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Essere o non-essere animali. L’ontologia in cattività

Autore


Renata Rallo

Università degli Studi di Napoli Federico II

Renata Rallo ha conseguito la Laurea Magistrale in Filosofia presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice



  1. Jakob von Uexküll: gli animali come soggetti viventi del proprio ambiente
  2. Il ruolo della Bioetica animale nell’etica della liberazione animale: corporeità e interpretazione somatica
  3. L’etica di liberazione animale offre strade per il cambiamento
  4. L’errore pratico della cattività

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S&F_n. 16_2016

Abstract


To be or not to be Animals. Ontology in Captivity


In the past few years, philosophy studies regarding environmental and animal ethics have focused more and more on the relationship between animals and humans. Specifically, the contemporary scientific discussion also centres on using animals as entertainment and its moral issues. By capturing animals, exposing and training them, places like zoos, dolphinaria and circuses cause radical changes in the animal nature. The living conditions have consequential effects on the animal itself, for this reason, keeping animals in captivity changes the essence of animals themselves which are deprived of their specie and individual identity. 


  1. Jakob von Uexküll: gli animali come soggetti viventi del proprio ambiente
    Lo sguardo umano da sempre cerca di comprendere la complessità della realtà del vivente formulando diversi paradigmi che possano applicarsi alla sua complessità. In bioetica, la risposta alla domanda “Che cos’è un sistema vivente?” ha dovuto escludere ogni forzato riduzionismo che potesse limitare, epistemologicamente e fenomenologicamente, la complessità del rapporto tra il vivente e il suo ambiente.
    I sistemi viventi sono unità di interazioni e dal punto di vista biologico non possono essere compresi indipendentemente dalla loro organizzazione interna e dall’ambiente con ed entro il quale interagiscono. La loro organizzazione come unità composita si opera attraverso distinzioni operative che ne definiscono le proprietà. In tal modo, l’unità stessa si definisce attraverso lo spazio in cui esiste e attraverso «il dominio fenomenico che può generare nelle sue interazioni con altre unità»[1]. Quest’unità non è da intendersi come la somma delle proprietà dell’organismo bensì come un’integrità di relazioni tra il soggetto e l’ambiente. Le interazioni, adeguate all’organizzazione interna del vivente, rappresentano l’ambiente in cui esso vive e il dominio fenomenico in cui opera: ciò che è proprio degli esseri viventi è infatti l’essere sistemi unitari di interazioni. L’ambiente dunque non è solo il luogo dove il vivente vive ma è, più precisamente, un insieme di relazioni in cui ogni vivente presenta un carattere di soggetto in cui fenomeni di autoregolazione e autopoiesi[2] sono evidenti.  
    L’Umwelt, l’ambiente, così come analizzato da Jakob von Uexküll, non è da considerarsi come onnicomprensivo, bensì come un insieme ordinato costituito dal rapporto tra soggetto e oggetto in cui tutti i viventi (dai più semplici ai più complessi) sono adattati perfettamente[3]. Ogni vivente, quindi, è soggetto del suo ambiente ma resta oggetto agli occhi dell’osservatore: ogni animale o essere vivente in generale vive in uno spazio sensoriale e motorio che non può essere identico a quello dell’osservatore; l’Umwelt, infatti, è circoscritto e caratterizzato dalle strutture percettive proprie di ogni soggetto vivente. Ogni vivente ritaglia e caratterizza l’ambiente in base alla propria organizzazione sensoriale e al proprio sistema percettivo in un rapporto funzionale tra soggetto e oggetto. Anche Heidegger, durante una discussione di testi nietzscheani nel 1938-39 in cui si confronta con Uexküll per differenziare il Welt umano dall’ambiente in generale, sostenne che «l’organismo non finisce con i confini del suo corpo»[4]. Appare dunque chiaro che l’ambiente sia un quid essenziale che appartiene all’organismo, qualcosa da cui il vivente è assorbito in modo totalizzante: tutto ciò che un soggetto percepisce diventa il suo mondo percettivo e tutto ciò che fa diventa il suo mondo effettuale.  
    Tra un mondo percettivo che comprende tutte le impressioni registrate dall’organismo del singolo individuo e un mondo funzionale che, in opposizione, rappresenta tutto ciò che l’organismo può influenzare, quest’osmosi bidirezionale si esprime nella piena corrispondenza tra il mondo ambiente e il mondo interiore. Questa connessione permette un’innata unità simbiotica tra l’animale e il suo ambiente: «gli organismi sono adattati ai loro ambienti e […] la loro organizzazione rappresenta l’ambiente in cui vivono»[5]. Nessun animale, dunque, può lasciare il proprio ambiente o separarsi da esso senza subire radicali modificazioni. L’identità del vivente è unità di interazioni tra l’organismo e la sua nicchia ambientale che è, per l’organismo stesso, l’intero dominio di relazione:

