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Il circolo tecnologico: dall’uomo al robot e ritorno

Autore


Rossella Bonito Oliva

Università degli Studi di Napoli "L'Orientale"

Indice


  1. La riproducibilità dell’umano
  2. Un artificio ben educato
  3. L’altra faccia dello specchio

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 S&F_n. 18_2017

Abstract


The technological Circle: from Man to Robot and return


Robotics raised new questions in the already complex relationship between technology and ethics. Robots, more than any other machine, come close to human abilities of acting and interacting. Robots are created by human intelligence, they are perceived however through the collective imagery of post-humanistic culture. To reflect on the relation between robot and man means to investigate whether robots are a reflection of mankind, or if technologic ideology has slowly molded the subject: the man of the present is a robot.


  1. La riproducibilità dell’umano

Sempre più spesso vengono organizzati festival di robotica in cui sono chiamati a intervenire filosofi la cui competenza non è così scontata quando si parla di macchine intelligenti, artifici, creazioni tecnologiche, in qualche modo “fuori”/altro, almeno apparentemente, dal contesto dell’umano in senso classico. In realtà da tempo e grazie al progresso della tecnologia le macchine non rientrano nel campo degli strumenti che sostengono, incrementano il lavoro umano. Non sono protesi, ma sostituti, a volte concorrenti come dimostra la progressiva riduzione del fabbisogno di lavoro umano con l’introduzione progressiva delle macchine nelle industrie, se non addirittura la crescita del lavoro virtuale con il capitalismo finanziario. Tuttavia se macchine e sistemi di intelligenza artificiale portano a compimento il destino della dimensione economica della vita umana, generando una paradossale identificazione tra desideri, sentimenti e possesso di sistemi di espressione e di comunicazione, l’ideazione e la “nascita” degli artifici dipende ancora dall’intelligenza umana. Questo il terreno su cui può muoversi la filosofia il cui interesse non è attirato ovviamente dalla funzionalità e dal funzionamento di questi congegni, piuttosto, là dove è ancora possibile, dalla relazione di questi con un vivente identificato dalla capacità di progettare, di aprirsi a un altrimenti e di trovare risposte “intelligenti” alle contingenze e alle emergenze dell’esistenza singolare e collettiva. Proprio la possibile riproducibilità di questa “qualità” umana apre la questione sul come e sul che cosa viene riprodotto e in ultima analisi, se di ri-produzione si parla e se il prodotto è tale – opera di se stesso – sul significato di questo fare. In ultima analisi la domanda tocca l’intenzione di potenziamento di riuscita rispetto a tutto ciò che l’uomo vorrebbe o potrebbe essere o invece di rispecchiamento di quanto l’uomo è concretamente e fattualmente. In quest’ultima ipotesi gioca la possibilità di oggettivare ciò che è più proprio dell’uomo con la difficoltà di restituire nell’intelligenza artificiale o nel robot la plasticità dinamica dell’intelligenza umana, nella prima invece entra in campo la valutazione di capacità e volontà nel cui ambito si determinerebbe una sorta di valutazione dell’umano in cui si annida il rischio di un potere su e di un’omologazione de- le menti.

