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Patrizia d’Alessio (sous la direction de) – La Sinuosité du vivant [Préface de Jean Dhombres, Hermann, Paris 2012]


Credevo al suo corpo, non credevo al suo spirito. La consideravo un’incantevole imboscata, la Lola, sul rovescio della guerra, sul rovescio della vita.

F. Celine, Viaggio al termine della notte

 

 

Parlare del vivente in termini di sinuosità è una scelta saggia ed evocativa, il sinuoso ha qualcosa del conturbante, attesta l’ambiguità del sentimento umano di fronte alla natura, sospeso fra il thaumàzein e l’horror vacui, rinvia a una potente immagine corporea ma anche – come non manca di notare Jean Dhombres nella Prefazione – a un carattere matematico: «les sinusoïdes étant ces courbes parfaitement définies dont les variations servirent d’abord pour les cartes du ciel, mais qui en vinrent à représenter tout phénomène périodique, donc précisément ces formes de régularité muettes que le ciel offre à la contemplation scientifique depuis les “mages chaldéens”» (p. 7). Forme di regolarità mute che orientano, come le stelle, nella navigazione scientifica. Che cos’è il vivente allora? La biologia solitamente risponde enumerando una serie di proprietà come la crescita o la riproduzione, tuttavia queste risposte sembrano sempre mancare il nocciolo della questione – e il fatto che il volume si presenti come apertamente interdisciplinare ed equamente ripartito fra biologia e filosofia sta a testimoniare che non si tratta di un assillo esclusivo di noi filosofi – ossia la vita che è più, e meno a volte, di una semplice catena di reazioni fisiochimiche descritte dalla biologia molecolare. Per superare l’impasse, come sottolineano Patrizia d’Alessio e Damien Schoëvaërt-Brossault nell’Introduzione, occorrerebbe trovare o, almeno, travailler «sur le “chaînon manquant” entre le vivent que j’étudie et le vivent que je suis» (p. 9). I saggi qui raccolti raccontano dell’esperienza di questo lavoro, ognuno attraverso la propria personalissima prospettiva, nel tentativo di afferrare ciò che rende vivo il vivente. Il saggio che apre la collettanea è della curatrice Patrizia d’Alessio e s’impernia attorno al concetto di pré-contrainte. La nozione di contrainte, in tutte le sue declinazioni, riveste un ruolo decisivo nel volume: indubbiamente esprime un valore costrittivo o coercitivo, ma la contrainte è innanzitutto un vincolo. Che «gli uomini possano farsi cooperatori dell’operante natura» (G. Bruno, De Monade, in Op. lat., I, 2, p. 333), già Bruno, nella definizione della missione del sapiente-mago, auspicava una vera e propria scienza del vincolo, che informi circa le tecniche utili a rendere la materia plasmabile ai propri fini. Una sorta di manuale della retorica e della persuasione. Nella biologia Evo-Devo la contrainte ha un significato meno esoterico ma ugualmente affascinante, essa consente di legare l’evoluzione allo sviluppo e cerca di rispondere alla domanda paradossale circa l’anteriorità dello sviluppo o dell’evoluzione, poiché l’uno non si dà senza l’altro. La contrainte può essere vista come una scelta o come l’imposizione di una scelta, che è un po’ come mettere d’accordo il libero arbitrio col peccato originale: «il n’y a pas de formes libres. La forme est l’expression d’un mouvement contrarié» (p. 10). Infatti, il contributo di d’Alessio ruota attorno al concetto di emozione e della sua trasmissione e cos’è l’espressione se non una trasmissione dell’emozione? L’emozione, d’altronde, è alla base dell’azione sull’ambiente. Il concetto di tensegrità permette appunto la tensione alternata di elementi elastici, capaci di generare forze, ma crea anche una coesione e un’integrità per la cellula e il suo organismo. Le fibre estendibili di cui si compongono cellule e tessuti formano un sistema architetturale che permette la trasmissione dei segnali per le funzioni dell’organismo. Il loro stato di pre-contrainte gli permette di ricevere gli choc esterni. «Nous y voyons une sorte de disponibilité de la matière à recevoir l’événement» (p. 22). Così il corpo vivente, secondo le parole di Nietzsche, è una memoria incorporante, che passa il suo tempo a ruminare. Il che equivale a dire che «l’histoire du sujet et de son corps est celle de l’effet qui devient cause, de la cause changée par l’effet. C’est pour cette raison que les émotions ont de l’avenir» (p. 25).

Il contributo di Damien Schoëvaërt-Brossault analizza le strutture che permettono il verificarsi della sorpresa, intesa come categoria fondante del vivente. Il vivente è infatti caratterizzato da un décalage, da un controtempo, che è spesso è un contrattempo, dal kairòs che squarcia il chronos. «Le corps présente une sorte de porosité au temps qui le rend réceptif à l’instant. Il est, d’une certaine manière, par défaut de ce qu’il est prêt à recevoir, et ce sont précisément les marques en creux de ces manques (sous forme d’empreintes) qui l’orientent vers le présent (le donné de l’instant). Ce qui anime le vivant, c’est le différentiel entre l’absent (manifesté par l’empreinte) et le présent (ce qui s’offre à l’instant). Par sa structure en décalage (contre-forme) et en déphasage (contre temps), le vivant est, d’une certaine manière, contraint d’être présent au présent» (p. 32). Questa contra forma e contra tempo sono rappresentate su scala molecolare dalla particolare struttura delle proteine catalitiche o enzimi, elementi chiavi del metabolismo, che presentano un sito ricettivo del sostrato che esse trasformano in prodotto più o meno complesso. Tra l’enzima e il sostrato c’è un rapporto illustrato dalla metafora della chiave nella serratura, fra la forma e la contra forma c’è una specie di gioco, un gioco che ci ricorda che «vivre c’est être diachroniquement présent à l’instant, par une prédisposition réceptive qui fait de toute surprise une occasion, non seulement de “forme nouvelle”, mai aussi de “forme de nouvelle”» (p. 34).