per ogni sistema vivente la organizzazione implica una predizione di una nicchia, e la nicchia così predetta come un dominio di classi di interazioni costituisce l’intera realtà cognitiva. Se un organismo interagisce in un modo non prescritto dalla sua organizzazione, lo fa come qualcosa di diverso dall’unità di interazioni definita dalla sua circolarità basilare[6].

 

La nicchia in cui l’organismo si trova calato fisicamente e cognitivamente è per lui, dunque, l’intero dominio nei confronti del quale esso agisce da soggetto. Il rapporto animale–ambiente rispecchia precisamente questa descrizione in quanto la corporeità animale si presenta come una dimensione totalmente irriducibile, impossibile da sublimare o da ignorare nell’analisi cognitiva. Per questo motivo gli animali non possono essere compresi indipendentemente dalla nicchia ambientale con cui interagiscono e di cui sono soggetti. Questo soggettivismo per cui l’essere vivente è un essere-per-sé perde però la sua validità epistemologica a causa di uno dei più profondi e radicati pregiudizi antropocentrici: l’incapacità di relativizzare il punto di vista umano come una visione tra le visioni sul mondo negando il carattere soggettivo di tutto ciò che non rientra nel paradigma ontologico dell’umano.

Quando l’uomo osserva l’animale, da una parte trasforma il vivente, soggetto di per sé, in oggetto dell’osservazione; dall’altra riconosce la nicchia, intero dominio del soggetto vivente, solo come una parte del proprio dominio cognitivo.

Nicchia e ambiente, allora, si intersecano solo nella misura in cui l’osservatore e l’organismo hanno organizzazioni comparabili, ma anche allora ci sono sempre parti dell’ambiente che si trovano oltre ogni possibilità di intersezione col dominio di interazioni dell’organismo, e ci sono parti della nicchia che si trovano oltre ogni possibilità di intersezione col dominio di interazioni dell’osservatore[7].

 

L’alterità è un limite, un eccesso inaccessibile che salvaguardia l’animale dall’assimilazione, non un carattere finalizzato alla costituzione di una gerarchia del vivente che ponga l’uomo in un’identità ontologica superiore rispetto alle altre forme di vita. Dal punto di vista epistemologico, delegittimando l’assolutizzazione del mondo umano e delle modalità di senso e di azione come unico punto di riferimento per l’esistenza di ogni essere vivente, viene a mancare sia il pregiudizio antropocentrico secondo cui gli animali vivrebbero uno spazio identico a quello umano[8], sia la tradizionale distinzione dualistica tra ambiente esterno e organizzazione interna del vivente, in quanto ogni soggetto esperisce l’Umwelt sia come mondo percettivo sia come mondo funzionale ed effettuale.   
La fondamentale distinzione operata da Uexküll[9] tra Welt (mondo di cui l’uomo è formatore e modificatore), Umwelt (ambiente, inteso come corrispondenza osmotica di interno ed esterno, mondo soggettivo) e Umgebung (i dintorni) ha però più volte condotto all’erronea teoria di ritenere gli animali incapaci di modificare il proprio ambiente. Da un lato, è vero, come sostiene l’antropologia filosofica, che gli esseri umani attraverso un atto culturale si rendono capaci di modificare gli ambienti e di ridefinire sé stessi in base a questi, mentre il posto ontologico legittimo degli animali è quello che essi hanno già nella loro percezione, cioè nell’ambiente in cui la mondanità animale è anche incarnazione della propria nicchia ambientale. Dall’ altro lato, questo assolutismo in cui gli animali sarebbero inglobati all’interno del loro orizzonte non ne mina la capacità di agire sul territorio (pensiamo ai nidi di uccello, ai coralli e ai lombrichi descritti da Darwin[10]) perché è la stessa condizione necessaria alla vita, la mondanità, a essere, per gli animali, l’habitat e l’ambiente naturale. Quella animale è un’esistenza che evoca il significato dell’habitat e il rapporto con il territorio in cui essi si muovono in un modo talmente intimo da far sì che ne diventino parte cosciente. Attraverso il proprio organismo, il soggetto animale occupa una posizione rispetto al proprio habitat, diventando così un’esistenza che dà significato: il soggetto-corpo-animale comprende ed è compreso nel suo mondo, lo anima e da esso viene animato. Nel mondo-ambiente naturale, l’animale ipostatizza un io, una coscienza che risente del contatto con l’habitat e con la socialità di cui fa parte.
Nonostante i fraintendimenti che ne sono scaturiti, le teorie di Uexküll hanno il grande merito non solo di proporre gli animali come soggetti viventi del proprio ambiente, ma anche quello di operare una prima apertura verso una liberazione da quel pregiudizio antropocentrico che lega gli animali allo specchio teorico in cui gli esseri umani li osservano esclusivamente in rapporto a sé. L’animale, infatti, non può essere considerato solo come alterità, solo come l’istinto contrapposto all’umana razionalità; l’animalità come alterità deve essere un carattere identitario che renda possibile l’identificazione dell’animale come singolarità ontologica e ontica. L’animale non-umano come un essere-nel-mondo immerso tra gli esseri deve essere riconosciuto dall’uomo come co-vivente la corporeità e il mondo. A tal proposito, Elisa Aaltola, adjunct professor dell’Università di Turku (Svezia), sostiene che

