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Il potere venerato per la sua impotenza: Pierre Clastres e l’(an)archeologia “selvaggia” del politico

Autore


Delio Salottolo

Università degli Studi di Napoli "L'Orientale"

Indice


  1. Il posto di Pierre Clastres (o del fantasma dello “Stato”)
  2. Il potere può essere non-coercitivo?
  3. Il malencontre e la soglia 4. Il sintomo e l’origine

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S&F_n. 18_2017

Abstract


The Power venerated for its Impotence: Pierre Clastres and the “savage” (An)Archaeology of the Political


The paper aims to analyse the crux of the reflection of the anthropologist Pierre Clastres within the discursive regime of late modernity: is a stateless society really conceivable? And the image of a non-coercive power that goes beyond the image of Western power as a connection between command and obedience? A journey within a splendid dream, that of the most mature anthropology, and a reflection that places us before a very particular answer to those that are the two fundamental questions of modernity: what is man and what is society.


Non c’è alcuna legittimità intrinseca del potere e, a partire da questa posizione, il percorso consiste nel chiedersi che ne è del soggetto e dei rapporti di conoscenza, dal momento che nessun potere è fondato di diritto o per necessità, dato che ogni potere poggia sempre e solo sulla contingenza e sulla fragilità di una storia, che il contratto sociale è un bluff, che la società civile è una favola per bambini, che non c’è alcun diritto universale, immediato ed evidente che sia in grado di sostenere dovunque e sempre un rapporto di potere, qualunque esso sia.
Foucault

 

 

  1. Il posto di Pierre Clastres (o del fantasma dello “Stato”)

Nella riflessione politica degli anni ‘70 del secolo scorso si aggirava un fantasma e questo fantasma si chiamava “Stato”: che si tratti della forma minima e liberale, della dimensione socialdemocratica di welfare state o della declinazione ultra-pianificante e sovietica, lo “Stato” era il problema che inquietava la tarda modernità, il tutto a partire da una percezione fondamentale, una sorta di anarchismo trans-ideologico che, sulla scorta di una delle più potenti immagini nietzschiane, non poteva che posizionarsi lungo la direttrice segnata dal pensatore tedesco:

Si chiama stato il più gelido di tutti i gelidi mostri. Esso è gelido anche quando mente; e questa menzogna gli striscia fuori di bocca: “Io, lo Stato, sono il popolo”[1].

Si tratta di una delle citazioni più conosciute di Nietzsche e una di quelle maggiormente capaci di rendere profondamente il senso di un tempo, quello degli anni ‘70, in nome – occorre proprio dirlo – dell’inattualità permanente della filosofia del pensatore tedesco, la quale, all’improvviso, trova la sua “attualità” per poi riperderla nuovamente. Se la filosofia politica di quegli anni muoveva sempre di più verso una ridefinizione che superasse alcune “incertezze” marxiane e marxiste (il rapporto tra struttura e sovrastruttura, ovviamente) e delimitava un nuovo campo di ricerca mediante una determinazione “autonoma” del politico, l’etnologia francese, nella figura di (e nel “posto” occupato da) Pierre Clastres, cercava di definire un problema o, per meglio dire, il luogo di una strana “rimozione” nel sapere antropologico:

il fatto che l’etnologia si sia interessata solo tardivamente alla dimensione politica delle società arcaiche […] non è […] estraneo alla problematica stessa del potere: è semmai l’indizio di un modo spontaneo, immanente alla nostra cultura e, dunque, decisamente tradizionale, di apprendere le relazioni politiche che si intrecciano in culture diverse[2].

Ancora una volta – e questo segna davvero la problematizzazione fondamentale delle scienze umane e sociali – il nodo fondamentale della riflessione di Clastres si trova all’incrocio tra il discorso epistemologico e metodologico della disciplina antropologica ed etnologica e il regime di pensabilità di un oggetto che, per definizione, si trova sempre nella complessa interazione tra teorizzazione e prassi, il politico. Insomma, la domanda non può che essere la seguente: a partire da quale tassonomia (problema epistemologico) è possibile affrontare il problema del politico all’interno delle società primitive? Dov’è che fallisce il presupposto scientifico e oggettivante delle scienze sociali intorno a questo nodo?

Le società primitive – afferma Clastres – sono società senza Stato: questo giudizio fattuale, esatto in se stesso, dissimula in verità un’opinione, un giudizio di valore che pregiudica la possibilità di costituire un’antropologia politica come scienza rigorosa[3].