In questa prospettiva contro ogni semplificazione bisogna sottolineare che l’intelligenza non è solo capacità di conoscenza e costruzione, ma anche immaginazione, sensibilità, interesse che le macchine proprio perché intelligenti traducono, riproducono e a un tempo, per la relazione con l’esperienza che caratterizza la mente umana, canalizzano, assorbono, interpretano in vista della soddisfazione, della realizzazione di uno scopo e, come sempre nell’universo umano, in vista della felicità. Il poter fare è di fatto un saper fare potenziato attraverso l’ibridazione uomo/macchina. Dall’automobile, al computer, ai cellulari proliferano oggetti, o forse bisognerebbe dire parti di un corpo composito in cui simbioticamente viviamo, ci sentiamo, partecipiamo, comunichiamo: simboli di uno status, di una capacità di accesso, di una presenza incorporano desideri e ci rappresentano conferendo la misura e il valore del nostro essere nel mondo. Possiamo coprire attraverso la comunicazione e gli strumenti di ricerca informatici distanze sempre più grandi, abitare il mondo o ridurre questo a scenario virtuale del nostro vivere comune. Più che essere, diveniamo corpi virtualmente allungati nello spazio e energeticamente sollecitati anche senza un’esperienza di prima mano, con ritmi e velocità prima inimmaginabili[1]. Se secondo la nostra tradizione occidentale l’uomo più che essere, diventa razionale disegnando il profilo culturale del “suo” genere, il nuovo corpo “artificiale” sposta, aliena in qualche modo il “corpo proprio” dal centro soggettivo, assembla materia ad altra materia sia pure in continuità con l’antica istanza antropocentrica.

Da questo punto di vista se le macchine non sono più propriamente strumenti e non lavorano in vista dell’esonero dalla fatica, intervengono piuttosto nella relazione con il mondo, sostituiscono e quasi rendono superfluo l’uomo per conto e per mano dell’uomo. Senza l’appello a una nostalgica concezione essenzialista, bisogna porre attenzione a questo processo aperto, in movimento, che coinvolge desideri, spinte, percezioni di sé in organismi dotati di una loro autonomia, se non altro perché intelligenti. In qualche modo la parte vitale, potremmo dire biologica, partecipa alla costruzione e all’estetica dell’artificio, chiamando in causa nel governo dei corpi il destino delle menti[2].

L’intelligenza artificiale ha segnato il passo decisivo quasi quanto la procreazione in vitro: una mente creata dall’uomo per l’uomo e programmata per offrire quelle risposte che spesso emozioni, carenza di esperienza, limiti di conoscenza avrebbero rese incerte. Si vede bene come in ogni artificio entri in gioco non solo la capacità di immaginazione di un tutto funzionante che fa da sfondo alla messa a punto delle parti e dei contatti necessari, ma un immaginario di aspettative e attese non sempre chiare per il limine che l’immaginario occupa tra cosciente e inconscio, tra dicibile e indicibile. Hodges, il biografo di Turing, ricorda questo fattore proiettivo nella ricerca dello scienziato di azzerare l’incidenza della differenza sessuale nelle risposte delle macchine[3]. La concentrazione mentale, se ci si permette questo termine, costituisce la forza e la debolezza di una mente disincarnata, ma i robot superano questo limite dell’intelligenza artificiale in quanto corpi in grado di muoversi, reagire, comunicare con un ambiente esterno, con altri. Il robot costituisce quasi la materializzazione non solo dell’uomo creatore, ma della capacità dell’uomo di fondersi con la sua creatura, di ibridarsi superando una possibile estraneazione dalla macchina e, se si vuole, di rispiarmarsi la vergogna prometeica per il suo ritardo rispetto alla macchina[4]. Il robot nell’impersonale sviluppo tecnologico corrisponde e risponde come unità psicofisica non diversamente da qualsiasi uomo o donna. È una vera e propria mente incorporata in grado di assolvere dei compiti, di raccogliere la sfida rispetto alle possibilità umana di fare e non fare: in ogni caso un’immagine inserita in un quadro culturale e in un immaginario che attinge a uno sfondo di apettative in cui prevalgono le emozioni e le idealizzazioni più radicate e forse arcaiche[5]. Prima o dopo la mente, lavora un immaginario collettivo, oltre che un’intelligenza collettiva, per cui i robot diventano mezzi disponibili grazie all’interazione uomo-macchina in una logica che rende strumenti entrambi, secondo un modello di azione o di pragmatica che si declina nelle singole menti. Difficile, perciò, uscire dal “mito” della robotica[6], la tecnologia è entrata nel linguaggio ordinario, è la forma di vita nella quale si determinano le comunicazioni, le azioni. La specificità della mitologia della robotica asseconda la mitologia tecnologica: offre risposte più che avviare narrazioni, riproduce le narrazioni correnti. In questo universo “siamo imbarcati”, non è possibile restare a guardare; siamo piantati, simbioticamente intrecciati alle macchine intelligenti.

