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Roberta Lanfredini, Sergio Vitale (a cura di) – Pensare in ultimo. Merleau-Ponty dopo Merleau-Ponty [Moretti&Vitali, Bergamo 2014, pp. 120, € 14]


Pensare in ultimo. Merleau-Ponty dopo Merleau-Ponty è una raccolta di saggi che si propone di rilanciare la sfida del pensiero costituita dall’eredità merleau-pontiana e, più in generale, fenomenologica. I diversi contributi del volume, scritti da Lanfredini, Vitale, Franzini, Civitarese, Vanzago, sono accomunati dalla convinzione che la fedeltà a talune idee può essere riaffermata solo pensando di nuovo, mantenendo aperta la dimensione interrogativa del logos, rimirando quell’ombra del pensiero che è dietro le nostre spalle e davanti il nostro sguardo. Il testo si apre con il saggio di Roberta Lanfredini volto a far chiarezza intorno alla controversia fra naturalizzazione e anti-naturalizzazione della fenomenologia. Per “naturalizzazione” s’intende la conversione sistematica di elementi non naturalizzati (siano essi ontologici, epistemologici o metodologici) in elementi naturalizzati. E fin qui sembrerebbe tutto facile. Peccato che – come nota Lanfredini – «fin dal suo sorgere, la fenomenologia si presenta come metodo tipicamente innaturale» (p. 13). La riduzione naturalmente intesa e la riduzione fenomenologica sono entrambe accomunate da una sorta di rinculo, da una presa di distanza rispetto al dato naturale. E tuttavia, se nel caso del riduzionismo naturalistico «ciò a cui si mira è un terreno oggettuale sottostante, più saldo e giustificato (ipotesi, teorie e programmi scientifici) nel caso del riduzionismo trascendentale ciò a cui si mira è un terreno trascendente» (p. 14). Tutto il senso della riduzione fenomenologica sta nel mettere fra parentesi, nel sospendere, nel disinnescare quanto è naturalmente e immediatamente dato in favore di un piano descrittivo e costitutivo. Pur nelle loro diversità, le suddette forme di riduzionismo si scontrano da un lato con il problema dell’explanatory gap e il conseguente dilemma dei qualia, dall’altro con il problema della dimensione materiale o iletica del contenuto coscienziale. È noto che, anche per Husserl, la funzione intenzionale e rappresentazionale non esautora la nozione di coscienza. C’è una dimensione sensoriale, materiale e passiva che straborda l’aspetto intenzionale e rappresentazionale della coscienza. La fenomenologia d’impronta husserliana si mostra come dilaniata da dicotomie irrisolte, stigmatizzate da Lanfredini nelle tre coppie concettuali mente-corpo, mente-mente (inteso come rapporto tra coscienza e mente) e, infine, corpo-corpo (il primo cinestetico, il secondo patico). È qui che l’apporto teoretico di Merleau-Ponty diviene dirimente, nel sottolineare come ogni fenomenologia intrattenga col concetto di natura un rapporto ambiguo: se da un lato presume di rompere col naturalismo, dall’altro ne resta affascinata. «Il compito ultimo della fenomenologia come filosofa della coscienza consiste nel comprendere il suo rapporto con la non-fenomenologia»  – come scrive Merleau-Ponty in Il filosofo e la sua ombra (M. Merleau-Ponty, Segni, 1967, p. 232). Ecco che la prospettiva merleau-pontiana mostra tutta la sua funzionalità nel risolvere i problemi fenomenologici pur restando entro i limiti della stessa fenomenologia, provando deformarne il concetto stesso, arricchendolo di contenuti nuovi.L’operazione merleau-pontiana può riassumersi in tre punti: nel «superamento della nozione filosofica di riduzione a favore di una riabilitazione e riqualificazione dell’atteggiamento naturale» (p. 18); nel tentativo di operare una «precomprensione del tutto intederminata» (p. 19) e infine nel «superamento della distinzione fra interno ed esterno, e più specificatamente, fra soggetto e oggetto a favore di una interazione o addirittura di una amalgama fra le due dimensioni» (ibid.). Naturalmente, il superamento della cosiddetta analisi determinativa o attributiva comporta il decentramento di alcune nozioni tipiche della fenomenologia husserliana (come quelle di fenomeno o essenza) a favore di altre più indeterminate e diffuse come quelle di visione ambientale preveggente, di suolo, di essere al mondo, di natura, di corpo vivente. Una volta caduta l’impalcatura di tipo proiettivo-rappresentazionale ciò che resta in tutta la sua preminenza è l’analisi fenomenologica del corpo vivo. È opinione consolidata in