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Aldo Masullo, Paolo Ricci – Tempo della vita e mercato del tempo. Dialoghi tra filosofia ed economia sul tempo: verso una critica dell’azienda capitalistica [Franco Angeli Editore, Milano 2015, pp. 111, € 13]

Gianluca Giannini

 

Economia e destino (prossimamente ánthropos?)

[in margine a: Aldo Masullo – Paolo Ricci, Tempo della vita e mercato del tempo. Dialoghi tra filosofia ed economia sul tempo: verso una critica dell’azienda capitalistica]

 

 

Con quanta maggiore gravità e verità Aristotele ci rimprovera, perché non restiamo stupefatti di fronte a queste elargizioni di denaro che si fanno per adescare la massa. […] Quel piacere della massa si estende per un tempo breve ed esiguo, ed esso si origina da qualsivoglia cosa di scarsa rilevanza, nella quale, ad ogni buon conto, assieme alla sazietà viene meno anche il ricordo del piacere.

Aristotele, Sulla ricchezza*

 

 

  

  1. Oíkonomía

 

L’economia non è il nostro destino.

Non esiste un sistema di leggi economiche autonome. […]

Vale a dire: l’economia non costituisce un processo naturale, ma è sempre stata – e tale rimarrà per l’avvenire – una creazione culturale scaturita dalla libera decisione degli uomini. Sicché anche il futuro dell’economia, o di un determinato sistema economico, è rimesso alla valutazione che discende dalla libera volontà di uomini i quali, nella realizzazione dei propri obiettivi, risultano vincolati alle esigenze imposte tanto dalla natura quanto dallo spirito.

Nella sua essenza, il futuro assetto dell’economia è quindi un problema non di scienza ma di volontà: in quanto tale, esso non riguarda affatto lo scienziato, il quale deve limitarsi a stabilire ciò che è, senza giudicare come dovrebbe essere[1].

 

Nell’incipit di questo breve saggio del 1932 – da poco edito anche in edizione italiana a cura di Roberta Iannone –, che trae spunto dalla conferenza del 29 febbraio dello stesso anno tenuta presso la “Società di studi per l’economia monetaria e creditizia” tedesca, nel pieno della crisi politico-economica che di lì a undici mesi avrebbe condotto alla tragica fine della Repubblica di Weimar e all’avvento del Nazionalsocialismo, il grande sociologo dell’economia Werner Sombart, di fronte a una platea di “scienziati dell’economia”, è di una chiarezza solare e, finanche, se si pensa appunto al contesto, irriverente e altamente corrosivo.

S’intende: per la gran parte degli astanti di allora e, se possibile, ancor più irriverente e altamente corrosivo, per la grandissima platea ipotizzabile di scienziati dell’economia d’oggi, almeno all’apparenza, monopolisti incontrastati d’ogni forma di dibattito pubblico in uno scenario dominato da un unico oggetto problematico: la crisi economica.

Negare infatti, come ha fatto Sombart, il fattore destinalità all’economia equivale a dissolvere quell’elemento di sua certa ed evidente – agli scienziati dell’economia, ovvero l’uditorio dell’epoca e, in maniera equivalente, quello ipotizzabile dell’oggi – datità, a qualche titolo e in qualche modo, inscritta nell’essere delle cose, nell’essere delle cose che pre-esistono al punto da configurare nómoi autonomi, letteralmente fuori spazio e tempo.

Certo, commisurata alla solennità sempre contraddistinta (ieri come oggi) da accenti di definitività degli scienziati dell’economia, detta negazione poteva/può suonare o come la bizzarria di un “non addetto ai lavori” o, per l’appunto, persino il tentativo maldestro e poco cortese di spiegare agli scienziati dell’economia stessi il senso e i modi del proprio sapere che, invece, in quanto tale, in quanto autonomo e indipendente, è retto da un’aura di sacralità.

In realtà, se si pone la giusta attenzione ai passaggi interni delle affermazioni di Sombart, è possibile anzitutto prendere contatto con una duplicazione significativa per quel che concerne l’oggetto in discussione, oíkonomía. Duplicazione significativa di cui sembra essersi smarrita, ieri come oggi, non solo la predisposizione elaborativa, ma finanche la vaga percezione.

Per il tramite della rivendicazione di un’accezione di oíkonomía quale portato della libera attività creativa di ánthropos, quale realizzato sempre in situazione – e perciò culturale (e, aggiungerei, storico) – Sombart ha, in buona sostanza, ricondotto ogni eventualità di discussione in fatto di oíkonomía, ieri come oggi, oggi come domani, al suo ambito proprio. Ambito proprio che consta di un perimetro preciso in cui a misurarsi sono due modi del significato contigui e, pur tuttavia, irriducibili, in linea di principio, l’uno all’altro.

Quando difatti il sociologo tedesco reclama e quindi avanza la centralità di ánthropos nel suo situazionale libero agire/creare, sta sicuramente mirando una concezione di oíkonomía originaria quale autentica attività dell’elaborare (da parte di ánthropos) nómoi per l’oíkos. Sta indicando in direzione di un’accezione di oíkonomía chiaramente non riconducibile e, dunque, risolvibile in qualsivoglia altro significato che la individui quale processualità indistinta, senza soggetto in cui in gioco sono, come fattori dominanti, modi dell’essere, nómoi appunto, autonomi, extra-antropici e, perciò non finiti e universali.