Il robot è un doppio, un alter ego che nel suo essere artificiale risponde alle sollecitazioni, ai problemi e anche agli ordini sulla base di una progettazione intelligente delle dimensioni e tessuti corporei studiati in funzione dei compiti previsti grazie alla regia di una mente in grado di interagire con il mondo esterno. Se si parla di programmazione e se, dietro la programmazione vi è una mente umana, ovviamente il robot introduce un ulteriore potenziale nel raggiungimento di determinati fini. All’interno di una logica strumentale misura la capacità di raggiungere gli scopi al di là delle condizioni e degli attori interessati: nelle promesse non usa la menzogna, nel possibile errore non mette in gioco la responsabilità. In ultima analisi la robotica entra nei modi della vita comune, traduce l’arcaica differenza tra vivente razionale e vivente naturale rimarcando per alcuni aspetti la distanza dal naturale dentro e fuori dall’uomo. Da questo punto di vista la ricaduta etica di questo nuovo orizzonte – l’incidenza sulla vita comune come spazio di familiarità e di dialogo reciproco – diventa irrilevante. La promessa di potenziamento appare sottesa da un’ideologia conservatrice di sistemi di potere ormai consolidati dal consumismo e dall’organizzazione in chiave produttiva del lavoro umano.

In questa prospettiva risalire all’etimologia del termine aiuta a interpretare le costellazioni di significato della parola “ròbot”. Il termine ha origine dal termine ceco di origine slava robota che in generale indica lavoro pesante e dal ceco rab che significa schiavo. Il drammaturgo Capek ha sintetizzato i due significati nell’idea di una macchina capace di eseguire il lavoro di due operai e mezzo secondo l’intenzione del suo costruttore: un artificio che ha funzione sostitutiva del lavoratore e potenziatrice della produzione. L’artificio è perfetto, se non fosse che più che esonerare dalla fatica sostituisce due operai e mezzo, rende intercambiabile uomo e macchina, compete con l’/gli operai: ogni sostituto incrementa la possibilità di reggere la concorrenza attraverso schiavi ben lontani dall’idea della ribellione. Certo questo schiavo macchina sente gli ordini, esegue compiti attraverso una sorta di ri-sentimento, un risentimento non aggressivo o negativo in quanto subordinato all’esecuzione delle funzioni per cui è stato programmato e in-differente verso ogni relazione che non sia meramente produttiva. Un’unità operativa isolata in un complesso funzionante grazie alla quantità di lavoro distribuita lungo una catena ininterrotta. Il dramma esplicita il sogno del produttore e slatentizza la paura dell’operaio: trova immagini e parole per rappresentare un immaginario smembrato in tonalità emotive disaggreganti: la volontà di accumulazione e la paura della morte[7]. Non la fine del lavoro, ma l’essere superfluo dell’uomo per la produzione sembra essere l’esito di questo dilagare delle macchine. L’onda dell’angoscia viene arginata dalla soluzione a lieto fine ideata dall’autore: attraverso i sentimenti e l’amore anche in questi automi prende forma un’anima. L’effetto catartico del dramma ha breve vita e i fantasmi abitano ancora l’era tecnologica[8].