non possiamo conoscere o rispettare l’animale se esso rimane [interamente] differente e “altro” da noi. […] Dobbiamo vederlo, entrare nel suo mondo con i metodi limitati, ma ingenui, che possediamo e arrivare a conoscerlo attraverso l’interazione resa possibile da una certa similarità. Dobbiamo comprendere il suo punto di vista per averne una reale considerazione morale e, perciò, dobbiamo anche riconoscere la sua differenza. In sostanza, comunque, questa comprensione riposa su somiglianze, poiché sono le somiglianze che rendono possibile l’assunzione del punto di vista animale[11].

 

Concedere agli animali lo statuto di soggetto significa, quindi, concedere loro lo statuto ontologico che meritano in quanto esseri senzienti, riconoscendoli come un da rispettare in quanto esseri nel mondo. L’accettazione dell’identità ontologica animale è necessaria perché esprime il riconoscimento del valore intrinseco della specie, riconoscimento alla base di ogni atteggiamento di inclusione dell’animale in ambito morale. Il solo fatto di riconoscere che l’animale sia vivo non avrebbe infatti valore in sé e per sé.  
  

  1. Il ruolo della Bioetica animale nell’etica della liberazione animale: corporeità e interpretazione somatica

Storicamente, si considera aperta la questione animale[12] in ambito bioetico quando l’analisi sull’alterità si è concentrata sulla capacità animale di soffrire[13]. Il motivo è ben preciso: nonostante gli scetticismi, sono in pochi a voler coscientemente negare che gli animali siano capaci di provare emozioni, di ragionare, di relazionarsi socialmente grazie a strutture mentali molto complesse e, in parte, simili alle nostre. Se quindi gli animali possono soffrire, ecco che l’identità animale non può più essere negata o obliata. 
Nel dibattito contemporaneo, la prospettiva dominante rispetto alla “questione animale” si dirama soprattutto dai lavori di Peter Singer[14] e Tom Regan[15] nei quali lo studio delle contraddizioni insite nel rapporto uomo-animale dà origine a una rigida prescrizione normativa. L’ottica qui proposta si snoda in modo diverso: essa mira a esulare dalla prospettiva normativa suggerendo la possibilità di un’analisi morale che evidenzi fenomenologicamente il modo attraverso cui la cattività e l’utilizzo degli animali a scopo di intrattenimento modifichi radicalmente l’essenza dell’individuo e il motivo per cui questo argomento sia oggetto di interesse per l’analisi filosofica.    

Accettare l’identità ontologica del soggetto animale è il principio di ogni bioetica animale e il motivo teorico di ogni movimento di liberazione animale[16] che ricerca, nel rapporto con l’alterità, animale e umana, l’armonia dell’uguaglianza senza negare le differenze interspecifiche. Lo scopo è quello di ripensare la differenza come entità e identità, riconoscerne la pienezza senza appiattirne il carattere identitario, al fine non di suggerire o istituire un codice etico ma di proporre uno statuto morale libero dall’esclusione e sottoposto a una struttura di uguaglianza che non appiattisca le differenze. Il riconoscimento di diverse corporeità che convivono nel mondo è ciò che può essere definito come un’interpretazione somatica, un’intuizione, una forma di cognizione in cui l’animale è riconosciuto nella fenomenologia della sua corporeità come espressione di una vita psichica. Il corpo come tramite tra ambiente e individualità è caratteristica fondamentale degli animali.

