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Mauro Carbone – Amore e musica [Mimesis, Milano 2011, pp. 41, € 3,90]


L’ultimo libro di Mauro Carbone, Amore e musica, si apre con la folgorante citazione del neuropsichiatra e filosofo tedesco Erwin Straus: «In musica si fa precedere il tema, e poi seguono le variazioni. Noi, però, non ci troviamo in una condizione così fortunata. Non possiamo esprimere il tema in se stesso in modo immediato, lo possiamo rappresentare solo per mezzo delle variazioni; attraverso di esse bisogna indovinare il tema» (p. 7). Ed è attenendosi a questo monito che il pensiero dell’autore si fa scrittura. Uno stile, quello di Carbone, che non disdegna le fecondità filosofiche dell’analogia o della divagazione. Subito nota che le parole di Straus sembrano rinviare alla questione del “platonismo rovesciato” di Deleuze: il tema sta alle variazioni musicali, così come l’idea alle sue manifestazioni sensibili, le precede e le fonda ontologicamente; ma se soltanto le differenze si somigliano questo tema permane come fondo opaco e invisibile, che può essere solo intuito. Deleuze pensa alla nozione di tema quando s’interroga sulla serialità degli amori proustiani. I nostri amori replicano un archetipo, forse l’edipica attrazione verso il genitore di sesso opposto, non a caso madre e matrice condividono la stessa radice etimologica, forse «l’esperienza amorosa è quella dell’intera umanità, attraversata dalla corrente di un’eredità trascendente» (Deleuze, Marcel Proust e i segni, 2001, p. 66). Al fine di lumeggiare quest’esperienza di datità, quest’eredità trascendente, Carbone fa entrare in gioco la nozione merleaupontiana di istituzione (che lo studioso caldeggia di pensare come iniziazione). Nell’incipit del corso “L’‘istituzione’ nella storia personale e pubblica”, tenuto al Collège de France nel 1954-1955, Merleau-Ponty dichiara: «qui si cerca nella nozione di istituzione un rimedio alle difficoltà della filosofia della coscienza. Di fronte alla coscienza non ci sono che oggetti da lei costituiti» (Merleau-Ponty, Linguaggio Storia Natura, 1995, p. 55). Insomma la logica dell’istituzione viene contrapposta alla logica costitutiva tipica della filosofia della coscienza. D’altro canto quest’ultima lascia trapelare un carattere platonico del tutto simile a quello ravvisato da Deleuze nella concezione amorosa freudiana come riappropriazione dell’“originario” rapporto parentale. Ma l’eterogeneità dei riferimenti compiuti da Carbone non cade nella trappola dell’anacronismo: il vero interlocutore di Merleau-Ponty non può essere l’appena trentenne Deleuze, ma è ancora una volta Jean-Paul Sartre. Il riferimento comune è di nuovo alle avventure amorose di Proust e in particolare a La prisonnière. La concezione sartriana vede nell’amore la possibilità, per gli amanti, di darsi un fondamento eteroriferito, ciascuno nell’altro, alla ricerca del «fondo della gioia d’amore, quando c’è: sentirsi giustificati d’esistere» (Sartre, L’essere e il nulla, 1965, p. 421).  Eppure Merleau-Ponty obietta che questa non è che la metà del vero, il fenomeno amoroso sembra descrivere il perimetro di un’area che si sottrae alla logica binaria del soggetto e dell’oggetto, dell’io e del fuori dall’io, ma che è tra i due: «noi diventiamo davvero l’altro» (Carbone, p. 19), noi siamo, al contempo, il soggetto e l’oggetto d’amore, come, nell’atto sessuale, il corpo è sia percipiente sia percepito. L’amore non può essere rimesso alla fallacia di un’esperienza soggettiva, il suo statuto è non dissimile a quello delle “idee dell’arte”. Merleau-Ponty ne parla nel manoscritto interrotto de Il visibile e l’invisibile: l’idea amorosa, come quella artistica, differisce dalle “idee dell’intelligenza” perché inscindibile dalla sua apparizione sensibile, è esperienza della carne, pertanto «dovremo riconoscere una idealità che non è estranea alla carne, che le dà i suoi assi, la sua profondità, le sue dimensioni» (Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, 2003, p. 167). Queste idee vengono definite negative dal momento che «non si lasciano erigere a seconda positività» (p. 165) e per questo operano come una matrice invisibile, il tema musicale dell’amore dipanato nelle sue variazioni. Gli amori proustiani per Merleau-Ponty, ne conclude Carbone, «sono dunque reali – ed efficaci – proprio agendo in negativo» (p. 28). Prima di annodare le fila del discorso Carbone fa un ultimo riferimento a un’altra opera del filosofo francese, coeva al corso sull’istituzione, Avventure della dialettica, dove le matrici simboliche vengono descritte come «idee negative intorno alle quali si istituisce un senso nella storia collettiva» (p. 30). Dunque Storia collettiva e storie personali s’intrecciano all’ombra del concetto d’amore che agisce e regola le nostre vite come una divinità occulta e imperscrutabile. Tale matrice simbolica non è l’origine perduta ma l’originario in perenne accadimento. Il tema non è dietro di noi, non ha da dedursi secondo un movimento retrogrado, ma è da intuirsi nel costante processo di differenziazione che presiede ai nostri amori, per dirla con Deleuze. Il tempo si fa chiasmatico, il prima non è solo prima e continua a esercitare la propria azione sul poi, che non è il segretamente altro, ma il segretamente voluto, «non è quello che era previsto, ma nondimeno ciò che era voluto: si avanza all’indietro, non si sceglie direttamente ma obliquamente» (p. 37). La dimensione amorosa sembra quasi dischiudere quella divinatoria: solo come “architetti del futuro” e “sapienti del presente” decifreremo i segni di cui è costellata l’esperienza amorosa. In ultima analisi il saggio di Carbone fornisce l’occasione di ripensare, attraverso le categorie filosofiche di Merleau-Ponty e Deleuze, l’esperienza fondativa dell’amore, che ci scopre, ogni volta, silenti. «Un amore felice. Ma è necessario? Il tatto e la ragione impongono di tacerne come d’uno scandalo nelle alte sfere della Vita» (Szymborska, Ogni caso).

Alessandra Scotti

10_2011

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