Non si tratta di guardare con orrore alla catastrofe come ha fatto in passato temendo che la tecnologia trasferisse in forma potenziata l’ansia di prestazione dall’uomo al suo sostituto. Certo il robot riproduce dell’uomo la capacità operativa, la condizione umana solo se ridotta alla mera dimensione lavorativa, nel raggio stretto della mera vita per usare l’espressione di Benjamin: lavorare per sopravvivere e sopravvivere per lavorare. Sarebbe forse inutile ricordare che le macchine intelligenti non hanno il problema della sopravvivenza, nella realtà in cui viviamo[9] pensare la fine dell’umano, far crescere l’immagine di un’era macchinica significa spostarsi troppo in avanti o oltre evitando la questione, tralasciando la possibilità di cogliere il senso del tempo presente, quello in cui convivono uomini e robot.

  1. Un artificio ben educato

Il problema è allora comprendere come possa nascere l’idea che queste macchine intelligenti – saltando il possibile o legittimo sentimento di ribellione – muovendosi e agendo siano in grado di oltrepassare la legge delle macchine liberando forze ed energie rischiose. O più onestamente da umani chiedersi da dove nasce la paura verso le creature dell’intelligenza umana. Dei dubbi sulla potenza pragmatica dei robot si è fatto interprete uno scrittore di fantascienza, Asimov, prima ancora che l’uso reale dei robot emergesse nelle nostre vite quotidiane. Asimov pensa alla necessità di introdurre leggi per i robot che ricordano vagamente gli imperativi kantiani: divieto di creare danno alla vita umana anche a costo del sacrificio del robot. Là dove la preoccupazione kantiana era uscire dai pericoli del narcisismo e dell’egoismo di una natura ambigua, l’ansia di Asimov sembra nascere dal sospetto che i robot possano replicare fin troppo “la banalità del male” umano.

Può sembrare eccentrico mettere in gioco la letteratura, se non fosse che questa, come ogni forma d’arte, aiuta a problematizzare questo nostro essere piantati in una mitologia tecnologica che offre risposte indebolendo la forza critica del pensiero, disattivando il dialogo tra le parti interessate al mondo come gli operai, i robot e i padroni del dramma di Capek. Senza entrare nel merito delle verità scietifiche la narrazione riesce ad attingere un orizzonte più largo del qui e ora tanto nella sua vena utopistica quanto in quella distopica. Essa va oltre, dopo o introduce una distanza, dalla acritica progressiva assimilazione dei fattori naturali con i fattori artificiali dell’umano. La fantasia nel fantastico assembla la realtà in un altrimenti inqueitando la scienza con la fantascienza, come diceva Philip Dick[10]. L’altrimenti del post e dell’oltre quando entra nel discorso scientifico si presenta con l’evidenza del risultato di un percorso coerente. Nell’acritica fede tecnologica rimane sotto silenzio la cornice culturale in cui si inseriscono forme di sapere e di agire, vita ordinaria e universo simbolico. A questo proposito Sloterdijk sottolinea come la cultura oggi agisce in senso inverso a quello convenzionale di fattore unificante e identificante, è una strategia volta ad attrezzarsi nella difesa dal pericolo e dall’ingerenza dell’Altro. E la tecnologia come la robotica, il postumano e il transumano rispondono a questo ideale di simbolico architettonico post-atomico, come nuovo inizio dopo una catastrofe non riuscendo a incidere in senso veramente innovativo nemmeno sulle categorie del Moderno. Viene meno a nostro avviso lo sfondo etico dal quale si staglia l’universo simbolico che mette insieme, apre il confronto con l’Altro sia nella proiezione verso il futuro, che nella dimensione della pluralità.

Si fa appello allora alla roboetica, termine che richiede a sua volta una decostruzione, una precisazione in senso soggettivo o altrimenti oggettivo del termine robot rispetto all’etica. In senso oggettivo basterebbe la preoccupazione di Asimov a smascherare l’irrilevanza dell’Io-artificio rispetto alle preoccupazioni umane, dal punto di vista soggettivo si dovrebbe pensare a una comunità di Io-robot autonomamente morale, cosa difficilmente ipotizzabile almeno al momento, e soprattutto per la qualità di ri-senzienti di sentimenti e preoccupazioni ancora umane di questi automi. Ci sarebbe forse l’unica possibile via d’accesso alla questione nel pensare alla forza di prestazione bisognosa di disciplina, ma ritorneremmo ancora una volta all’uomo e alle sue ipotesi di futuro. Ciononostante la questione si pone, anche se tutto ciò che si riesce a immaginare in mancanza di dati certi su quello che rimane ancora futuribile non va oltre l’ipotesi di leggi molto simili a quelle di Asimov che assicurano il creatore dalle sue creature.