In questo caso, l’analisi bioetica non si occupa né del riconoscimento dell’alterità animale come specchio teorico in cui distinguere la razionalità dall’istinto, né della distinzione tra l’umanità e l’animalità (intesa come distorsione umana) ma di un “nuovo” ripensamento degli animali non-umani come co-esistenti nel mondo, per riabilitarli dalla degradazione morale causata dalla loro riduzione ontologica. La ragione finale di questo interesse è quello di rintracciare un approccio per riconoscere e discutere il rapporto che intercorre tra l’uomo e gli altri esseri viventi favorendo uno statuto deontico protettivo nei confronti degli animali. Al fine di proporre un’adeguatezza pratica tra valore e azione, è necessario preliminarmente specificare in che modo o meno uno statuto teorico possa fondarsi. Poiché l’intento è quello di portare avanti un discorso teorico basato su un approccio etico dei rapporti transumani, solo se pensiamo a un’interpretazione somatica che ci accomuni agli animali come esseri-nel-mondo il cui corpo è espressione vivente di un’esperienza vissuta, riusciremmo nell’intento di non considerare gli animali non-umani come diametralmente differenti da noi. Lo scopo della proposta di un nuovo statuto deontologico morale è di riconoscere l’animale non umano come un essere-nel-mondo immerso tra gli esseri, co-vivente la corporeità e il mondo.   
Tradizionalmente la nostra esperienza del mondo si basa sulla distinzione fattuale originaria uomo–animale, eppure non sempre l’incontro con gli animali ci rende consapevoli della loro identità: gli zoo, gli acquari, i circhi, sono la dimostrazione del rapporto deteriorato tra uomo e animale. Anche con pareti invisibili come un vetro, non c’è zoo che sia senza gabbie e che non riduca l’essere corporeo animale alla mera corporeità oggettiva disconoscendone l’incarnazione somatica del suo habitat: un condor californiano che viene imprigionato per preservarne la specie «può essere considerato salvo solo accettando una definizione limitata, biologica di un uccello come manifestazione fisica dell’informazione del codice genetico»[17]. L’animale non viene mostrato nel suo ambiente ma in una situazione che mette in mostra il dominio degli uomini: le gabbie raccontano il potere sugli animali. La cattività e l’addestramento sono pratiche ampiamente diffuse nelle diverse relazioni tra umani e animali. Nel caso di quest’analisi sono prese in considerazione la cattura e la detenzione di quegli animali la cui esistenza naturale non è legata ai processi di addomesticamento dal punto di vista filogenetico[18]. Cioè quelle forme di addomesticamento che sono «illibertà socialmente prodotta»[19] resa possibile da quella gerarchia che per Marcuse è ineguaglianza e violenza, che si esprime nel ridurre animali umani e animali non-umani a meri oggetti di controllo, degradarli a «mezzo che si presta a tutti gli usi e a tutti i fini – strumento per sé in sé»[20].  
Attraverso la detenzione in cattività per l’utilizzo degli animali in esposizioni, spettacoli e circhi, l’uomo modifica così tanto il comportamento degli esemplari che questi acquisiscono comportamenti totalmente dissimili rispetto ai loro parenti che vivono liberi in natura. La costrizione nelle gabbie o nelle vasche limita gli animali non solo nel loro essere una corporeità ma anche nel loro essere specifico, modificandone le caratteristiche peculiari, trasformandone l’essenza e l’ontologia specifica. L’errore della cattività è nella riduzione ontologica di cui l’animalità soffre perché distolta dal suo spazio. L’errore teorico di coloro i quali ritengono istruttivo l’incontro con gli animali in cattività, negli zoo, nei bioparchi e in ambienti che ricostruiscono l’habitat naturale ma che sono totalmente riprodotti dall’uomo, è quello di ritenere possibile l’accesso ontologico alle modalità di vita degli animali in ambienti artificialmente prodotti. In una recente indagine condotta da The Born Free Foundation e LAV (Lega Anti Vivisezione), il biologo marino e esperto di delfinidi, Joan Gonzalvo sostiene che i delfini che si esibiscono nei parchi acquatici[21] : «non sono più delfini» in quanto «in cattività è impossibile riprodurre le condizioni di vita che conducono in natura». È impossibile, quindi, pensare di poter preservare le condizioni naturali separando l’animale dal luogo fisico in cui la sua essenza si esprime nella mondanità. Per questo motivo la cattività è divenuta, negli ultimi anni, oggetto di interesse da parte delle etiche ambientali e animali.