Una germinale azione del governo della casa alla quale punta Sombart in cui, se da un lato, si fa evidente la necessità di tendere alla edificazione di un vero e proprio programma normativo che concerne la prassi e la teoria di regole di buona amministrazione/gestione dei “beni di famiglia” al fine di tutelarli e conservarli, dall’altro lato, e correlativamente, proprio perché centra tutto in ánthropos, in ánthropos stesso individua sia l’attore sintagmatico dell’azione, che il fine stesso della medesima, in un’ottica, per quanto generica e informe, astratta, di sua tutela e preservazione.

Tale accezione originaria permane, se si vuole, del tutto inalterata, anche quando, con Aristotele, si realizza una decisa estroflessione di oíkonomía, per il tramite del pieno appaiamento tra oíkos e pólis, tant’è che «gli elementi dell’amministrazione familiare corrispondono» a quelli della città, «dal momento che la città è costituita di famiglie»[2].

Nel riportare quindi al centro tale accezione/concezione Sombart, propriamente, ne ha fatto il vero e proprio contraltare di quella oíkonomía quale “scienza della ricchezza” che, a partire dal 1615, con il Traité d’économie politique di Antoine de Montchrestien e, a certo modo sino ai giorni nostri, nel configurarsi quale sapere che si occupa di studiare la produzione dei beni e, di concerto, la distribuzione degli stessi e, perciò, la relativa utilizzazione della ricchezza, ha finito per voler indicare quella specifica disciplina che nel tentativo appunto di descrivere problematiche concernenti la produzione, la distribuzione e il consumo della medesima ricchezza, s’è fatta normativa in senso decisamente altro e profondamente trasfigurato rispetto all’originario. Ovvero s’è fatta disciplina tesa a proporre norme e precetti su ciò come deve essere in un’ottica di aprioristica compenetrazione tra essere e dover essere, di fatto agendo gli individui e i loro comportamenti per conseguire il fine di ottenere il massimo vantaggio, imponendosi, imponendo sé, sempre più, come sapere, oltre che autonomo e perciò extra-antropico e universale, oltremodo incondizionato.

Da qui, poi, se il contesto è quello in qualche modo di impronta capitalistica – al tempo di Sombart come oggi, con tutte le legittime e storicizzabili evidenti differenze del caso – vantaggio è già sinonimo di profitto. Profitto per chi, di fatto, nella situazione concreta di una economia di mercato, in cui lo scambio dei beni, nel tendere a divenire sempre più fine in sé e per sé, poiché si fonda su una complessa ed eteronomamente diretta articolazione dell’interazione tra domanda e offerta, si è predisposto alla produzione di questi stessi medesimi beni.

Ora, certo, non è questa la sede per entrare ulteriormente nel dettaglio di questi delicatissimi passaggi e, dunque, lavorare di fioretto per quel che concerne definizioni sempre più proprie e, perciò, complesse, su quello che è, indefettibilmente, il pluriverso significativo di oíkonomía e, indi, di “scienza economica”. Così come non è mia intenzione riattraversare un multiverso analitico che, nella migliore delle ipotesi, imporrebbe di render conto, quanto meno in forma descrittiva, di piattaforme critico-problematiche in fatto di capitalismo, neo-capitalismo, economia di mercato appunto, fordismo, post-fordismo e quant’altro.

È tuttavia fuor di dubbio che l’elaborato contrappositivo in qualche modo suggerito oramai quasi un secolo fa da Sombart, epurato dunque da qualsiasi incrostazione anche ideologicamente connotabile, abbia il merito di cogliere in pieno un tema decisivo, tornato fortemente di attualità ai giorni nostri, i giorni della “crisi economica”, i giorni di una “crisi mai vista”, i giorni in cui la voce degli scienziati dell’economia si alza più forte, configurando proprio quello scenario monopolistico cui si accennava in apertura.

Il tema decisivo del destino dell’uomo nel pieno della crisi economica.

E già perché, di là da tutto, in scia proprio con l’indicazione offerta da Sombart, non è possibile porsi legittima domanda sul destino dell’economia come luogo della crisi e, perciò, luogo del dopo crisi, omettendo di interrogarsi circa il destino di ánthropos.

Omettendo di interrogarsi non tanto e non solo circa il destino di ánthropos nell’epoca della krísis ma, anche e soprattutto, circa il destino di ánthropos quale fulcro della krísis.

È proprio qui che si apre una faglia problematica che, di per sé, già contrae – fino a dissolverle quasi del tutto come nelle dichiarate intenzioni dello stesso Sombart – le pretese degli scienziati dell’economia: il problema non è più solo e semplicemente l’uomo nell’epoca della krísis con tutti i suoi articolati (economici) del caso – consumi, tendenze, scelte di beni etc. – né, tanto meno, la tanto agognata, prossima-ventura, configurazione antropologica di un innovato homo oeconomicus quale ricetta e soluzione della krísis per il post-krísis, bensì e propriamente, ánthropos stesso come krísis.