  1. L’altra faccia dello specchio

Se invece l’interrogativo critico emerge da un’etica preoccupata non solo della mera vita, ma del senso della vita umana, il focus rimane l’incertezza nella consapevolezza del limite di competenza di chiunque pone domande più che offrire risposte, cercando di sottrarsi, per quanto possibile, allo spettacolo messo in atto, conservando una sorta di lateralità riflessiva. Sollevare domande per tutto quanto entra nella vita ordinaria senza che sia diventato familiare, se non altro perché appartiene a un mondo in cui è difficile sentirsi a casa propria, interpretare lo stupore o il disagio può essere l’unico ruolo della filosofia. Più che assecondare il discorso, l’unico passaggio possibile lo spostamento dello sguardo dal piano operativo, riportando la domanda sul modello di mente e di corpo a cui la robotica si ispira. Quello stesso modello di mente e di corpo entrato nel nostro linguaggio ordinario e che risponde a un’idea di efficienza e di versatilità che sembra creare il presupposto per un’idealizzazione del robot a cui forse manca soltanto al momento la bellezza a cui la filmografia rimedia in modo perfetto.

Se il robot nelle sue varie articolazioni fino al cyborg infiamma la fantasia di un transumanesimo coerente con una sorta di infantilismo narcistico[11], il riposizionamento dell’umano nelle macchine desideranti a cui il progresso della tecnologia ci destina sembra trovare l’unica strada nell’individuazione di norme. La comunità europea sta lavorando in vista di una regolamentazione dell’uso e della definizione delle responsabilità dei costruttori secondo la proposta presentata dalla deuptata lusseburghese Mady Delvaux. In questo modo si passa alla legge prima ancora che all’atto, in mancanza di una precisa conoscenza dello stato di fatto. Si assume la paura per l’incertezza e l’escamotage della sanzione per scoraggiare la colpa, conservando un vuoto di reale conoscenza ed esperienza dello stato delle cose.

Rimane una domanda di buon senso: quale robot al momento potrebbe minacciare gli uomini? O altrimenti come una equipe di tecnici potrebbe arrivare a costruire macchine distruttive per l’uomo? In definitiva sembra che le leggi possano fermare il pericolo di cui non si conosce l’entità, arrestare il male prima che se ne sia fatta esperienza. A nostro avviso la risoluzione legislativa che sembra ricalcare il vizio di generecità dei diritti umani assolve le coscienze, assume pregiudizialmente uno stato di rischio e di conflitto più che mettere in gioco l’etica. Se e nella misura in cui si pone una questione etica, questa tocca la trasformazione della vita ordinaria, del senso comune nelle prospettive aperte dalla robotica. Da questo punto di vista sollevare la questione della responsabilità, vuol dire individuare a chi e per cosa rispondere in un’ottica ancora solo futuribile. Il robot non è uno strumento dotato solo di maggiore autonomia di movimento e di azione, ma costituisce una combinazione uomo-macchina in cui l’uomo stesso non è assumibile come naturale e dunque neanche la macchina come semplice integrazione dell’artificiale in vista della trasformazione della vita umana.