 

  1. L’etica di liberazione animale offre strade per il cambiamento

Negli ultimi anni, la disputa etico-morale ha prestato particolare interesse per la “questione animale” al fine di trovare un linguaggio di indagine e un approccio che aiuti a riconoscere, denunciare e discutere quei tipi di relazione che esigono che la vita dell’animale sia subordinata al desiderio umano. In questo spazio si inseriscono quelle etiche che, appartenendo al più ampio spettro delle etiche animali, si preoccupano di una “liberazione animale” che possa essere sia fisica che teorica. Nello specifico, l’analisi morale riguardante gli animali confinati in cattività a scopo di intrattenimento risponde al bisogno di uno strumento teoretico che

riconosca l’ampia variabilità di relazioni che gli umani intessono con gli altri animali; sia capace di riconoscere l’esperienza che gli animali non-umani fanno di queste relazioni; identifichi la violenza nascosta e spieghi perché questa violenza esiste e perché è stata così spesso occultata; e offra strade per il cambiamento[22].

 

Quindi, poiché nel mondo-ambiente naturale l’animale ipostatizza un io-soggetto che risente del contatto con l’ambiente, la cattività si esprime come un disconoscere l’individualità essenziale e moralmente valida dell’esemplare in questione; come una presa di posizione contro un qualunque riconoscimento nei confronti dell’alterità animale.

Secondo il filosofo di etica ambientale Paul Taylor[23], tutti gli animali, le piante e tutti i viventi in generale, sono dotati di un bene in sé, un bene che appartiene loro a prescindere dal fatto che ne siano coscienti o meno: essi sono portatori di ciò che viene definita una «rilevanza inerente»:

Riconoscere un ente qualunque “come possessore di rilevanza inerente” significa accettare che quell’ente sia degno di considerazione morale […]. Fare propria l’attitudine del “rispetto della natura” significa, allora, riconoscere che ogni vivente, senza distinzioni di merito, persegue il proprio bene oggettivo e che nostro dovere morale è promuovere o proteggere questo suo bene come un fine in sé[24].

 

Gli animali hanno dunque diritto a vivere una vita naturale, una vita che permetta loro uno sviluppo individuale in quella che è una libertà ristretta dai limiti imposti dalla comunità in cui vivono.

Negli zoo è facile riconoscere le espressioni di vita e l’effetto che la cattura e la detenzione hanno sugli esemplari. L’andare e venire stanco, lo sguardo vuoto, i passi che segnano il perimetro sono solo alcuni degli effetti fisici che la cattività produce sugli animali. Lo zoo è un artefatto che riduce la natura degli animali a mera presenza per renderli visibili ai visitatori: è un’esibizione di animali, un palcoscenico, un archivio animale non diverso dall’esposizione museale. Nonostante i visitatori si trovino faccia a faccia con gli esemplari, gli animali non si vedono perché la sovraesposizione a cui sono condannati equivale alla loro scomparsa: essi non guardano né osservano.

Lo zoo non può che deludere. […] In uno zoo, il visitatore non incontrerà mai lo sguardo di un animale. Al massimo, quello sguardo fa un guizzo e passa oltre. Gli animali guardano obliquamente. […] Sono stati immunizzati dall’incontro. […] È questa la conseguenza estrema della loro marginalizzazione[25].  

 