Così come, se il solco in cui porre l’attenzione è in tal guisa figurabile, sembra venir meno anche qualsiasi altra – altra rispetto agli scienziati dell’economia – eventualità analitica e prospettica di chi, al cospetto della krísis, dall’interno proprio di una “crisi economica mai vista prima”, nel lucidamente individuare nuove questioni sociali derivanti, ha avanzato la necessità cogente di una innovata e innovante etica del dare in cui «il legame sociale» si ristabilizzerebbe «a partire dal dono»[3] quale, di fatto, mitigazione, e perciò panacea, situazionale.

Una mitigazione situazionale, per molti versi e per non poche collimanze teoriche, riconducibile alle tanto celebrate analisi e proposte del Premio Nobel Amarthya Sen che, per quanto in parte elaborate nel periodo pre-crisi economica [ante 2008, per intenderci], ancora persuadono chi, in qualche modo, ambisce a coniugare, in ottica a-religiosa, l’ossimoro di un prossimo venturo “capitalismo compassionevole”. Cosa che si realizzerebbe anzitutto relativizzando il più possibile quelle direttrici del pensiero economico contemporaneo in fatto di antropologia economica (e/o economia antropologica) tutte fondate nel paradigma di una vera e propria ipertrofia di un “io” preoccupato solo del proprio, illimitato, benessere, per far posto, poi, a una nuova centralità dell’etica in vista, appunto, di una rifondazione etica dell’economia quale strumento e servizio per la piena fioritura della «persona umana» in cui conterà il comunitario «star bene (Well Being)» e la ricchezza non sarà altro che mezzo e non fine[4].

Ma, come si diceva, anche questo tipo di elaborazioni altre – e, a qualche modo, alternative, giacché comunque sembrano mirare a riportare al centro quell’accezione di oíkonomía in precedenza analizzata – rispetto a quelle quotidianamente dagli scienziati (puri?) dell’economia, impattano il proprio limite costitutivo non tanto nella pars construens, bensì già in premessa, laddove focalizzano la propria attenzione sull’homo oeconomicus quale uomo della krísis, non configurando, dunque, il problema nei termini in cui in oggetto è l’uomo come krísis.

E perciò allora: non tanto e non più la krísis di ánthropos in congiuntura. Bensì, appunto: ánthropos come krísis e, indi, la congiuntura, questa congiuntura-qui come congiuntura della krísis che, nell’esplicitarsi in superficie quale “crisi economica”, svela al fondo l’inquietante da pensare: la messa in radicale questione di visioni di sé e del mondo da parte di ánthropos stesso.

 

  1. Nella krísis

Ora, ed è qui il punto che si tentava di porre in risalto precedentemente quale punctus a quo per decomprimere, anche sulla scorta della assimilazione di quel problematico riaffioramento significativo originario di oíkonomía, le pretese assolute e dominanti degli scienziati dell’economia, nella presente congiuntura, le visioni di sé e del mondo che sono, perché fanno, l’uomo Occidentale, sono – e da tempo, ovvero non solo all’atto della presente congiuntura – in crisi, al punto che sembra venire meno l’in-vista-di.

Ma l’in-vista-di chi?

Ovviamente, vien fatto di getto da dire e, viste le premesse, di ánthropos. Di ánthropos così come la tradizione, la tradizione Occidentale, è stata in grado di concepirlo e plasmarlo.

Già qui, a ben riflettere, un primo tangibile motivo da cui “ánthropos come krísis”.

E, pur tuttavia, persino a questa altezza di minimali considerazioni di superficie, una messe di problemi immediatamente si presenta. Primo fra tutti quello relativo al fatto che la nostra tradizione, la tradizione Occidentale appunto, non ha certo offerto una monolitica concezione d’ánthropos e per cui non una forma plasmata cristallizzabile in un unico calco.

E di conseguenza, sarebbe forse il caso di stabilire, e più precisamente indicare: a quale ánthropos concepito e plasmato dalla tradizione Occidentale si sta indicando?

Cionondimeno, rispondere a un tal tipo di domanda già imporrebbe una ulteriore, preliminare finanche, forma interrogativa: è plausibile individuare una versione specifica concepita e plasmata dalla tradizione Occidentale nella maniera più asettica, ovvero nel modo più immune possibile da qualsivoglia scivolamento apologetico, ossia da qualsivoglia trascinamento in monitoraggi a qualche titolo sorretti da specifici intenti ideologicamente esclusivisti?

In certo qual modo sì e, per certi versi, è persino plausibile individuare nella variante ultima dell’uomo della metafisica, della Metafisica come Struttura, ovvero l’homo oeconomicus, lo specifico ánthropos concepito e plasmato dalla tradizione Occidentale, come colui il quale è entrato in crisi. L’ánthropos che, per intenderci, modellato e ancorato ai criteri di utilità e logica funzionalità derivanti dalla scienza computazionale, si è imposto, assurgendo finanche, ad autentico campione di “quantificabilità”, cioè di quella riduzione più ampia che si esercita sulla pura causalità, il cui sottogenere più miserabile è, senza ombra di dubbio, quello che ha messo mano a una vera e propria considerazione economica del mondo storico e sociale. Considerazione economica del mondo storico e sociale nei termini del computativo e algido a-umano che è, fuor di dubbio, lo stato di questa-epoca-qui, dimentica dell’umano.