Là dove il robot non è uno strumento, un’intelligenza senza corpo e nemmeno un uomo, in che modo si determina la sua relazione con l’umano, in che modo come doppio, alter ego o sosia dipende o somiglia o riproduce la condizione umana? Quando l’immaginazione prova ad andare in direzione della possibile metamorfosi umana nel robot non a caso immagina la ribellione, la vendetta o l’insubordinazione che ben si prestano a essere sanzionati e controllati, lasciando parlare la nota necrotica: si potrebbe dire che l’uomo teme che il robot riporti alla superficie il “suo” rimosso. Allora con quale filosofia potremmo interrogarci sulla trasvalutazione dell’umano nel robot: rivendicando l’autorità di un pensiero che domina in nome della verità o provando a chiedere di cosa parliamo quando parliamo di questa trasvalutazione?

Quando si parla di metamorfosi e di trasvalutazione è interessante ricercare la possibile traccia dell’umano o altrimenti riconoscere in essa l’ultimo passo di un’automazione dell’umano. Nell’idea di un capovolgimento forse rimane la questione del debito della robotica verso il consolidato governo delle vite che ha un già un lungo passato alle spalle nella cifra del lasciar morire, in cui risulta irrilevante la fine dell’umano nella proliferazione dell’offerta tecnologica. Lo sviluppo della cybernetica e della robotica va nella direzione dello scambio se non della fusione delle intelligenze in un intelletto generale che supera il gap di apprendimento e di conoscenze mettendo fuori gioco il soggetto individuale.

Il robot è programmato in vista dell’interattività, tuttavia ha più analogie con l’individuo che con qualsiasi altra forma di insieme coeso socialmente o anche affettivamente. Ovviamente un modello di individuo, la cui concezione comune rinvia comunque all’orizzonte più vasto da cui comunica, sentendosi dentro o fuori il suo habitat e il suo mondo culturale. Dietro lo sbadieramento generalizzato dell’individualismo nella nostra epoca, l’individuo come singolo è sempre più esposto alla dimensione pubblica, tanto da trasferire la sua solitudine alla folla: investito da forze, informazioni, immagini entra in gioco solo con la morte, la malattia e la sofferenza là dove sempre meno il sociale risponde, vuole o sa rispondere della dimensione personale dell’esistenza. Si parla di fine del soggetto padrone in casa propria, nel momento in cui avanza la spersonalizzazione e domina un universo monadico spostato verso la periferia, esposto alla quantità di stimoli che vengono dall’esterno. Alla fine più che centri individuati di differenze si definiscono energie centrifughe in direzione di prototipi di benessere: l’individuo della pubblicità o il supereroe ha elementi di grandi prossimità con un robot.

Forse non è la perfezionata costruzione di robot ad aver modificato l’orientamento della cultura verso una forma di adattamento allo sradicamento, alla progressiva delimitazione dell’invasione dell’altro piuttosto che a quello di socializzazione e formazione. Dal punto di vista della rappresentazione dell’umano prevale piuttosto l’ansia di prestazione che spinge a cercare nei robot una qualche forma di perfezionamento produttivo. I risultati attesi da un robot sono alla fine esecuzione di compiti, accudimento, servizio per chi evidentemente è da una parte solo un soggetto ipotetico, standardizzato, a cui il robot fa da prestatore d’opera o da interfaccia. Il destinatorio poi è prevalentemente un soggetto bisognoso, malato o fragile.

Come si immagina questa intelligenza solidale e integrativa? Come questa intelligenza ancora umana troppo umana si muove all’interno del suo ambiente, del suo mondo, tra gli altri? A questa domanda bioetica o robotetica leggi e norme rispondono a posteriori, con l’acquisizione dei fatti che garantiscono e segnano limiti lasciando da parte lo sfondo in cui prende corpo un’etica della robotica. Nel caso dell’accudimento come pensiamo il robot più sofisticato in quanto capace di modularsi con la fragilità di un bambino o di un anziano? Sorregge, imita, ma solo secondo un modello a cui vengono a mancare le sfumature emotive, come un oggetto transizionale che in qualche modo cristallizza la transizione, mantenendo il bisogno e rafforzando una forma di infantilismo psichico[12]. Sembra il reiterarsi del modello di una mente ricca di intenzioni e povera di intenzionalità come punto di convergenza del plesso corpo/mente/ambiente irriducibile al dicibile e tanto più al calcolabile da cui soltanto si alimenta un futuribile.