Se è vero che uno dei limiti fondamentali delle scienze umane e sociali, sin dalla loro nascita, è il problema del rapporto tra fatto e valore (quando si descrive un fatto, e nella descrizione stessa di esso, si prescrive sempre un valore[4]), allora è chiaro come l’affermazione che le società primitive siano prive di Stato contenga in sé un immediato giudizio di valore che si gioca su una duplice serie: civilizzazione-Stato contro primitivismo-assenza di Stato, laddove – e va da sé – la prima è da considerarsi sana, normale e adulta. La dimensione assiologica del fatto etnografico che segnala l’assenza di un’istituzione “superiore” alla società civile porta a prendere lo “Stato” come criterio tassonomico per concepire la differenza tra modernità e “mondo primitivo”: «lo Stato è il destino di ogni società»[5] si legge in controluce ed è (ovviamente) la dimensione ideologica a prendere la parola. Clastres, infatti, non può che notare come uno dei pericoli decisivi dell’etnocentrismo che ha attraversato la nascita e lo sviluppo della stessa scienza antropologica non si trovi soltanto dal lato dell’esposizione cosciente della posizione, ma anche e soprattutto nella sua dimensione “inconscia”: gli uomini – noi occidentali – abbiamo interiorizzato a tal punto il principio della co-esistenza e della co-essenzialità della società civile e dello Stato (se si vuole, l’asse Hobbes-Hegel) e la necessità di tale co-essenzialità, che la riflessione sull’esistenza di una società senza Stato non può che creare sgomento e dunque posizionarsi lungo il doppio binario dell’etnocentrismo occidentalista: da un lato, mediante il dispositivo della proiezione di un sistema di idee e istituzionale, il proprio, su tutte le altre società umane altre, come criterio “oggettivo”, “misurabile” e “scientifico”; dall’altro utilizzando (astutamente o meno) la meccanica della filosofia della storia che vede nello stadio occidentale il momento culminante di una storia universale verso la quale tutte le società tendono (o, per meglio dire, è necessario che tendano). Se, dunque, Clastres è consapevole non solo del problema dell’etnocentrismo, ma anche della dimensione inconscia di esso, è dal lato della produzione positiva che bisogna guardare e non da quello della privazione che essenzializza: le società primitive, infatti, sono definite fondamentalmente come “senza scrittura”, “senza Stato”, “senza storia”, e, quando si passa alla dimensione economica, “senza mercato”. Il punto centrale è dato proprio dal senza: il “primitivo” viene descritto etnograficamente innanzitutto per “privazione” e quando poi si passa all’elaborazione etnologica e antropologica la descrizione diviene prescrizione. Uno dei punti di partenza fondamentali per portare avanti un’analisi di carattere antropologico sul politico è quello di ragionare in termini di “produzione”: cosa producono (nel senso di: quali strategie mettono in campo) le comunità “primitive” per gestire e organizzare il mondo comune? Quando Clastres insiste sul fatto che i “primitivi” devono definitivamente essere presi sul serio, intende proprio questo: l’analisi delle società arcaiche deve muovere dalle loro proprie forme di produzione e manifestazione, ricercandone una logica interna[6].

Ritornando alla questione epistemologica e muovendo dalla riflessione marxiana sull’ideologia o, ancor di più, dalla sua declinazione francese offerta, ad esempio, da Roland Barthes[7], Clastres ha gioco facile a dimostrare come il linguaggio sociologico e antropologico non si sia ancora liberato da una metaforologia biologizzante e naturalizzante, la quale rappresenta la forma più pervasiva e universalizzante di etnocentrismo:

il biologismo […] non è evidentemente che la maschera furtiva dell’antica convinzione occidentale […] che la storia è a senso unico, che le società prive di potere sono l’immagine di ciò che noi non siamo più […] l’archeologia del linguaggio antropologico ci condurrebbe […] a mettere a nudo un’affinità segreta fra ideologia e etnologia[8].

Il progetto, dunque, di una vera antropologia politica consiste – e questo è il secondo punto da sottolineare – nell’«accettare l’idea che la negazione non significa il nulla, e che quando lo specchio non riflette la nostra immagine, ciò non prova che non vi sia nulla da vedere»[9].

Ma la questione epistemologica non si ferma semplicemente a una critica all’inconsapevole (o vittima di cattiva coscienza) ideologia che permea le scienze sociali: si tratta in realtà di affrontare proprio la definizione di che cos’è il potere, per comprendere se le società primitive siano soltanto senza Stato o, più genericamente, senza potere, e che senso abbia questa distinzione e/o questa confusione[10]. Soltanto mediante una definizione di questo tipo, è possibile cercare di intravedere il momento più complesso di ogni ricostruzione storica sulle forme istituzionali del potere, il passaggio da società senza Stato a società con lo Stato. Nei termini posti da Clastres il dato più complesso risulta essere proprio questo, quand’è e per quale motivo i gruppi umani hanno “inventato” il potere dello Stato, hanno definito le prerogative del più gelido di tutti i gelidi mostri. Gli elementi metodologici che l’etnologo francese, allievo eterodosso di Lévi-Strauss, ha posto come punti di partenza sono i seguenti: 1) negazione di ogni etnocentrismo e “svelamento” della metaforologia biologizzante come strumento di costruzione di un inconscio collettivo intorno alla dicotomia (strutturale e funzionale) civilizzato/primitivo; 2) definizione del problema del politico nelle società primitive a partire dagli strumenti di produzione e non muovendo dall’idea di privazione – concentrandosi soprattutto sulla «povertà di concetto»[11] che porta con sé ogni definizione dei gruppi umani “selvaggi” come “privi” di potere politico, soltanto perché non presentano forme assimilabili o, addirittura, comprensibili a partire dal nostro modo di concettualizzare; 3) definire che cos’è il potere e comprendere il modo in cui viene vissuto dai popoli “primitivi”.