Ciononostante, appare da subito evidente che un’ipotetica, cruda, riscrittura dei motivi intimi di una tradizione più che bimillenaria tesa all’obiettivo di stanare nel dettaglio quale immagine/versione autoesplicativa e autonarrativa sia entrata in crisi, così come si è poc’anzi iniziato a fare, non farebbe altro che sortire l’effetto di far perdere di nuovo di vista l’oggetto della constatazione da cui s’era partiti: il venir meno dell’in-vista-di. Giacché, in linea di principio, non sposterebbe di molto un “qui” situazionale che, come in precedenza s’è segnalato, restituirebbe un ancoramento e, dunque, anche un approccio, non solo relativo e di superficie ma, anche e soprattutto, elusivo proprio dell’oggetto in questione.

Ragion per cui, per non correre tale rischio, può risultare proficuo decentrare. Apparentemente decentrare, e perciò porre l’attenzione sul termine ricorrente in oggetto e in tal modo approntare un primo vero senso al venir meno dell’in-vista-di.

Chiedersi perciò, in via assolutamente preliminare, prima ancora, dunque, del “perché” e del “come” della krísis di ánthropos, cosa voglia effettivamente significare “krísis”.

A un approccio di tipo etimologico krísis, che si radica nel verbo krínein, inizialmente si riferisce all’ordine del «separare, distinguere, passare al setaccio, scegliere e decidere, risolvere, giudicare» che, in special guisa se l’ambito della sua germinale circoscrizione è quello della lingua religiosa greca, traduce la facoltà e l’attività dell’interpretazione «del volo degli uccelli, dei sogni», in vista della «scelta delle vittime sacrificali».

Qualora si decidesse di approfondirne ulteriormente l’uso nell’antichità si scoprirebbe, di poco posteriore, un notevole bacino cui andare ad attingere. Non vi è dubbio che, così come è stato di recente constatato, dall’interno di questo notevole bacino, «l’accezione che ci è oggi più familiare» di krísis «proviene dal campo della malattia e della medicina».

Infatti, colta a questa angolazione precipua, krísis sta a indicare, anzitutto e per lo più, «il momento in cui si deve decidere (krínein), il trattamento del malato, perché la fase è considerata decisiva, ovvero critica».

Ragion per cui krísis è

il momento della malattia in cui interviene un cambiamento improvviso, si svela in modo evidente la patologia nascosta e si decide la via d’uscita, buona o cattiva che sia. Essa associa alcune caratteristiche essenziali: una situazione patologica segnata da perturbazioni del corpo e sofferenza; una rottura nel ritmo temporale della malattia stessa, un’evoluzione brutale in un senso o nell’altro, l’intervento di uno sguardo clinico che propone una diagnosi e formula la prognosi di un esito in forma di alternativa (miglioramento o aggravamento) e dunque di un’uscita dalla crisi[5].

 

Qualunque ne sia lo sbocco, evidentemente.

Ora, di là dall’esito stesso, quel che appare oltremodo indiscutibile, quando si parla di krísis, quando il discorso in qualche modo verte e vede coinvolto il termine krísis, fosse anche nei limiti appena assunti, ovvero quelli “medici”, ci si trova necessariamente inseriti in una dinamica temporale. Dinamica temporale in cui vi è un “prima” – nel caso, “prima della malattia” quale stato di sanità e normalità –, un “durante” quale qui e ora – in cui la malattia si slatentizza e, via via, si evolve sino a raggiungere il suo culmine, il momento di sua espressione massima, indi, in cui manifesta tutta la sua capacità di alterazione dello stato di sanità e normalità –, infine la “svolta” quale esito da venire. Un sarà, perciò, a partire dal punto critico che determinerà un nuovo stato di normalità. Di normalità altra quale divenuto e che a partire dal punto critico è possibile definire, a buon diritto, “futuro”. Un “futuro”, un da-venire che si realizza e, perciò, il nuovo divenuto.

E per questo, allora, dinamica temporale nei termini di una durata.

Di una durata quale tempo orientato nel cui svolgimento la krísis avviene; in cui se ne matura contezza; in cui si prospettano eventualità del superamento. Se si vuole: uno svolgimento cronologico – cioè nei termini di kronos quale successione sempre uguale a se stessa nell’ordine della progressione numerica – in cui si passa da uno stato di normalità a uno stato di alterazione di questa normalità, per concludere nel prima auspicato e poi ben individuato e delineato ripristino dello status iniziale, fosse pure nei termini di una sostanziale rigenerazione e, perciò, nei termini dell’inizio di uno svolgimento altro quale serie nuova.

Quale serie temporale nuova che fonda in una certezza. La sola e unica certezza del tempo.

Pur tuttavia, in situazione, rispetto allo specifico della krísis di ánthropos, non è possibile non rilevare una certa qual diversa cadenza che, con buon grado di approssimazione, è plausibile definire come “stato di ordinarietà”. È davvero arduo non registrare e, indi, in altri termini esplicitare, che questa krísis-qua di ánthropos abbia oramai assunto la fisionomia di «uno stato “normale”, una regolarità segnata per di più dalla moltiplicazione delle incertezze: incertezza relativa alle cause, alla diagnosi, agli effetti e alla possibilità stessa di una via di fuga»[6] e che fanno, perché sono, l’ordinario, cioè la consuetudine che, via via, essa stessa, diviene la (nuova) normalità.