Peculiare da questo punto di vista è l’adattamento o meglio la combinazione tra l’etica normativa e la riflessione sulla robotica in cui la semplificazione dell’interrogativo sul rapporto tra potere e soggettivazione, tra evidenza delle norme e condizione di vita, in altri termini la degenerazione della vita umana nella biopolitica, cede il passo a un’analitica dei sentimenti, dei comportamenti in cui bene e male, buono o cattivo si ascrivono a una metaetica che esclude il fattore dell’esperienza dalla sfera dell’azione. Un’insodiosa disarticolazione del complesso universo dell’agire in cui viene meno quel processo di assoggettamento e di riduzione del simbolico del nostro presente che Foucault ricondurrebbe a un sistema di potere, a sistemi di sorveglianza e di controllo.

Certo l’intelligenza in rete o la rete delle intelligenze costituisce un potenziamento in termini oppositivi all’antropocentrismo, ma questo intelletto collettivo risponde più a un automatismo massificato che a un incremento di potenziale intellettivo nella misura in cui “una stessa mente” risponde a un immaginario certo controllato, ma non governato attraverso la conoscenza senza la quale evidentemente viene a mancare la stessa consapevolezza: l’evidenza intuitiva delle norme sarebbe sempre più simile a un segnale stradale che all’esercizio di libertà. In definitiva i robot potrebbero esercitarla solo per i controllori e lasciando ai controllati un alleggerimento dal peso del pensiero attraverso l’illusoria garanzie di certezze. Come nel caso dei farmaci il robot potrebbe aiutare soltanto nel senso della conservazione dello status quo incrementando le potenzialità dell’umano solo nella direzione di automatismi programmabili. Se pensiamo ai meccanismi azione/reazione, agli automatismi introdotti negli aerei o addirittura alle macchine oggi in progettazione è necessario pensare alla possibilità di reazione all’imprevisto in cui l’intelligenza umana, anche se non sempre, riesce a escogitare reazioni inaccessibili forse a un automatismo impostato secondo variaibili conosciute.

Che qualche dubbio rimanga è testimoniato dalla stessa preoccupazione normativa, ma la preoccupazione per il rischio della vita umana rimane generica e il bene come il male affidato a un’altrettanto generica responsabilità per decisioni che al momento non sembrano supportate da preveggenza e interesse per l’unico futuro che possiamo immaginare senza grandi speranze, per il futuro della natura umana. Non si tratta, o forse sì, di una resistenza conservatrice e veteroumanistica. A chi non piacerebbe risolvere i problemi della vita quotidiana con un robot, preoccuparsi dell’assistenza agli anziani con un robot, sottrarsi al lavoro per opera di un robot? Ma a chi sono destinati i robot, non si corre il rischio di indurre bisogni e desideri rubando il futuro a chi e a coloro che potranno al massimo immaginare le magnfiche sorti e progressive dell’uomo/robot? Non vi è spazio per la vita comune se si ragiona solo in termini normativi anche e soprattuto in ambito etico, perciò la preoccupazione giuridica e politica potrebbe essere efficace solo come prudenza. Ancora una volta il robot sembra la reiterazione del vecchio sogno di potenza – diversa da un’energia creativa – in cui il difetto di preveggenza a nostro avviso non viene compensato da norme, ma da un’attenzione improduttiva e impolitica e tuttavia critica nella dimensione condivisa dall’uomo con l’altro uomo verso l’ambiente, i viventi e l’equilibrio della vita che conserva una possibilità per l’uomo solo in una dimensione etica: l’universo robotico raggiunge al massimo le dimensioni di un’isola, riproduce e asseconda il narcisismo antropocentrico là dove assume i contorni di un’ideologia, quando entra nel linguaggio ordinario attraverso la rimozione della domanda di senso della scienza e la rivendicazione d’autorità di una filosofia che pensa di dominare l’oggetto del discorso.