Il saggio di Andrea Cavazzini completa la sezione di biologia e passa il testimone a quella di filosofia, non a caso lo scritto possiede una spiccata vocazione epistemologica e affronta il concetto di contrainte proprio dal punto di vista della sua importanza nella creazione di una teoria biologica. Ciò che la nozione di contrainte mette in evidenza è: «la non-indifférence de l’état vivant de la matière à l’égard de son propre devenir: un processus – développement, mutation ou évolution – soumis à contrainte est toujours-déjà canalisé par un gamme finie, même si elle est imprévisible a priori, des possibilités matérielles, immanentes à la structure des conditions au sein desquelles ce même processus se trouve avoir lieu. Ces conditions définissent des impossibilités, mais aussi, par symétrie évidente, des possibilités» (p. 60). Questo binomio concettuale di possibilità/impossibilità resta impensabile nel quadro meccanicista e laplaciano che è quello di Monod, di Crick e della Sintesi, e rinvia a una nozione sorprendentemente classica: quella della potenza. Una volta abbozzata una definizione plausibile della contrainte, si tratta per Cavazzini di rintracciare le stesse problematiche messe in luce dal suddetto concetto in autori come Darwin e Galton, barcamenandosi tra caso e necessità. La celebre figura darwiniana del diagramma corallino schematizza un dinamismo delle forme viventi, «il montre que le passé à partir du quel toute forme déploie ses trajets successifs agit comme une contrainte par rapport à l’histoire à venir de la vie» (p. 63). I limiti della selezione sono importanti almeno quanto la selezione stessa, il vivente non è come una palla che giace su un tavolo di biliardo, in attesa dei colpi (selezione) della stecca. Assomiglia di più a un poliedro, su un tavolo di biliardo. «La réponse du polyèdre à la sélection est limitée par les contraintes de sa morphologie […] Ainsi, la métaphore du polyèdre de Galton conduit à la conclusion logique che les directions réellement prises par le changement évolutif résultent de l’interaction dynamique entre la poussée externe et les contraintes internes» (p. 65). I limiti, lungi dall’essere connotati esclusivamente come negativi, corrispondono a fattori attivi dell’evoluzione, a delle possibilità, a delle potenze genetiche e ontogenetiche che rinviano a un carattere di plasticità tipico dell’essere vivente.

Il testo di Rocco Ronchi prende le mosse dal concetto di memoria come coestensiva alla vita, i suoi principali interlocutori sono Bergson e Ruyer, ma prima di addentrarsi nella complessa teoria di Materia e Memoria Ronchi premette che in queste analisi si parla sempre del vivente e mai della Vita. «L’absolu de Bergson n’est pas la vie, mais le vivant […] l’immanence du vivre et non pas la transcendance de la chose-vie» (p. 75). Se c’è un assoluto in Bergson, è un assoluto immanente, prospettico, vivente e mnemonico; perché ciò che caratterizza la memoria del vivente è precisamente questa emergenza diacronica «mémoire veut dire “synthèse su passé et du présent en vue de l’avenir”» (p. 82). La memoria non è dopo la vita, né prima ma è virtualmente coestensiva a essa «à tous ses niveaux et la matière même a ses racines dans cette mémoire, la matière est mémoire, une mémoire qui “joue” le passé au lieu de l’imaginer» (ibid.). In questo senso, secondo l’autore, Bergson con la sua nozione di memoria coestensiva alla vita oltrepassa la fenomenologia. La sintesi creatrice della memoria ha la forma di uno sforzo (effort) in analogia con lo slancio (élan) sul piano metafisico. La dinamica dello sforzo bergsoniano spiega bene il concetto di superficie assoluta di Ruyer. Ogni essere è per Ruyer una superficie assoluta, il sorvolo non dimensionale su se stesso, un sorvolo senza distanza, un sorvolo senza sorvolo. D’altronde «la conscience n’a pas besoin de support parce qu’elle est le support incontournable» (p. 88). Il vivente si mostra così come una superficie assoluta, la dimensione dell’auto referenzialità è nient’altro che la sua diacronicità emergente.

L’ultimo saggio, di Rossella Fabbrichesi, s’inserisce lungo una serie di studi di riscoperta della biologia nietzscheana, che unisce il classico prospettivismo di Nietzsche a motivi rigorosamente biologici e antropocentrici, attorno ai quali tutti gli esseri – e non solo l’essere umano – si relazionano come dei centri di forza propulsiva, in base ai quali muta il nostro modo di stare al mondo. Così la massima nietzscheana “non ci sono fatti ma solo interpretazioni” lontana dall’essere vicina a posizioni relativistiche o antiscientiste, mostra tutta con sua affinità con gli studi di biologia di von Uexküll e con la morfologia di Goethe. Il tratto più significativo dell’essere vivente è precisamente questa perenne tensione tra l’agire e il patire o – come suggerisce l’autrice – tra incorporare ed essere incorporati. Riecheggia ancora la domanda di Nietzsche: «jusqu’à quel point la vérité supporte-t-elle l’incorporation? – Voilà la question, voilà l’expérience» (p. 101).

Alessandra Scotti

S&F_n. 19_2018

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