Quindi, una ordinarietà che, l’ordinario, questo nuovo ordinario quale status effettivo e permanente che, in quanto tale, non semplicemente segna questa epoca. Ma che è, anzi, non semplicemente il marchio e l’effige di un’epoca, bensì il modo suo proprio di questa-epoca-qua.

Questa-epoca-qua, dunque, non meramente della krísis, bensì questa-epoca-qua come krísis.

Krísis che è, perciò, questa-epoca-qua quale arresto di svolgimento.

E per cui e a buon diritto: krísis epocale. Ma epocale non quale mera trascrizione di “questa congiuntura” temporale in transizione, superamento, ma, precisamente, proprio perché arresto di svolgimento che si fa ordinarietà, quale unicità che dice epoca al modo – esclusivo e, perciò, tutt’altro che in transizione e superamento – di krísis.

Che dice epoca al modo di krísis strutturando una declinazione altra e inedita di congiuntura.

E perciò, in via ultimativa, krísis epocale che consta di un qualcosa di eventualmente irredimibile o, quanto meno, tale da individuare una unicità, un “mai visto” giacché investe, e a grandi, grandissime, profondità, la trama interna dell’endoscheletro identitario dell’uomo Occidentale medesimo. Dal che, appunto: il venir meno dell’in-vista-di (ánthropos) come fuoriuscita dal tempo che si è arrestato.

Qui, dunque, come è chiaro, l’oggetto assume la fisionomia non più del mero venir meno dell’in-vista-di una versione d’ánthropos entrata in crisi come nel caso dell’homo oeconomicus, la versione/variante di uomo Occidentale che sembra tutto risolversi nel computazional-quantitativo. Bensì, in maniera più radicale e profonda, il venir meno dell’in-vista-di ogni evenemenzialità d’ánthropos a-venire.

Come che sia, al cospetto di questo unicum, per quanto vana possa apparire, se è vero che ci si colloca in una dimensione non più decodificabile nei termini e nei modi di uno svolgimento temporale quale successione sempre riproponentesi, comunque si impone la necessità di un superamento, di un rinnovamento o, forse meglio, la necessità di un energico e fattivo tentativo di rigenerazione. Fosse anche nei limiti (asfittici e finanche disperati) del tentativo estremo.

Si impone, in altri termini, comunque e nuovamente, nonostante tutto, nonostante questo nuovo ordinario quale status effettivo e (apparentemente) insuperabile, la necessità di krísis quale autentica rigenerazione-rinnovamento al cospetto dell’unicum della Krísis quale venir meno dissolvente dell’in-vista-di ánthropos nella sua evenemenzialità a-veniente.

E la filosofia, quale innervatura strutturale e ancora fortemente strutturante dell’uomo Occidentale, non può certamente chiamarsi fuori.

Anzi la filosofia, da più parti decantata nella sua agonia, è per certi versi l’unica deputata non solo a non potersi chiamare fuori ma, anche, a poter prospettare eventualità di rigenerazione/rinnovamento a partire, dunque, da quel che è il vero epicentro significativo da cui l’epocalità, quale nuova ordinarietà, di questa Krísis-qua e che non è semplicemente esplicitabile nella formula in ordine al quale esso risiede in un significativo cambiamento relazionale tra ánthropos e il tempo in un’ottica – per molti versi debitrice alle straordinarie intuizioni arendtiane[7] – di effettiva lacuna temporis quale nuovo «dato antropologico che struttura il nostro rapporto al mondo comune»[8].

Ma, invece, il proprium da cui la possibilità di perimetrazione dell’effettivo dell’epicentro da cui l’epocalità di questa Krísis-qua, è nella radicale fuoriuscita di ánthropos dal tempo.

Fuoriuscita di ánthropos dal tempo e che rinviene, qui e ora, nell’ambito dell’economico, il suo ultimo e più evidente slatentizzarsi.

 

III. Prossimamente ánthropos

Se questa è la cornice problematica con la quale confrontarsi quando, liberatici definitivamente dall’opprimente tenore che quotidianamente si registra a partire dalle analisi e ricette varie che si sono imposte e s’impongono a partire dal sacrale sapere che è la scienza economica al cospetto di una “crisi economica mai vista prima”, ovvero reimmessi in un proprium in cui è ánthropos stesso l’epicentro della sua stessa Krísis dacché fuoriuscito dal tempo e di cui, al massimo, l’ambito economico lascia intravedere solo il segmento ultimo di questa stessa “fuoriuscita” iniziata molto addietro, non è possibile non prendere in considerazione chi di fatto, dall’interno dell’unicum della Krísis d’ánthropos, tenti di lavorare e riflettere sul suo, autentico, specifico.

È il caso, ad esempio, di un testo fortemente dissonante nel solco, sempre più ampio come è ovvio, di quella che si potrebbe definire legittimamente “letteratura della crisi” quando non addirittura, “retorica della crisi”. È il caso, cioè, del ricchissimo dialogo a tre tempi tra un filosofo (Aldo Masullo) e una tipologia di scienziato dell’economia peculiare: non un analista finanziario, non uno studioso di mercati in senso astratto, non – come da più parti si tende a smerciare i funzionari dell’asettico quantitativo-computazionale di cui prima – “economista puro”, bensì un economista aziendale (Paolo Ricci).