  1. Il potere può davvero essere non-coercitivo?

Se, dunque, occorre muoversi sul doppio versante da un lato del superamento della necessità logica e cronologica del passaggio dal primitivo al civilizzato e dall’altro della definizione di “produzione selvaggia” del sociale e del politico, è chiaro come si debba definire innanzitutto che cos’è il potere (in assoluto). Clastres, in realtà, non ha grande difficoltà a mostrare come esso possa avere una duplice faccia, possa manifestarsi concretamente in un duplice modo, uno mostruoso e gelido, e un altro da svelare grazie all’etnografia e ai resoconti di viaggio dei primissimi esploratori[12] (ma che si configura non di certo come meno problematico). La riflessione di Clastres può essere schematizzata in questi termini:

  1. L’universalizzazione del nostro specifico regime di pensiero ci porta a pensare che il potere si realizzi esclusivamente in una relazione di comando-obbedienza – quando l’etnografo prima e l’etnologo poi non riscontrano questa dinamica in un determinato gruppo umano, allora si parla solitamente di società senza potere; citando en passant Nietzsche e Weber, Clastres afferma che, nel pensiero occidentale, «la verità e l’essere del potere consistono nella violenza ed il potere è impensabile senza il suo predicato, la violenza»[13]. Questa concezione del potere risulta essere la forma più pervasiva di ideologia negli studi delle scienze umane e sociali.
  2. Dall’osservazione etnografica, si ricava invece l’idea che il potere è ovunque anche quando non si declina in termini di comando-obbedienza, anche quando «la vita del gruppo come progetto collettivo è regolata da quella sorta di controllo sociale immediato che viene subito qualificato come apolitico»[14] – la questione è duplice: innanzitutto, nella riflessione di Clastres traspare l’idea che tutto è politico nell’uomo, anzi, con un accento che connette Aristotele all’etnologia, che «al limite, una società apolitica non si situerebbe neanche più nella cultura, ma dovrebbe trovar posto fra le società animali rette dalle relazioni naturali di dominazione-sottomissione»[15]; in secondo luogo l’analisi di alcune società amerindiane dimostra come in esse, nonostante la presenza di un “capo”, il soggetto in questione non abbia alcuna forza di coercizione sul proprio gruppo ed è fuori dalla mentalità di questi “selvaggi” il fatto che si possa impartire un ordine al quale qualcuno debba poi obbedire – si tratta di una delle caratteristiche del “primitivo” che, sin dai primi resoconti degli osservatori occidentali, abituati all’assolutismo europeo, ha determinato la differenza assoluta tra civilizzati e selvaggi.
  3. Se il potere è ovunque e se allo stesso tempo, nei “primitivi”, il politico non si manifesta mediante la relazione comando-obbedienza, bisogna dedurre che: a) la tassonomia antropologica che divide i gruppi umani in quelli con e quelli senza potere è essenzialmente errata (laddove l’errore è ideologico); b) stabilito che il potere politico è universale, cioè «immanente al fatto sociale»[16], bisogna distinguere due modalità fondamentali di espressione: il potere coercitivo e il potere non-coercitivo; c) il modello di gestione del potere a partire dalla relazione comando-obbedienza non rappresenta l’archetipo sempre vero delle relazioni di potere, ma soltanto un caso particolare, e che per nessun motivo scientifico può essere preso come principio esplicativo; d) anche nei gruppi umani dove è assente la figura del “capo”, è presente il potere o il problema del potere «non nel senso ingannevole che spingerebbe a voler rendere conto di un’assenza impossibile, ma, al contrario, nel senso in cui, forse misteriosamente, qualche cosa esiste nell’assenza»[17].
  4. Il problema del potere coercitivo e non-coercitivo è connesso anche alla potenza dell’innovazione (dunque: alla storia): Clastres cita la teoria di Lapierre, secondo la quale il potere politico deriva direttamente dall’innovazione sociale, e l’abbraccia, sottolineando, però, che soltanto il potere coercitivo ha origine nell’innovazione, mentre il potere non-coercitivo fonda se stesso nella “conservazione” – la fonte del potere coercitivo è la storia, la fonte del potere non-coercitivo è la Legge che si posiziona al di là del tempo ed il “capo”, laddove esiste, ne è soltanto un portavoce, il cui unico strumento è la potenza della Parola che crea e prova a mantenere la comunità e non la performatività dell’ordine che pretende obbedienza[18]; «si potrebbero» chiosa Clastres «così classificare le società secondo un nuovo asse: quelle con potere politico non coercitivo sono le società senza storia; le società con potere politico coercitivo sono le società storiche»[19].
  5. Le società il cui potere è non-coercitivo non conoscono le partizioni e le divisioni del sociale che caratterizzano il mondo a noi noto: sfruttatore/sfruttato, dominante/dominato – si tratta di una definizione del rapporto tra sociale e politico che non si dispone mediante l’intersezione di un asse verticale istituzionale che incrocia il piano orizzontale della comunità, ma, per così dire, si manifesta nella sua assoluta orizzontalità.
  6. Le domande, allora, a cui un’antropologia politica dovrebbe tentare una risposta, a partire dal ragionamento precedente, sono le seguenti: innanzitutto, che cos’è la società, in secondo luogo come si passa da un potere non-coercitivo a un potere coercitivo, vale a dire che cos’è e cosa ha prodotto la “storia”.
  1. Il malencontre e la soglia

Una delle definizioni più chiare di “società” si trova all’interno del saggio probabilmente più conosciuto e dibattuto di Clastres, quello all’interno del quale viene proposta un’archeologia della violenza:

La comunità primitiva è nello stesso tempo totalità e unità. Totalità, in quanto insieme compiuto, autonomo, completo, attento a preservare in ogni istante la propria autonomia: società nel pieno senso del termine. Unità, in quanto il suo essere omogeneo persiste nel rifiuto della divisione sociale, nell’esclusione della diseguaglianza, nell’interdetto dell’alienazione[20].