  1. L’errore pratico della cattività

L’errore morale della cattività si dispiega principalmente nel limitare i corpi di esseri viventi in uno spazio determinato e “improprio”. La libertà di movimento è probabilmente la libertà primaria, quella che rende possibili tutte le altre espressioni di libertà. Hannah Arendt scrive che «tra tutte le libertà che possono venirci alla mente quando parliamo della parola “libertà”, la libertà di movimento è storicamente la più antica, e anche la più elementare. Poter andare dove si vuole è il gesto originario dell’essere liberi»[26]. Comprimere le vite animali limitandone il movimento dei corpi al fine di esercitare su di essi il possesso per profitto si dimostra quindi essere una negazione della libertà primaria di tutti gli esseri viventi, negazione della libertà della prima dimensione dell’essere: la corporeità. 
Non è possibile intendere gli animali se non indicandoli come modi animati dell’essere corporeo e, così come l’umanità, anche l’animalità si esprime nel suo essere cosciente e vivo attraverso la dimensione del corpo dell’essere animato. L’animalità come essere un corpo tra i corpi non è esclusivamente un vivere nel mondo ma significa anche abitare e costituire entità determinate partendo dai rapporti con altre entità all’interno di spazi. Nulla di ciò che esprime la propria essenza attraverso la mondanità del mondo è considerabile come un astratto in uno spazio di pura contemplazione: siamo sempre circoscritti nell’esperienza di essere corpi viventi, coinvolti con altri corpi viventi in una serie di «interrelazioni ecologiche e sociali»[27]. Limitare il movimento degli animali è limitarli nel loro essere corporei, nella loro mondanità, in quanto gli animali esprimono, al pari degli uomini, il loro essere cosciente attraverso la dimensione del corpo e la loro esperienza psichica si costituisce in base all’esperienza della datità corporea. Lo spazio abitato è il luogo dell’ontologia, luogo come espressione dell’essenza ma anche luogo come modifica dell’essenza dell’individuo che è tutt’uno con la sua corporeità-nel-mondo.
Con la limitazione dei corpi, l’errore della cattività si dirama su due fronti: una decostruzione della naturalità e una degradazione morale legata alla riduzione ontologica. Attraverso la sua detenzione e il rispettivo addomesticamento, avviene un abbandono progressivo dell’identità naturale dell’individuo animale che si trova in situazioni non naturali e la naturalità animale viene compromessa e decostruita nel duplice movimento di un progressivo abbandono di quel che è l’essenza propria dell’individuo, data dalla specie e dalla personalità propria, e di una progressiva assunzione di una forma inadatta di comportamento. Ciò è reso possibile dall’altro movimento metafisico a cui va incontro l’animale in cattività: la riduzione ontologica per la quale l’identità personale di ogni individuo animale viene ridotta a essere un oggetto.
Gli individui animali sono caratterizzati da un retaggio di specie estremamente forte e radicato, ma questo non impedisce a ognuno di loro di essere un esemplare di propria natura e verità individuale. Quello che succede dietro le sbarre o dietro un vetro, quindi, è la trasformazione degli individui in oggetti osservabili a cui sia l’essenza individuale sia quella di specie è portata via. Gli animali che vengono catturati e sottratti al loro habitat non possono che perdere la loro essenza di individui e di specie, diventando meri oggetti rappresentativi da inscatolare. Essi non sono più in sé e per sé ma sono altro, immagini rappresentative dei loro parenti liberi, come un qualcosa che esiste non apparendo più come ciò che dovrebbe essere, e cioè nelle sue qualità essenziali, ma come qualcosa di diverso, come un non-essere piuttosto che un essere.