Ritornando alle cose, dismettendo il pessimismo scettico, possiamo pensare a una robotica non contro ma diversamente utilizzata come accade nel caso dell’autismo, della conoscenza. In questi limiti evitiamo di pensare l’uomo come robot per poi fare del robot il nemico/amico in cui proiettare, incarnare tutto quanto rimane umano troppo umano. Ancora una volta non si riesce a immaginare un Altro. Per tutto questo rimangono i film che da tempi moderni a metropolis ricordano da tempo che non è solo questione di uomo/macchina, ma di un universo in cui entrano relazioni, paesaggi, ambiente, equilibri. Ben venga il robot che integra il lavoro umano, che pulisce il fondo marino e ci permette di esplorare territori ancora irraggiungibili per un uomo in carne e ossa, tutto il resto rimane affidato alle legittime domande e agli interrogativi degli uomini ricordando che ancora oggi siamo costretti a chiedere ragione della povertà, dell’emarginazione, del male come del bene. Se tutto questo pu sembrare antiquato sorge il dubbio che l’umanità abbia trovato l’unica vera terapia alla patologia della libertà, portando a compimento l’ultima delle possibili metamorfosi, forse quella più efficace che elimina ogni possibile domanda sulla affinità/somiglianza uomo/robot: l’uomo è già robotizzato. Ma allora viene a cadere ogni distinzione tra etica e roboetica, sarà sufficiente individuare delle variaibili, immaginare schemi per riconoscere e indurre reazioni positive e solidali. Rimane un’unica eccezione la paura e con essa il dilagare di un immaginario sull’universo simbolico che faccia da argine più che alla paura, al rimosso. C’è poco da temere quando anche il male radicale può essere tradotto in un sistema deresponsabilizzante nella banalità del male.

 

 


[1] Cfr. su questo punto U. Fadini, Divenire corpo. Soggetti, ecologie, micorpolitiche, Ombre Corte, Verona 2015.

[2] Cfr. M. Foucault, Nascita della clinica. Un’archeologia dello sguardo clinico, tr. it. Einaudi, Torino 1998.

[3] Cfr. M.K. Hayles, Come siamo diventati postumani. Corpi virtuali nella cibernetica, nella letteratura e nell’informatica (1999), tr. it. parziale in «Kainos» 6, 2006, http://www.kainos.it/indexx06.html.

[4] Si veda G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. I, Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2003.

[5] B. Henry, Dal golem al cyborg. Trasmigrazioni nell’immaginario, Belforte Salomone, Livorno 2013.

[6] Sulla spinta alla identificazione prodotta dai miti contemporanei, cfr. R. Barthes, Miti d’oggi, tr. it. Einaudi, Torino 2005.

[7] Si tratta di una “geometria delle passioni” disegnata nella rappresentazione moderna dell’umano, cfr. R. Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità e uso politico, Feltrinelli, Milano 2007.

[8] Cfr. Th. W. Adorno, Critica della cultura e società, in Prismi. Saggi sulla critica della cultura, tr. it. Einaudi, Torino 1972.

[9] Cfr. H. Blumenberg, La realtà in cui viviamo, tr. it. Feltrinelli, Milano 1987.

[10] Cfr. Ph. Dick, La mia definizione di fantascienza, in Mutazioni. Scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari, tr. it. Feltrinelli, Milano 1997, pp. 132-134.

[11] Cfr. G. Tamburrini, La simbiosi cervello-calcolatore e il transumanesimo, in L. Grion (a cura di), La sfida postumanista. Colloqui sul significato della tecnica, Il Mulino, Bologna 2013, pp. 83-99.

[12] Cfr. D. Winnicott, Sulla natura umana, tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 1989.

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