Si noti – seppur di passaggio – come la definizione di totalità rientri pienamente nella descrizione di un fatto sociologico, mentre la determinazione di unità sembri giocare, in maniera assiologica, con la presenza-assenza fantasmatica del potere come violenza (nel senso weberiano) che ha prodotto la differenziazione sociale. In effetti, la questione della violenza e della guerra sono assolutamente centrali nella riflessione di Clastres, quasi come se fossero il perno intorno al quale ruotano tutte le altre questioni: ma per quale motivo? Il punto di partenza e il nodo da sciogliere riguarda il fatto che la violenza del potere, così come viene vissuto da noi come potenza che differenzia e gerarchizza, non appartiene al mondo “primitivo”, anche se i “selvaggi” sono descritti (ed è un fatto) come popoli decisamente bellicosi – qual è allora la funzione sociale (e sociologica) della violenza “selvaggia”? Clastres decide innanzitutto di criticare e decostruire le teorie più consolidate, perché è soltanto nel fondo di un’analisi realmente sociologica della violenza che può determinarsi l’immagine della società “selvaggia”.

La prima è quella che viene definita naturista e che concerne il pensiero di un gigante dell’antropologia francese, André Leroi-Gourhan; Clastres la sintetizza in questi termini:

in quanto essere umano, l’uomo primitivo è votato al comportamento aggressivo; in quanto primitivo, è insieme adatto e determinato a sintetizzare la propria naturalità e la propria umanità nella codifica tecnica di un’aggressività utile e vantaggiosa: è un cacciatore[21].

Clastres, che è allievo di Lévi-Strauss e che dunque ricerca la logica del sociale nel sociale stesso secondo l’insegnamento strutturalista, dopo aver smontato la connessione tra guerra e caccia in quanto attività la cui funzione sociale è differente (l’utilità – non la funzione – della guerra è tutta da dimostrare), denuncia il problema ideologico fondamentale secondo il quale «la società diviene un organismo sociale e qualsiasi tentativo di articolare un discorso non zoologico su di essa si rivela vano fin dal principio»[22]. Risolvere un problema sociologico dando una risposta biologica significa sviluppare una continuità tra questi due piani che può essere presentata soltanto come un “presupposto posto”.

La seconda viene definita economicista e, semplificando al massimo, coglie l’essenza sociale della guerra e della violenza nella presunta miseria dei “primitivi”, i quali, vivendo in un’economia di sussistenza (la quale non permetterebbe la sopravvivenza, nei casi di calamità naturale, non prevedendo eccedenze), darebbero vita a una lotta per l’esistenza causata dalla scarsità[23]; Clastres critica in maniera molto veemente questa concezione, soprattutto nella versione marxista, la quale partirebbe sempre dal presupposto che il vero motore della storia è lo sviluppo delle forze sociali e, dunque, sarebbe vittima di una distorsione che la accomunerebbe alle altre visioni economiciste: il comprendere le società primitive come società della miseria. Si può parlare, invece, in primo luogo di società dell’abbondanza, nella misura in cui con un minimo dispendio di energia e tempo si assicura la sussistenza a tutti oltre a un’eccedenza da utilizzare o ritualmente (le feste e il dispendio[24]) o in caso di calamità, in secondo luogo addirittura di società del tempo libero, in quanto l’attività produttiva, proprio in quanto scevra dall’idea dello sviluppo e del profitto, ricoprirebbe soltanto una porzione molto relativa del tempo dei “selvaggi”. L’etnologo francese muove dalle teorie di Marshall Sahlins, antropologo americano, che aveva proprio lavorato intorno alla decostruzione dell’interpretazione ideologica delle società primitive come società della miseria basate su un’economia di sussistenza; e così

se in tempi brevi e a intensità debole la macchina produttiva primitiva assicura la soddisfazione dei bisogni materiali delle persone, significa, come scrive Sahlins, che funziona al di sotto delle sue possibilità oggettive, significa che potrebbe, se lo volesse, funzionare più a lungo e a maggiore intensità, produrre surplus, costituire scorte» per cui «se le società primitive non lo fanno, anche potendolo, vuol dire che non vogliono farlo[25].

L’obiettivo polemico di Pierre Clastres sono soprattutto le letture marxiste dell’economia primitiva: lo stupore che si dovrebbe provare dinanzi alle comunità di “selvaggi” dovrebbe essere proprio quello di trovarsi in presenza di gruppi umani per i quali l’economico e la produzione non sono i problemi che muovono e determinano il sociale; Clastres non critica la critica del capitalismo effettuata da Marx, ma il voler applicare uno schema preconfezionato a una realtà che si presenta altra in tutti gli aspetti. Lo stupore sta proprio nel fatto che

nelle società primitive l’economia non è una “macchina” che funziona autonomamente […] non solamente l’ambito economico non determina lo stato della società primitiva, ma è piuttosto la società che determina l’ambito e i limiti dell’economia […] è il sociale che regola il gioco economico; e, in ultima analisi, è il politico che determina l’economico. Le società primitive sono delle “macchine” anti-produzione[26].