Nonostante l’essere come tale non possa venire definito né spiegato, il processo di cattività animale non è un genere dell’essere né un suo modo, bensì un non-essere, un lento processo di riduzione della soggettività dell’esemplare animale che prima perde la propria identità ontologica di specie, e subito dopo, la sua individualità. L’habitat di un animale rappresenta la sua identificazione con la specie, mentre rinchiuderlo ed esibirlo lo dis-corpora della sua identità come individuo e come membro di un gruppo sociale variabile. Pertanto, la differenza già ontica tra un esemplare in cattività e un esemplare che vive libero nel suo ambiente naturale diventa una differenza dal carattere ontologico in quanto lo spazio in cui il vivente esprime la sua mondanità e il suo essere-nel-mondo ne modifica radicalmente l’essenza. 
Se l’essenza di ciascuna cosa è, nei termini aristotelici, ciò che quella cosa è per se stessa, allora possiamo dire quasi certamente che gli animali che vediamo negli zoo e nei delfinari non sono più riconducibili, se non per una somiglianza prettamente fisica, agli esemplari in libertà. Questa terribile perdita di radici ontologiche è ancora più evidente per gli esemplari fatti nascere in condizioni di cattività; gli individui che sperimentano sempre ed esclusivamente una realtà limitata e limitante, non hanno mai espresso il loro essere-nel-mondo nello spazio in cui la propria identità di specie si incorpora. 
Questo azzeramento identitario è il motivo per il quale gli animali che osserviamo in cattività non sono più elefanti, leoni, pinguini ma sono riconducibili a questi solo come loro immagini distanziate: essi sono “elefanti”, “leoni” e “pinguini”. Gli esemplari in cattività acquisiscono un’immagine iper-realistica di ciò che i postmoderni chiamerebbero il falso reale: la scomparsa dell’individualità e dell’identità di specie, unita a un crescente tentativo di rendere più selvatico il design delle strutture che ospitano gli animali, riduce la natura originaria dell’esistente al fine di rendere visibile agli spettatori un fac-simile iper-realistico. 
L’uomo ha negato all’animale il suo statuto ontologico, bloccandolo e segregandolo in un mondo che non gli appartiene, in cui non è libero, sottraendolo allo stato di natura in cui potrebbe difendersi, abolendo una realtà regolata da un rapporto simmetrico. L’animale è etichettato e riconosciuto come elemento passivo ed estraneo alla società umana ma questo rapporto, nonostante sia eternato come necessità strutturale nella società umana, è invece una necessità storica. Questo rapporto di dominio viene volutamente confuso con una caratteristica ontologica dell’umano (l’eterna lotta tra la civiltà e l’animalità, istinto contro ragione, ecc.), ed è così strappato alla sua dinamica storica. In questo modo, l’uomo giustifica l’atto di sottomissione forzata dell’animale e la sua conseguente incarcerazione negando all’animale non solo la libertà primaria dell’essere, la corporeità, ma anche la sua stessa essenza. Il processo di acquisizione dell’animale nella società amministrata ne ha fatto un oggetto della signoria[28] umana e ha eternato l’essere vivente animale nell’essere un mezzo e non un fine, privandolo a priori della validità del suo statuto ontologico.  
La società amministrata non è un’evoluzione dello stato di natura: è la non-realtà in cui gli animali sono costretti a sopravvivere. In questo mondo che si presenta nell’antitesi e nell’antagonismo, gli animali si trovano a vivere, riproponendo le parole di Herbert Marcuse, in modi in cui essi «non sono, e cioè in cui la loro natura è distorta, limitata o negata»[29]. Essi hanno dunque perso il loro mondo, hanno perso lo spazio in cui essere e in cui esprimere a pieno la loro individualità e la loro essenza.

Nel momento in cui la cattività e, ancor prima, la cattura e il rapimento dall’habitat naturale, negano all’essere animale, inteso nella propria identità individuale e di specie, il valore determinato dell’esistenza concreta secondo l’essenza determinata, l’azione di incarcerazione degli animali e il loro utilizzo (anche senza tener conto dello sfruttamento fisico, emotivo e il degrado psicologico consequenziali) sono da considerarsi moralmente un male.  
La cattività modifica l’essere animale, ne modifica l’essenza. Con la cattura e la detenzione, gli esemplari perdono la loro identità di specie, perdono lo spazio in cui essere e in cui esprimere la loro essenza. Questo perché lo spazio in cui il vivente esprime la propria mondanità e il suo essere-nel-mondo non può che avere un rapporto retroattivo sull’essere stesso. Il vissuto che si concretizza nello spazio di detenzione si esprime nell’animale in tutte quelle manifestazioni visibili e non-visibili dello psichico, rendendolo altro rispetto ai suoi parenti in libertà, rendendolo altro da sé. Derubandolo della propria essenza, l’uomo riesce a compiere l’azione metafisicamente più assurda: trasformare l’essere in non-essere.   
Se la riflessione morale non deve essere relegata a mera speculazione ma ha le capacità di direzionare verso il giusto le azioni dell’uomo, compito della filosofia nell’ambito della questione animale sembra dunque essere anche quello di muoversi in un universo in sé scisso, bidimensionale, al fine di superare le condizioni negative e distorte dell’essere. La lotta per la Verità è la lotta della filosofia per salvare l’Essere dalla distruzione, per far in modo che ciò che appaia non sia un’immagine bensì ciò che realmente essa è, ciò che si sa essere realmente. In una realtà antagonista, in cui apparenza e realtà, non-realtà e realtà sono condizioni ontologiche, la filosofia diventa espressione dell’esperienza di ricerca della verità, attraverso una mediazione intellettuale dell’esperienza concreta. Gli animali, perdendo la loro essenza, le loro qualità essenziali, rientrano nello spettro del non-essere, nella sfera della distorsione, diventando così oggetto dell’analisi filosofica.

 


[1] H.R. Maturana, F.J. Varela, Autopoiesi e cognizione, tr. it. Marsilio, Venezia 2012, p. 32.

[2] Così come la intende Humerto R. Maturana.

[3] Cfr. J. Von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani, tr. it. Quodlibet, Macerata 2013, p. 49.