Masullo e Ricci in questi tre dialoghi – ma, come si accennava, è possibile considerarli un dialogo unitario che si svolge in tre tempi diversi e interrelati – dal titolo Tempo della vita e mercato del tempo[9], hanno avuto sicuramente il merito – e da ciò sicuramente la loro dissonanza – di posizionarsi in maniera immediatamente diretta nell’epicentro da cui l’unicum della Krísis.

Pur tuttavia, a un primo approccio, mi permetterei di dire, di fatto scevro da qualsiasi questione e/o problema speculativo fondamentale e, perciò, sostanzialmente superficiale, forse sotto la spinta dell’indicazione contenuta nel sottotitolo (critica dell’azienda capitalistica), anche questo intenso dialogo a tre tempi potrebbe essere trattato e ascritto alla nuova fetta di “mercato editoriale” della “letteratura [e retorica] della crisi” in precedenza indicata. E per cui, a un occhio acritico, Tempo della vita e mercato del tempo, nella lettura scivolerebbe via piuttosto rapidamente in ragione di una chiave d’accesso nemmeno troppo originale. Una chiave di accesso e lettura in conseguenza della quale lo sviluppo del capitalismo contemporaneo, il cosiddetto “sviluppo finanziario del capitalismo”, avrebbe minato le fondamenta umane dell’economia – se si vuole, l’originaria accezione di oíkonomía di cui s’è detto a partire dalle considerazioni di Werner Sombart –, realizzando uno scenario [quello della crisi appunto] in cui il complessivo impoverimento dell’economia reale avrebbe, de facto, comportato un sostanziale, e antropologicamente inquietante, impoverimento della vitalità umana, al punto da prosciugarla del tutto.

In fondo, se si mettono in sequenza le alternate considerazioni di Masullo e Ricci che si dispiegano nel dialogo a tre tempi – considerazioni del tipo: si passa dalla «azienda sistema vivente»[10] in cui «forte è il carattere della vita»[11], in cui al centro vi sono «vita, prassi, tempo» ovvero «… la vita … sono i fini; la prassi … è l’organizzazione realizzatrice di quei fini. Il tempo unisce la vita con la prassi»[12], a una concezione e realizzazione di azienda [quella appunto oggi dominante] in cui se la cifra distintiva e connotante è la «somma di negozi giuridici»[13] che si raccolgono attorno all’«arricchimento» quale «fine a se stesso»[14], e per cui se il «fine della pura finanza è il profitto, nella semplice e immediata forma della rendita»[15], l’esito incondizionato non può che essere che «la finanziarizzazione è distruzione di tempo presente, di vita reale, mentre in cambio si offrono fantasmi di futuro»[16] – lo sviluppo interpretativo di superficie che si segnalava è non solo esibito ma, di concerto, si correderebbe di scivolamenti moralisticheggianti necessitati e che, come è ovvio, sono distanti anni luce dalle intenzioni dei dialoganti stessi. Scivolamenti moralisticheggianti che, in un certo qual modo, visto che da Masullo e Ricci non è prospettato, in concreto, alcun effettivo disancoramento dal pluricomposito modello capitalistico in situazione, assurgerebbero persino ad autentico “buon messaggio” di consolazione ai lettori del testo i quali, al più, sotto l’effetto del prosciugamento delle proprie vite, converrebbero, amaramente felici (?), che «il capitalismo è il parassita per eccellenza della vita»[17].

Come s’è detto, invece, questo dialogo a tre tempi è non solo molto di più, molto di più principalmente dell’esercizio della consolatoria “buona coscienza” critica, ma anche e soprattutto genuina prova del da-pensare in situazione giacché centra la questione capitale da cui l’unicum della Krísis che consta nel venir meno dell’in-vista-di ogni evenemenzialità d’ánthropos a-venire. Ovvero, l’impossibilità per ánthropos di oramai riferirsi al tempo per autoindividuarsi e dirsi. E perciò, fuoriuscita dal tempo quale impossibilità a dirsi ancora come tempo per ánthropos e da cui, dissoluzione d’ogni evenemenzialità d’ánthropos a-venire.

Tempo della vita e mercato del tempo è esercizio genuino del da-pensare in situazione giacché, centrando la questione capitale, la fuoriuscita di ánthropos dal tempo, nel contestualizzarla all’ambito dell’“economico”, la affronta individuando traccianti che la rilanciano evidentemente decontestualizzata. E già, perché proprio qui il punto nodale e che in qualche modo si segnalava anche in precedenza: il tempo non c’è più, non per opera dell’economia o della finanziarizzazione dell’economia. Tempo non è più già da quando Einstein ne ha dimostrato la sua illusorietà, esplicitando che la “realtà del tempo” è relativa a ogni singolo e specifico oggetto nell’universo che, di per sé, è ancorato alla sua disposizione-dislocazione spaziale. Da quando, cioè, il grande fisico tedesco(-svizzero-statunitense) ha ipotizzato, e poi verificato, che il tempo oggettivo è mera illusione dacché mera variabile che dipende, ogni volta e mai universalmente, dal proprium del sistema di riferimento inerziale in questione.