Si tratta di una chiara presa di posizione contro l’ortodossia marxista e di un rovesciamento di uno dei dispositivi marxiani fondamentali, la precedenza dell’economico sul politico: il mondo concettuale dei “selvaggi” sembra presentarsi in maniera assolutamente differente.  

La terza è la teoria del maestro, Lévi-Strauss, secondo la quale – ancora una volta, semplificando al massimo – la guerra sarebbe un accidente dovuto a un difetto nell’organizzazione dello scambio, per cui

perde qualsiasi dimensione istituzionale: essa non appartiene all’essere della società primitiva e resta solo una proprietà accidentale, casuale, inessenziale, tale che è possibile pensare la società primitiva senza la guerra[27].

Secondo Clastres, occorre aggiustare la teoria di Lévi-Strauss con quella di Hobbes in quanto «Hobbes non considerava lo scambio, Lévi-Strauss non considera la guerra»[28], il tutto all’interno di una logica del sociale assolutamente originale. La società, secondo Clastres, infatti, deve rispondere a due movimenti o a due logiche, una logica centrifuga che si oppone a una logica centripeta secondo una dialettica che si definisce in questi termini:

da una parte la comunità vuole permanere nel proprio essere indiviso e impedisce perciò che un’istanza unificante – la figura di un capo che comanda – si separi dal corpo sociale e introduca la divisione sociale tra dominante e dominato. D’altra parte, la comunità vuole permanere nel proprio essere autonomo, cioè restare sotto il segno della propria Legge: di conseguenza, respinge qualsiasi logica che la porterebbe a sottomettersi a una legge esterna, si oppone all’esteriorità della Legge unificante[29].

La guerra, dunque, ha la funzione di immunizzare ogni tentativo di costruzione di un potere unificante, la guerra è contro lo Stato, questo il messaggio di Clastres, in quanto rappresenta lo strumento mediante il quale ogni gruppo, multiplo e molteplice per definizione, rifiuta l’esonomia dal punto di vista giuridico (che è la caratteristica fondamentale di ogni istituzione statale) e l’alienazione dal punto di vista economico e politico. Facendo la guerra contro altri gruppi umani si permette la sopravvivenza della totalità, unità, indipendenza e autonomia della comunità di uguali. La società primitiva è dunque conservativa e conservatrice per eccellenza e, per permanere nella sua realtà, non può che essere «una società-per-la-guerra»[30].

Resta, però, una questione in sospeso: come una società primitiva abbia potuto produrre l’alterità assoluta di una società di tipo gerarchizzato, insomma come si passa da una concezione (e un’applicazione) non-coercitiva del potere a una coercitiva. Si tratta di una questione di non poco conto, dal momento che tutta la riflessione di Clastres muove proprio dal presupposto di una differenza di natura tra i due insiemi, per cui, laddove non c’è progressione, sviluppo, articolazione, non può che esservi salto e discontinuità. E salto e discontinuità sono strumenti di pensabilità che, di per sé, sfuggono alla concettualizzazione.

Si tratta di uno dei passaggi più complessi e, se vogliamo, controversi dell’intera opera di Clastres: l’antropologo nota, infatti, come i “selvaggi”, proprio nel momento in cui dalla presenza-assenza (ingombrante) di un Urstaat[31] sembra prodursi una forma istituzionale vera e propria, mettono in campo una serie di dispositivi per riequilibrare e bloccare il processo. Il fatto della dominazione non sarebbe altro che una sorta di errore culturale, dovuto a un accidente, che ha avuto la forza di imporsi, crescere e riprodursi, sviluppando forme di immunizzazione nei confronti di qualunque movimento al contrario – quello che Clastres chiama malencontre, il “malincontro”, l’accidente negativo[32].

Dunque, la società primitiva avrebbe nel suo fondo l’immagine virtuale di uno Stato che potrebbe sempre realizzarsi e la sua attività, bellica e vitale, non sarebbe altro che un tentativo indefinito di rinviare il malencontre; correlato di questo Urstaat sarebbe l’immagine virtuale del servo per desiderio (sulla scorta di quello che viene definito il Rimbaud del pensiero, Étienne de La Boétie[33]):

lo snaturamento successivo al malencontre genera un uomo nuovo in cui la volontà di essere libero cede il posto a quella di essere servo […] l’uomo nuovo non ha perso la volontà, ma la orienta verso la servitù: il popolo, quasi fosse vittima di un sortilegio, vuole servire il tiranno […] questa volontà rivela la sua vera identità: il desiderio[34].