[4] Cfr. A. Orsucci, Biologia e “storia delle civiltà”: alcune nuove prospettive di ricerca, in V.G. Kurotschka - G. Cacciatore (a cura di), Saperi umani e consulenza filosofica, Meltemi, Roma 2007, pp. 127-136.

[5] H.R. Maturana, F.J. Varela, op. cit., p. 48.

[6] Ibid., p. 56.

[7] Ibid.

[8] Cfr. M. Mazzeo, Prefazione a J. Von Uexküll, op. cit.

[9] Cfr. J. Von Uexküll, op. cit.

[10] Cfr. Ch. Darwin, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2012; Id., L’origine delle specie, Rizzoli, Milano 2009; Id., L’azione dei vermi, Mimesis, Milano 2012.

[11] In R.R. Acampora, Fenomenologia della compassione, Casale Monferrato, 2008, p. 157. Di R.R. Acampora, cfr. anche Perché studiare le etiche dell’ambiente, in M. Andreozzi (a cura di), Etiche dell’ambiente: voci e prospettive, LED Edizioni Universitarie, Milano 2012, pp. 47-50.

[12] Per approfondimenti sulla questione animale e sulla bioetica animale rimando a B. de Mori, Che cos’è la bioetica animale, Carocci, Roma 2007; M. Rowlands, Animal Rights. Moral Theory and Practice, Palgrave Macmillan, London 20092; A. Taylor, Animals & Ethics. An overview of the philosophical debate, Broadview Press, Toronto 2009; M. Filippi - F. Trasatti, Crimini in tempo di pace. La questione animale e l’ideologia del dominio, Elèuthera, Milano 2013; S. Pollo, Umani e animali: questioni di etica, Carocci, Roma 2016.

[13] Mi riferisco alla teoria di J. Bentham rintracciabile in An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, pubblicato nel 1789.

[14] Cfr. P. Singer, Animal Liberation, Harper, New York 2009; P. Singer, Pratical Ethics, Cambridge University Press, Cambridge 2011; P. Singer, The Expanding Circle, Princeton University press, Oxford 2011.

[15] Cfr. T. Regan, Gabbie vuote. La sfida dei diritti animali, tr. it. Sonda, Casale Monferrato, 2005; T. Regan, P. Singer (ed. by), Animal Rights and Human Obligation, Prentice Hall, New Jersey 19892; T. Regan, The Case for Animal Rights, University of California Press, Los Angeles 2004.

 

[17] N. Evernden, The Natural Alien: Humankind and Environment, University of Toronto Press, Toronto 1999, p. 151 (traduzione mia).

[18] Cfr. S. Pollo, op. cit., p. 118.

[19] M. Bujok, La resistenza contro lo sfruttamento animale. Riflessioni sul rapporto tra società razionale e liberazione animale a partire dalla Scuola di Francoforte, in M. Filippi - F. Trasatti (a cura di), Nell’albergo di Adamo, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 246.

[20] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, trad. it. Einaudi, Torino 1991, p. 169.

[21] L’indagine è qui riportata: http://www.bornfree.org.uk/campaigns/zoo-check/captive-whales-dolphins/italian-dolphinaria-report/

[22] C.J. Adams, Perché studiare le etiche dell’ambiente, in M. Andreozzi (a cura di), Etiche dell’ambiente: voci e prospettive, cit., pp. 50-54.

[23] Paul Walter Taylor è stato professore emerito di Filosofia del Brooklyn College di New York.

[24] R. Peverelli, Valori selvaggi, in M. Andreozzi (a cura di), Etiche dell’ambiente, voci e prospettive, cit., pp. 377-414.

[25] J. Berger, Perché guardare gli animali?, in J. Berger, Sul guardare, tr. it. Bruno Mondadori, Milano 2003.

[26] H. Arendt, L’umanità in tempi bui, in Antologia. Pensiero, azione e critica nell'epoca dei totalitarismi, tr. it. Feltrinelli, Milano 2006, pp. 210-234.

[27] Cfr. R.R. Acampora, Fenomenologia della compassione, cit.

[28] Per “signoria” intendo il termine nell’accezione marxista di «un rapporto sociale che implica l’appropriazione unilaterale dei mezzi di produzione, cioè della costrizione sociale per la riproduzione della vita», M. Maurizi, Il Marxismo tra rimozione della natura e liberazione dell’animale, in M. Filippi - F. Trasatti (a cura di), Nell’albergo di Adamo, cit., pp. 215-238.

[29] H. Marcuse, op. cit., p. 141.

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