Ma tempo non è più anche – e forse soprattutto – da quando, lungo questo solco tracciato dalla fisica einsteniana, la successiva fisica dell’indeterminato ha dissolto finanche la presunta “durezza” e pre-esistenza della realtà in un vero e proprio pullulare di particelle che si muovono senza uno schema prefissato, secondo logiche al più computabili provvisoriamente e, in conseguenza di ciò, prevedibili solo a livello probabilistico nel nuovo modello epistemico delle quattro dimensioni spaziali. E cioè, ancora: tempo non è più, da quando la fisica contemporanea ha ipotizzato, e via via verificato, che questo brulichio di particelle che si muovono e si dispongono spazialmente in lunghezza, larghezza e profondità, si individua anche a partire dalla coordinata spaziale “tempo”, e cioè che in un determinato istante (come luogo fisicamente determinabile e determinato per intenderci), detto pullulare configura taluna o tal’altra trama al cospetto delle quali è possibile prevedere, appunto con proiezioni di certo grado probabilistico, l’esito, ossia quel o quell’altro ente tridimensionalmente percepito qui e ora in una provvisoria unità sincronica che è, di fatto, un sostanziale dinamico identificarsi diacronico in cui, semplicemente, un oggetto si estende lungo la direzione temporale così come si estende lungo le tre direzioni spaziali.

E se tempo è questo, illusione, variabile e finanche dimensione dello spazio che è sempre in riconfigurazione, davvero tempo non è più.

E se tempo non è più, ánthropos non è più, giacché non ha possibilità di individuarsi, dirsi e narrarsi.

Visto che lo scenario con cui ci si cimenta è questo, il punctus a quo è che l’uomo della metafisica, nella sua ultima versione/variante, homo oeconomicus, ha impattato e finanche, in certo qual modo, condotto a termine tutto questo. Da qui la krísis identitaria profonda, che non è quindi di “settore”, ma investe il “settore” oíkonomía perché evidentemente onnipervasiva e onnicomprensiva.

E se lo scenario è questo, rispetto al tenore di lucida consapevolezza che attraversa Tempo della vita e mercato del tempo nell’immediatamente individuare la “questione capitale”, quello che allora si propone è un registro di lettura e interpretazione che ne comporta anche una scomposizione e una sua ricomposizione secondo un ordine “alterato” agli occhi del lettore di superficie ma che, in senso proprio, restituisce il dialogo a tre tempi in tutta la sua portata e forza speculativa, oltre che vigoria argomentativa.

Se si vuole, proprio perché ánthropos è «tempo vissuto. È la temporalità che coincide con l’uomo stesso. L’uomo è tempo, è la sua vita che viene avvertita nel suo temporale viversi […] è l’uomo stesso nell’avvertimento del proprio vivere»[18], che questa nuova oíkonomía, in cui «l’azienda» è «insieme di contratti […] deresponsabilizzata nella sua azione» svuotata «di personalità, concretezza soggettività»[19], si rivela come l’agito ultimo, la sanzione definitiva e la consacrazione della fuoriuscita di ánthropos stesso dal tempo.

Non l’agito di un processo astratto, fuori spazio-tempo appunto, ma l’agito di ánthropos stesso, giacché se è vero come è vero che

le aziende che fanno finanza hanno perso di vista il loro principale scopo: contribuire alla crescita e allo sviluppo delle aziende che producono beni che il mercato è in grado di assorbire. Hanno di fatto mutato i propri fini, non sono più al servizio delle altre aziende ma al servizio di se stesse. Forse non hanno più una finalità … le banche non interpretano il proprio ruolo come infrastruttura del mercato, fanno affari, solo e semplicemente affari … e provocatoriamente potremmo dire che non hanno anima[20],

 

è pur vero che questa intra-presa non è altro che l’approdo ultimo esposto di ánthropos, di quell’ánthropos che s’è modellato e squadernato nei termini della metafisica, della Metafisica come Struttura, che ha perseguito, in oltre duemilacinquecento anni, il suo generoso slancio originario di un sovrappiù di sicurezza per ánthropos stesso.

Fino al culmine suo, però, fino al culmine di un controfinalismo, di un antifinalismo che, nel negare il tempo fino a farne anonimo oggetto di mercanzia, ha negato ánthropos in radice.

E dunque, di là dalla evidente impossibilità a sviluppare ulteriormente e come meriterebbe la questione, un dato sembra oramai certo: che dall’unicum della Krísis è possibile autentica krísis come necessità di un superamento, di un rinnovamento, necessità di un energico e fattivo tentativo di rigenerazione, se e solo se si mira in direzione di una decisiva evasione dalla metafisica.

Di là, perciò, dalla persuasività della specifica – e, me ne rendo ben conto, generica indicazione in considerazione della contestuale elaborazione –, la questione merita definitiva dischiusura in tutta la sua problematicità, dischiusura che, ed è questa la sensazione chiara dallo studio di Tempo della vita e mercato del tempo, ha trovato una sua originale formulazione.

Detto altrimenti: alla filosofia – anche in questo solo apparentemente strano connubio con la scienza economica –, in visuale, tocca di dismettere l’abito dell’agonizzare per continuare a immaginare, sul suolo Occidentale, ánthropos nei termini e nei modi di un necessario nuovo inizio extra-metafisico.