Due, dunque, sono i “misteri” che attraversano le due domande fondamentali della modernità, che cos’è l’uomo e che cos’è la società: il primo concerne la costruzione dell’uomo a partire dai meccanismi sociali – il “selvaggio”, libero e libertario, può già sempre effettuare il salto verso l’uomo del desiderio dell’obbedienza (l’uomo “civilizzato”) – ma il salto resta incomprensibile; il secondo concerne il problema dell’istituzione, nella misura in cui soltanto l’immagine di uno Stato già sempre presente, seppure nella sua virtualità, può definire il senso del sociale. Inutile ripeterlo: si tratta di qualcosa che esiste nell’assenza.

  1. Il sintomo e l’origine

Queste brevi riflessioni con e a partire da Pierre Clastres non possono che concludersi intorno ad alcune questioni, partendo da questa affermazione che è entrata di diritto e a pieno titolo nell’universo anarchico:

L’esempio delle società primitive ci insegna che la divisione non è insita nell’essere sociale o, in altri termini, che lo Stato non è eterno, che ha qui o lì una data di nascita. Come mai è emerso? L’interrogativo sull’origine dello Stato va espresso piuttosto così: a quali condizioni una società smette di essere primitiva? Perché le codifiche che ne impediscono la nascita a un certo punto della storia non funzionano più? Non c’è dubbio che solo un’attenta disamina del funzionamento delle società primitive permetterà di chiarire la questione delle origini. E la luce così gettata sul momento della nascita dello Stato renderà forse chiare anche le condizioni (realizzabili o no) della sua possibile morte[35].

Innanzitutto, qual è il “posto” di questo eterodosso antropologo all’interno dell’insieme dei saperi della tarda modernità? L’etnologia e l’antropologia – all’interno del nostro regime discorsivo – sono un sogno e Clastres è uno splendido sognatore: la funzione culturale che hanno avuto queste due discipline è spesso stata allucinatoria. Esse nascono e si sviluppano contemporaneamente come forme ideologiche dell’imperialismo tardo-ottocentesco e come saperi propri di un positivismo che riteneva di poter spiegare il come di tutta la realtà umana e sociale, tralasciando il perché. La sfida e l’ossessione delle scienze sociali si gioca proprio intorno a questo nodo e a questa profonda contraddizione, l’idea (speranza?) che il come possa (e debba) bastare e che il perché possa essere lasciato a quei ciarlatani dei filosofi. Il problema è che anche in queste “scienze” è possibile intravedere – e in maniera ancora più violenta – il ritorno del rimosso: se il perché viene rigettato nel fondo dell’inconscio culturale, esso però, come sintomo più o meno evidente, come anomalia più o meno riscontrabile, riaffiora di qua e di là e procura una certa instabilità. Se è vero (con Clastres e al suo tempo) che c’è stata una rimozione del problema del politico nell’analisi delle società primitive, è almeno altrettanto vero che il “ritorno del rimosso”, rappresentato da Clastres stesso, racconta di un profondo dolore nei confronti della realtà umana: sforzandosi – come del resto tutti gli scienziati sociali – di attenersi al come, al fatto sociologico, nella sua riflessione non soltanto ricompare il perché, ma, all’interno dell’altra contraddizione tipica di queste scienze, quella tra fatto e valore, ricompare nuovamente il valore. La citazione che abbiamo messo all’inizio di queste conclusioni rappresenta esattamente questo: la prospettiva, la visuale, l’apparizione del sintomo, e, al tempo stesso, la chiarezza dell’evidenza, la speranza di questa chiarezza, la cura per il sintomo. E la cura non può che essere la distruzione dello Stato, o, perlomeno, le condizioni di tale distruzione (realizzabili o no, come dice lo stesso Clastres, riguarda l’annoso problema del rapporto tra volontà umana e destino originario).

Il secondo elemento riguarda proprio il problema dell’origine: quando si leggono antropologi appassionati – e anche soltanto rimanendo all’interno della tradizione francese, le opere di Durkheim o Lévi-Strauss passando per Mauss – si resta sempre stupiti da un certo cambiamento improvviso nella tonalità del discorso. Quando si tratta di affrontare il nodo dell’origine – e i “primitivi”, al di là di ogni impostazione ideologica rappresentano proprio questo, un presupposto (spesso, dal punto di vista della teoria, negato) ritorno alle origini – il registro scientifico lascia spesso spazio a una tonalità (se si vuole) più intima, meno esteriore, più filosofica (sempre se si vuole). E così, l’incubo del cominciamento – vera ossessione della modernità, orfana di qualunque padre divino e terrestre, e della sua antropologia, de-privata di ogni possibile principio, sia in senso logico che cronologico – trova la sua forma di razionalizzazione nell’antropologia: nel fondo dello sguardo del “selvaggio” troviamo sempre quello che cerchiamo, quello che vorremmo, quello che abbiamo perso o quello che speriamo di trovare, quello che abbiamo negato e quello che ci procura orrore. E Pierre Clastres non fa differenza: nella sua riflessione si commettono gli stessi errori umani troppo umani che si trovano in altri pensatori appassionati, la ricerca dell’origine e la speranza del compimento. Ma il turbamento, quello sì, è segno di un’epoca non troppo lontana, ma già irrimediabilmente superata: quando nel mondo poteva esistere (o, almeno, si riteneva che potesse “sussistere”) ancora una differenza di natura – forma raffinata per pensare la trasformazione radicale dell’esistente – e la possibilità di ri-trovare il Medesimo nell’avventura tutta esteriore dell’assolutamente Altro.

