà tra la materia di quel corpo, il bambino e la natura. In entrambi i casi in gioco è la donna, in entrambi i casi chi crea l’immagine è un uomo. Là dove la grandezza del corpo della madre di Moore restituisce un respiro largo, il calmo abitare lo spazio verde senza angoscia o senso di eccezionalità, la rappresentazione di Dalì dà corpo all’angoscia dell’ignoto. Provando a leggere le due rappresentazioni, Dalì appare rapito dalla visione della forza della vita e dalla rottura dell’universo fetale: ovulo e braccio maschile occupano il centro della scena. Moore che realizzerà altre statue con lo stesso titolo è impressionato dal segno che il corpo materno che accoglie al suo interno il figlio incide sullo spazio circostante che ne costituisce quasi la naturale cornice.

Le due rappresentazioni ricordano quanto la nascita trascenda lo spazio intimo del singolo: ciò che la precede e la segue è affidato all’incrocio di vite diverse, all’equilibrio con il mondo circostante, al senso di appartenenza a un mondo comune. Impossibile scegliere tra l’ovulo di Dalì e la grande madre di Moore, in quanto entrambi danno forma all’immaginario umano in tutte le sue diverse e contrastanti sfaccettature. L’uno come l’altro ritagliano un momento dell’avventura più lunga di ogni esistenza, fatta di paure e speranze, di aspettative e prove. L’esperienza mostra che mettere al mondo un figlio non comporta necessariamente amore materno, come l’amore materno non necessariamente contribuisce ad arricchire la vita emotiva del bambino. Provando a uscire dalla mitologia della famiglia che funziona soltanto grazie alle resistenze del giusnaturalismo e poco incide sulle esperienze concrete di individui e persone, sarebbe augurabile riconsegnare la nascita all’amore che non appartiene a un sesso piuttosto che a un altro, che non richiede la genitorialità fisiologica: l’amore si iscrive nella logica del dono e in quanto tale nella sua pienezza rinvia al sentimento del limite e della dipendenza reciproca, all’affidamento e al senso di responsabilità. Le immagini utilizzate in questo saggio, tra le tante che esistono, forse meglio di ogni teoria restituiscono la complessità dell’immaginario legato al procreare, insinuando almeno il dubbio che regole, saperi e valutazioni si sovrappongono alla vita ordinaria, cercando di arginare più che di salvaguardare le risorse della vita umana. Se in gioco rimane la vita in prima persona, alla fine non è importante sapere chi procrea e chi accudisce, chi ha diritti e chi ha doveri, quali sono le regole e quali le pretese. Isolare la procreazione dai soggetti coinvolti prima e dopo, neutralizzare gli sfondi emotivi da cui prende corpo ogni nascita non allarga ma riduce le possibilità date nell’orizzonte della vita comune prima e oltre i saperi e le regole. In questa prospettiva sarebbe necessario fermare lo spettacolo per dare voce all’amore e alla cura da cui soltanto il procreare acquista un senso.


[1] Cfr. sull’argomento l’interessante testo di C. Botti, Madri cattive. Una riflessione su bioetica e gravidanza, Il Saggiatore, Milano 2007.

[2] Cfr. S. Tambiah, Rituali e cultura (1985), tr. it. Il Mulino, Bologna 1995, in part. p. 195 e sgg.

[3] Si potrebbe trasferire l’analisi che fa Hanna Arendt sul progressivo impoverimento della condizione umana in Vita activa sulla ibridazione progressiva del diritto privato con il diritto pubblico alla condizione della donna: il corpo produttore e riproduttore di bios deprivato della possibilità di agire come specifico della condizione umana (cfr. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, tr. it. Bompiani Milano 1964). A questo riguardo sono illuminanti le riflessioni di P. Tabet, Lo sfruttamento della riproduzione, in S. Garboli e V. Perilli (a cura di), Non si nasce donna. Percorsi, testi e contesti del materialismo femminista in Francia, Alegre, Roma 2013, pp. 121-141.

[4] Cfr. C. Botti, op. cit.

[5] Cfr. V. Woolf, Una stanza tutta per sé, tr. it. Mondadori. Milano 2000.

[6] Usiamo il termine nel senso indicato da René Girard (cfr. Id, La violenza e il sacro, tr. it. Adelphi, Milano 20119), lo stesso Girard fa riferimento alla donna e alle associazioni simboliche con il sangue mestruale, d’altra parte il divieto dell’incesto e l’istituzionalizzazione della famiglia si accompagna alla nascita della cultura come rimedio della natura e al tramonto dal modello della società matriarcale come luogo del disordine e dell’anarchia (si veda C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, tr. it. Feltrinelli, Milano 1984; e S. Freud, Totem e tabù, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1985).

[7] Cfr. P. Bourdieu, Il dominio maschile, tr. it. Feltrinelli, Milano 2009.

[8] Cfr. G. Simmel, Filosofia e sociologia dei sessi, tr. it. Cronopio, Napoli 2004, in part. pp. 137-153; 165-184; 189-211.

[9] Rinviamo a C. Lévi-Strauss, op. cit. in particolare p. 87 e sgg.

[10] Cfr. V. Woolf che bene mette in rilievo l’ambiguità della psicologia femminile paradossalmente sottomessa per volontà e inconsapevolmente, Le tre ghinee, tr. it. Feltrinelli, Milano 1984, in part. p. 227 e sgg.

[11] R. Braidotti, Madri, mostri e macchine, Manifestolibri, Roma 2005 (questa secondo l’autrice una forza per le donne che usano piuttosto che essere usate dalla tecnologia uscendo dal corpo strumento del soggetto maschile)

[12] Cfr. S. De Beauvoir, Il secondo sesso, tr. it. Il Saggiatore, Milano 2008.

[13] Cfr. H. Arendt, Via activa. La condizione umana, tr. it. Bompiani, Milano 1991, pp. 127 e sgg.

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