Un’immaginare ánthropos, dunque, quale prefigurazione di uno spazio per-esistentivo tutto da formulare che pur implicando una impossibilità evidente di slancio a ritroso, non può mostrare ritrosie nell’assumere che questo bisogno di un nuovo inizio, di un senza precedenti dunque, non è possibile senza riletture e ripetizioni. Ovvero, come sagacemente indicato da Jacques Derrida:

il senza precedenti non è mai possibile senza ripetizione, non c’è mai qualcosa assolutamente senza precedenti, totalmente originale o nuovo; o, meglio, il nuovo può essere nuovo, radicalmente nuovo, soltanto nella misura in cui qualcosa di nuovo viene prodotto, cioè dove c’è memoria e ripetizione. Quindi, due punti. Primo: non può esservi alcuna rottura, alcuna esperienza della rottura che non presupponga una non-rottura, che non presupponga una memoria. Secondo: la contaminazione deriva da questa iterabilità, la quale risulta costitutiva del senza precedenti[21].

 

Uno spazio per-esistentivo tutto da formulare, quindi, in cui e per cui, come ha proposto proprio Aldo Masullo in direzione, anche, di una trasfigurazione del tempo quale “memoria e ripetizione” (e perciò re-invenzione) – possibilità-necessità perciò per una non rottura quale contaminazione costitutiva del senza precedenti per rientrare nel tempo –, in cui è necessario ripartire dall’assunzione in ordine alla quale

la vita è, o non è. La condizione di ogni nostra azione è la vita. Può essere considerata per questo come un fine. La vita è la vita. Il fine è nella vita, quindi il valore è la vita stessa ed è il tempo come continuo cambiamento. In sé però il tempo è un’astrazione e non ha una sua esistenza. Esiste il cambiamento inarrestabile e irrevocabile. […] La vita è la condizione di se stessa. E questo è il paradosso. Non ha altre condizioni la vita. Perché è la vita stessa. Poiché la vita è cambiamento, e a questo cambiamento diamo il nome di tempo, si può dire che il tempo è la condizione della vita, così come la vita è la condizione del tempo. Il valore è la stessa intensità della vita[22].

 

E per cui, ed è in questo la propositività di questo dialogo a tre tempi: prossimamente ánthropos a partire da una straordinaria fiducia in ánthropos.

Fiducia che sia capace, ancora, di reinventarsi come tempo, consapevole che tempo non-è, è un’astrazione.

E questo, se si vuole, infine, come nel caso del futuro dell’oíkonomía, torna a essere una questione di mera volontà di uomini.

 

S&F_n. 14_2015

 


* Rif. in Cicerone, De officis, II, 16, vv. 56-57.

[1] W. Sombart, L’avvenire del capitalismo (1932), tr. it. Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2015, p. 27.

[2] Aristotele, Politica, 1253 b 3-5.

[3] Il riferimento, tutt’altro che polemico come è chiaro, è al testo di P. Sloterdijk, La mano che prende e la mano che dà (2010), tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2014 (in particolar modo citata, p. 101) che, sicuramente, si segnala per la consueta, pragmatica oltre che sensata, capacità di generosa indagine critica e, come si accennava, prospettica ma che, rispetto al problema di cui si è cominciato a riferire, evidentemente decentrato, dacché, dal centro “di una crisi economica mai vista prima”, nella krísis “sbagliata”.

[4] Cfr. in particolar modo A.K. Sen, Etica ed economia (1988), tr. it. Laterza Editore, Roma-Bari 2000.

[5] M. Revault d’Allonnes, La crisi senza fine. Saggio sull’esperienza moderna del tempo (2012), tr. it. O barra O Edizioni, Milano 2014, pp. 16-17.

[6] Ibid., pp. 10-11.

[7] Cfr. H. Arendt, Tra passato e futuro (1961), tr. it. Garzanti Editore, Milano 2011, n particolar modo la Premessa: la lacuna tra passato e futuro, pp. 25-39

[8] M. Revault d’Allonnes, La crisi senza fine. Saggio sull’esperienza moderna del tempo, cit., p. 154. In questo epicentro evidenziato, a mio avviso, il limite speculativo incolmabile di questo apprezzabile recente lavoro.

[9] A. Masullo-P. Ricci, Tempo della vita e mercato del tempo. Dialoghi tra filosofia ed economia sul tempo: verso una critica dell’azienda capitalistica, Franco Angeli Editore, Milano 2015, pp. 111.

[10] Ibid., p. 17.

[11] Ibid., p. 20.

[12] Ibid., p. 28.

[13] Ibid., p. 19.

[14] Ibid., p. 30.

[15] Ibid., p. 31.

[16] Ibid., p. 55.

[17] Ibid., p. 108.

[18] Ibid., p. 24.

[19] Ibid., pp, 19-20.

[20] Ibid., p. 92.

[21] J. Derrida, Nietzsche e la macchina (Intervista con Richard Beardsworth) [1994], tr. it. Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2010, p. 57.

[22] A. Masullo – P. Ricci, Tempo della vita e mercato del tempo. Dialoghi tra filosofia ed economia sul tempo: verso una critica dell’azienda capitalistica, cit., pp. 106-107.

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