 


[1] F. W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1885), tr. it. Adelphi, Milano 2008, p. 52 (“Del nuovo idolo”).

[2] P. Clastres, Copernico e i selvaggi (1969), in La società contro lo Stato. Ricerche di antropologia politica (1974), tr. it. Feltrinelli, Milano 1977, pp. 9-10.

[3] Ibid., p. 139.

[4] Sul problema del rapporto tra fatto e valore nelle scienze sociali e sul nodo della nascita di questi particolarissimi regimi discorsivi, mi permetto di rinviare a D. Salottolo, Anomia, anormalità e patologia: alcune note sulla relazione tra filosofia, scienze umane e psichiatria, in «S&F_scienzaefilosofia.it», 14, 2015, pp. 51-73; e Id., L’immagine dell’uomo in Durkheim e Mauss: perché ci riguarda, in «S&F_scienzaefilosofia.it», 16, 2016, pp. 150-169.

[5] P. Clastres, La società contro lo Stato, cit., p. 139.

[6] Pierre Clastres è stato un allievo di Claude Lévi-Strauss e le sue critiche a ogni dispositivo di naturalizzazione non possono che provenire direttamente dal “maestro”. In realtà, Clastres non risparmia critiche al suo mentore, soprattutto per quanto concerne la questione della “violenza selvaggia” indubbiamente mai approfondita fino in fondo dal padre dell’antropologia strutturalista: «nella considerevole opera di questo autore [Claude Lévi-Strauss], la guerra in effetti occupa solo (ed è il minimo che si possa dire) uno smilzo volumetto […] nella società primitiva non esiste un’autonomia della sfera della violenza, che prende senso solo se riferita alla rete complessiva delle relazioni che legano i gruppi: la violenza è solo un caso particolare di un sistema globale», Id., Archeologia della violenza: la guerra nelle società primitive (1977), in L’anarchia selvaggia (1980), tr. it. Elèuthera, Milano 2017, pp. 39-89, qui pp. 56-57. Si tornerà sulla questione della “violenza”, centrale in Clastres, nel corso del saggio.

[7] Cfr. R. Barthes, Miti d’oggi (1957), tr. it. Einaudi 1994.

[8] P. Clastres, Copernico e i selvaggi, cit., p. 18.

[9] Ibid., p. 19.

[10] Il discorso di Clastres sembra proprio indicare come la “confusione” tra potere e Stato nell’antropologia sia una sorta di lapsus freudiano che denoterebbe una forma molto particolare di cattiva coscienza nei confronti di questo inquietante mostro gelido.

[11] Ibid., p. 17.

[12] «Prima che nella foresta tropicale, Clastres ha incontrato gli indiani nei libri e nelle cronache degli antichi viaggiatori e missionari; con una lucida e ispirata immaginazione decifrando quei dati a cui la pagina spesso alludeva senza individuare, quando non li dissimulava», C. Lefort, Pierre Clastres, in «Libre», 4, 1978, cit. in R. Marchionatti, La riflessione sulla libertà selvaggia di Pierre Clastres, in P. Clastres, L’anarchia selvaggia, cit., pp. 7-28, qui p. 8.

[13] P. Clastres, Copernico e i selvaggi, cit., p. 12.

[14] Ibid., p. 19.

[15] Ibid., pp. 19-20.

[16] Ibid., p. 20.

[17] Ibid., p. 21.

[18] Cfr. Id., Scambio e potere: filosofia della chieftainship amerindiana (1962), in La società contro lo Stato, cit., pp. 25-40, laddove afferma che «il potere normale, civile, fondato non sulla costrizione ma sul consensus omnium, è così di natura profondamente pacifica; “pacificatrice” è anche la sua funzione: il capo ha il compito di mantenere la pace e l’armonia nel gruppo: deve comporre le liti, arbitrare, usando non di una forza che non possiede, e che non sarebbe riconosciuta, ma affidandosi alle sole virtù del prestigio, della sua equità e della sua parola» (p. 27). Si tratta del primo saggio pubblicato da Clastres, nel quale già traspaiono tutti i temi intorno ai quali lavorerà successivamente. La medesima questione, divenuta centrale, viene ripresa in molti altri saggi, tra cui cfr. Il dovere di parola (1973), in La società contro lo Stato, cit., pp. 114-117, dove sottolinea che «la società primitiva sa, naturalmente, che la violenza è l’essenza del potere. E in questo suo sapere è radicata la preoccupazione di mantenere costantemente separati il potere e l’istituzione, il comando e il capo. Il campo stesso della parola assicura la demarcazione e traccia la linea di confine» (p. 117). Poco prima aveva definito in questi termini la “parola” di chi comanda: «vuoto è il discorso del capo appunto perché non è discorso di potere: il capo è separato dalla parola, perché è separato dal potere» (p. 116). È chiaro come con il tempo la questione del “linguaggio”, che in questo breve contributo non possiamo affrontare, sia divenuta sempre più importante, e del resto il dominio simbolico dell’antropologia significa sempre e comunque abitare la parola. In questo senso, davvero suggestiva (e pregna di senso) è l’analisi che Clastres compie di un canto degli uomini del gruppo Guayakì: «il canto fornisce ai cacciatori – senza che lo sappiano – il mezzo per sfuggire alla vita sociale rifiutando lo scambio che la fonda» e così «grazie al canto egli [il cacciatore] accede alla coscienza di sé come Io, e all’uso, da quel momento legittimo, di questo pronome personale. L’uomo esiste per sé nel e per il suo canto, è egli stesso il proprio canto: io canto, dunque sono. Ora, è evidente che se il linguaggio, sotto la specie del canto, si designa all’uomo come il vero luogo del suo essere, non si tratta più del linguaggio come archetipo dello scambio, poiché di questo appunto ci si vuole liberare. In altre parole, il modello stesso dell’universo della comunicazione è anche il mezzo per evaderne», si può parlare dunque di “trionfo del linguaggio”: «esso soltanto, infatti, può assolvere la duplice missione di riunire gli uomini e di spezzare i legami che li uniscono» laddove «alla disgiunzione della parola e del segno, nel canto corrisponde la disgiunzione dell’uomo e del sociale per il cantore, e la conversione del senso in valore è quella di un individuo in soggetto della sua propria solitudine», L’arco e il canestro (1966), in La società contro lo Stato, cit., pp. 79-99, qui pp. 96-98.