Lanfredini che il legame essenziale che sussiste fra flusso di vissuti ed estensione corporea nella fenomenologia di Husserl debba essere letto come un caso di a priori materiale, analogo al legame che sussiste fra colore ed estensione o fra altezza (timbro) e durata. In altri termini, per render conto sia della coscienza, nelle sue relazioni fra contenuto iletico e contenuto funzionale, sia del rapporto coscienza‐corpo, l’a priori materiale è lo strumento filosofico da utilizzare. Non è questa la sede per affrontare un tema così spinoso e denso come quello dell’a priori materiale, ma per restare fedeli allo spirito che anima il volume, costantemente teso fra tradizione e tradimento filosofico, fra ombre ed eredità, basti notare che se per Husserl la descrizione della corporeità «risente pesantemente di un modello che individua nella nozione puramente estensiva di strato la sua chiave di lettura privilegiata» (p. 29), per Merleau-Ponty «è la nozione di intreccio e di pregnanza a rivestire un ruolo cruciale» (ibid.). Fra antinaturalismo e natura, verso quale modello propendere con Merleau-Ponty, dopo Merleau-Ponty? Secondo la lettura proposta da Lanfredini «superare il naturalismo e l’atteggiamento oggettivante che esso comporta non significa misconoscere il carattere naturale della coscienza, il suo essere collocata non fuori dal mondo mediante la presa di distanza trascendentale, ma nel mondo» (p. 31). Lo sguardo fenomenologico è all’interno della natura e ci restituisce una dimensione integrata, chiasmatica nella quale mente e corpo, materia e vissuto, soggetto e mondo si danno nella loro congiunzione. Il saggio di Franzini affronta tematiche altrettanto care a Merleau-Ponty quali il rapporto tra filosofia e pittura e il concetto di spazialità vissuta versus la nozione di spazio così come è elaborata dalla prospettiva rinascimentale che trova il Descartes il suo principale fautore. Franzini opera un interessante accostamento fra le posizioni filosofiche di Merleau-Ponty e le teorie pittoriche di Paul Klee, secondo il quale la pittura ha il compito di rappresentare i “mondi intermedi”. Il fenomenologo francese riconosce all’arte un vero e proprio significato metafisico: «nella pittura la visione è l’incontro di tutti gli aspetti dell’Essere come a un crocevia» (Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, 1968, p. 174). Lo spazio, così com’è adoperato nell’arte pittorica, non è lo spazio della rappresentazione, né tantomeno della geometria, ma è «lo sfondo sul quale si muovono i miei atti, che con essi si fondono, disegnando uno spettro di significati che si scioglie nelle descrizioni delle esperienze possibili e reali, determinandone il senso» (p. 40). La filosofia aiuta a svelare questi mondi, questi universi primitivi, regni di «ciò che può venire e vorrebbe venire, ma non deve venire, un mondo intermedio» (p. 41). Anche nel saggio di Civitarese il concetto di intermedietà riveste un’importanza peculiare e viene riletto alla luce dell’inusitato confronto tra Freud e Merleau-Ponty. Difatti, sebbene Freud sembri più un pensatore del conflitto che dell’intermedio, Civitarese nota come l’esigenza freudiana di pensare l’intermedietà sia attestata dalla presenza del suggestivo neologismo Zwischenreich cioè il “regno di mezzo” utilizzato da Freud per indicare il transfert, la regione fra la malattia e la realtà. La storia della psicanalisi può essere interpretata come storia dell’esplorazione dello spazio intermedio, lo stesso dominio dell’entre deux caro a Merleau-Ponty. È innegabile che la filosofia di Merleau-Ponty deve alla psicologia e alla psicanalisi almeno quanto deve alla fenomenologia, per quel che concerne l’esplorazione e la valorizzazione della corporeità. Dagli studi di Piaget sul bambino e sulla scoperta del mondo in senso topologico prim’ancora che geometrico, passando per la Gestalttheorie, le ricerche di Klein sulle prime introiezioni-proiezioni, fino al concetto freudiano di libido inteso come limite fra il corporeo e il mentale. Per converso, se è vero che l’apporto diretto di Merleau-Ponty alla psicologia può dirsi solo tangenziale, è vero anche che «il suo grande merito è di aver scardinato per primo l’idea del soggetto isolato. Dopo Merleau-Ponty pensare il soggetto significa pensare lo spazio intermedio» (p. 54). Secondo Civitarese, il filosofo francese avrebbe presentito il concetto di campo analitico secondo cui «l’analista deve conservare il senso dell’opacità del corpo, è egli stesso corpo operante ed effettuale, insieme vedente e visibile (…) non gli è così facile sapere chi vede e chi viene visto, dove finisce l’uno e dove inizia l’altro» (pp. 60-61). La stessa ambiguità cui cerca di dar voce Merleau-Ponty teorizzando la polisemica nozione di chair. Il saggio di Vanzago focalizza nuovamente l’attenzione su un tema classico della filosofia merleau-pontiana, la percezione, rileggendolo alla luce della recente pubblicazione del corso del ’53, Le monde sensible et le monde de l’expression, mettendo quindi in connessione il concetto di percezione con quello di espressione e movimento. Riguardo alla percezione Vanzago compie subito due considerazioni preliminari che condivido pienamente: in primo luogo, la percezione ha valore ontologico; in secondo luogo, la fenomenologia deve essere intesa ontologicamente, «vale a dire non come analisi di ciò che si conosce, e dei modi con cui si conosce la realtà, ma come elaborazione teorica di cosa sia la realtà in quanto tale» (p. 71). L’indagine della percezione è già il tema dell’essere. È proprio per meglio intendere la valenza ontologica della percezione che Merleau-Ponty propone di declinarla come espressione; e la percezione intesa in termini di espressione chiama in causa il tema del movimento. Esso è «Il vero e proprio termine di congiunzione fra fenomenologia e ontologia» (p. 74). Si configura così una possibile ontologia dinamica, un’ontologia del divenire (già presentita da Bergson) secondo la quale tutto ciò che si muove vive e tutto ciò che vive è. L’analisi della percezione intesa come espressione e movimento, restituisce infine la virtualità intrinseca di cui è pregno il mondo fenomenologico. È bene sottolineare che la lettura ontologica di Vanzago non indica un regresso a una filosofia pre-fenomenologica, viceversa l’ontologia comprende la fenomenologia, si realizza al suo interno. In conclusione «il movimento diviene la cifra della manifestazione» (p. 78), a tal proposito l’autore suggerisce di preferire la terminologia verbale a quella sostantiva, l’apparire più che l’apparizione, il manifestare anziché il manifesto. La lettura operata da Vanzago restituisce tutta la bellezza e l’eteroreferenza dell’ontologia merleau-pontiana secondo cui «l’essere non è ciò che è che essendo altro da ciò che è» (p. 81). Il contributo di Vitale gioca attorno alla triade concettuale mondo/terra/suolo (Welt/Erde/Boden). Nei corsi sul concetto di Natura, Merleau-Ponty afferma – a mo’ di incipit – che essa è «il nostro suolo, non ciò che è dinanzi, ma ciò che ci sostiene» (Merleau-Ponty, La Natura, 2011, p. 4). Ma che cos’è questo suolo, e come si differenzia dal mondo? Secondo la suggestiva ricostruzione teorica di Vitale, che taglia in diagonale la filosofia moderna e contemporanea, da i Prolegomeni kantiani fino a Mille Plateaux, la storia del pensiero ha operato un occultamento di Ctonia in favore di Gaia. «Avvolgere il corpo della Terra di vesti sempre più sofisticate, sì da disporre di una sposa docile e sottomessa. Che altro sono carte e mappe mundi se non la replica del peplo concepito per nascondere alla vista Ctonia, con il carico delle sue forse selvagge, e continuare a dare vita a Gea, a Gaia (quella che ride, che splende nella sua chiarezza), molto più prodiga e sollecita nei confronti delle vicende umane?» (p. 88). La celebre critica merleau-pontiana al cosmotheoros, col suo vedere a distanza, può essere interpretata allora come una denuncia nei confronti dei meccanismi tesi a produrre distacco dal suolo. Invero, si tratta di ritrovare il modo d’essere fondamentale, esplorare e riconquistare l’essere del suolo. Il concetto di suolo evoca una geografia emotiva, «quel luogo senza luogo dell’essere perduti» (p. 91) che è Terra e Mondo assieme, mescolanza, campo ambiguo, Cosmo e Caos, Logos e Physis. Come un giano bifronte il filosofo da un lato guarda verso la Terra e la sua riluttanza, l’assoluta indifferenza della natura; dall’altro guarda in direzione del Mondo che si spiega in forme sempre nuove, la natura che si fa cultura. Il testo a cura di Lanfredini e Vitale rappresenta, in ultima analisi, un ottimo strumento per ripensare alcuni temi centrali della riflessione merleau-pontiana ancora così straordinariamente attuale.

Alessandra Scotti

05_2016

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