[19] Id., Copernico e i selvaggi (1969), cit., p. 22. Cfr. anche Id., Indipendenza ed esogamia (1963), in La società contro lo Stato, cit., pp. 41-62, soprattutto per quanto concerne l’incomprensibile transizione dall’una all’altra. La questione del rapporto tra etnologia e storia e, ancor di più, il “problema” dei gruppi umani con o senza Storia, il riferimento obbligato (e al quale sicuramente guardava Pierre Clastres) è C. Lévi-Strauss, Razza e storia. Razza e cultura (1952, 1971), tr. it. Einaudi, Torino 2002. La riflessione sul posizionamento epistemologico delle scienze antropologiche rispetto alla scienza storica si trova in C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale (1958), tr. it. Il Saggiatore, Milano 2009.

[20] Id., Archeologia della violenza, cit., p. 68.

[21] Ibid., p. 47.

[22] Ibid., p. 50.

[23] Contro quello che viene presentato come il mito dell’economia di sussistenza e della bassa demografia dei “popoli selvaggi”, cfr. Id., Elementi di demografia amerindiana (1973), in La società contro lo Stato, cit., pp. 63-78.

[24] Cfr. G. Bataille, La parte maledetta preceduto da La nozione di dépense (1967), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2003. Tutta l’opera di questo “cattivo maestro” del pensiero francese, in realtà, è giocata proprio intorno al rovesciamento del paradigma utilitarista, fino ad arrivare all’esaltazione della potenza creatrice-distruttrice del dispendio, il tutto sempre a partire da studi di antropologia ed etnologia. Sulla questione e le connessioni con Durkheim e Mauss, mi permetto di rinviare al mio La vita e l’utile: la parabola della scrofa, in «S&F_scienzaefilosofia.it», 17, 2017, pp. 177-194.

[25] P. Clastres, Età della pietra, età dell’abbondanza (1976), in L’anarchia selvaggia, cit., pp. 113-137, qui pp. 117-118.

[26] Ibid., pp. 135-136. La conclusione del saggio è davvero durissima nei confronti dell’antropologia marxista (ma, in realtà, l’obiettivo polemico è il marxismo politico degli anni ‘70 e il rapporto conflittuale tra organizzazione e autonomia a partire dal 1968): «il grande merito di Sahlins è di averci aiutato a comprendere la miseria della loro [dei marxisti] etnologia» (p. 137).

[27] Id., Archeologia della violenza, cit., p. 61.

[28] Ibid., p. 62.

[29] Ibid., p. 84.

[30] Ibid., p. 87.

[31] Si tratta di un’espressione utilizzata da Pierre Clastres in onore de L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, durante una celebre tavola rotonda del 1972, alla quale presero parte oltre gli autori dell’opera in questione anche personalità come François Châtelet, Roger Dadoun, Maurice Nardeau, Raphaël Prividal, Henri Torrubia e altri: «Da dove viene la Storia, la lotta delle classi, la deterritorializzazione ecc.? Deleuze e Guattari rispondono a questa domanda, perché sanno cosa fare dei Selvaggi. E la loro risposta è, a mio avviso, la scoperta più vigorosa, la più rigorosa dell’Anti-Edipo: si tratta della teoria dell’“Urstaat”, il mostro freddo, l’incubo, lo Stato, che è il medesimo ovunque ed è “sempre esistito”», cfr. Deleuze e Guattari si spiegano… (1972), in G. Deleuze, F. Guattari, Macchine desideranti. Su capitalismo e schizofrenia, tr. it. ombre corte, Verona 2004, pp. 21-42, qui p. 39.

[32] P. Clastres,, Libertà, malencontre, innominabile (1976), in L’anarchia selvaggia, cit., pp. 91-111.

[33] Il riferimento è ovviamente a É. de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria (1549/1576), tr. it. Feltrinelli, Milano 2014.

[34] Ibid., pp. 99-100.

[35] Id., La questione del potere nelle società primitive (1976), in L’anarchia selvaggia, cit., pp. 29-37, qui p. 37 (corsivo mio).

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