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Arnold Gehlen – L’ uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo – a cura di Vallori Rasini, Introduzione di Karl Siegbert Rehberg [Mimesis, Milano 2010, pp. 485, € 30]


È del 2010 la riedizione di un classico dell’antropologia filosofica, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, di Arnold Gehlen, scritto nel 1940. Così come sostenuto da Vallori Rasini nell’ambito della prefazione al testo, questa riedizione non è casuale: «Nell’epoca dello strapotere della tecnica, delle progressive applicazioni biotecnologiche e della sperimentazione del transumano, si riaffaccia l’interesse per l’antropologia filosofica» (p. 7). La domanda sull’uomo, dunque, in un tempo di contaminazioni high-tech, diviene sempre più pressante, e ci si chiede soprattutto quanto di certi modelli epistemologici del secolo scorso, possa essere recuperato per rifondare un’epistemologia e un’etica all’altezza delle sfide che la contemporaneità impone.Il testo di Gehlen evoca subito il famoso paradigma della manchevolezza di memoria herderiana: l’uomo, sostiene l’autore, è animale carente, caratterizzato da primitivismi e da una certa labilità degli istinti, in contrasto con quelli immediatamente adattivi dell’animale, è un essere non specializzato e sprovveduto sotto il profilo organico (p. 121). L’essere manchevole si definisce tuttavia attraverso la stampella culturale che lo conduce non solo a forme di condotta di vita che eliminano l’incertezza e la precarietà originarie del suo abitare, ma addirittura al dominio sul resto dell’ente. La cultura allora «è un concetto antropo-biologico, e l’uomo allo stato di natura è in realtà un essere culturale» (p. 121).Gehlen intende affrancarsi dalle maglie intricate e astratte del discorso metafisico: polemizza anche con lo Scheler de La posizione dell’uomo nel cosmo, apparso nel 1928 e subito considerato il manifesto della nascente antropologia filosofica. L’autore polemizza in particolare con la categoria di spirito introdotta da Scheler per dar ragione della peculiarità dell’uomo, che si distinguerebbe dagli altri viventi in quanto persona. L’uomo, secondo Gehlen deve essere analizzato soltanto attraverso le sue condizioni di esistenza, e a prescindere da astratti a priori. La domanda da porsi è allora la seguente: «Di fronte a quali compiti si trova un tale essere, se semplicemente vuole conservare la sua vita, campare la propria esistenza, durare nel suo mero esserci?» (p. 52). Per spiegarlo l’autore si serve della categoria di azione, che è psicofisicamente neutra, e interpreta la natura dell’uomo evitando ogni dualismo di cartesiana memoria. Il compito dello studioso è di capire l’uomo attraverso ciò che fa e non in base a una presunta essenza di cui non si ha alcuna prova.Animale esposto a una morte dai mille volti e a un profluvio di stimoli che deve gestire, l’uomo pone in essere una serie di processi di esonero nei quali riduce il mondo in simboli e impara a dominarlo allontanando la pressione che esso costantemente esercita. L’esonero inteso come strategia adattiva, diventa poi nell’uomo addirittura fine a se stesso: l’uomo agisce spesso a prescindere da una precisa utilità vitale immediata, effettua azioni gratuite, è l’eroe dello sperpero, direbbe Bataille, ama il gioco fine a se stesso, anche a discapito dell’immediata sopravvivenza. L’uomo si muove in effetti all’interno di uno spazio allusivo, evocante e spesso nell’indipendenza della sua vita percettiva e motoria dalle sue pulsioni. È dai processi di esonero che si sviluppa il fenomeno inedito del linguaggio, attraverso un processo circolare che anticipa le teorie cibernetiche. Il linguaggio sorge come autocomunicazione, poiché il suono è autoprodotto e autoavvertito, dunque ricomunicato attraverso l’orecchio. Linguaggio e mano, così come per il filosofo all’ascolto dell’essere, diventano gli organi pensanti dell’uomo, che moltiplicano la ricchezza sensoriale del mondo. Tutte queste caratteristiche determinano l’inedita dimensione temporale dell’umano, che si sviluppa come tensione verso l’avvenire, progetto, anelito svincolato dal qui e ora del bisogno a cui invece è costretto l’animale, che come affermato dall’Heidegger nelle Vorlesungen del ’29, ha un comportamento e non una condotta in quanto persona. Ecco perché l’animale ha un ambiente, non un mondo. La storicità dell’uomo sorge entro il dominio del linguaggio. È attraverso la parola che nasce la communitas, il mondo condiviso, la vita associata e il nomos atto a ridurre l’eccesso pulsionale dell’uomo. La civiltà può sorgere allora soltanto attraverso un’azione di autodisciplina, con l’imposizione di regole da parte di strutture ordinatrici che costringano in una forma la vita pulsionale. E qui veniamo all’interessante riflessione introduttiva di Karl Siegbert Rehberg che, nel cercare di valutare l’attualità del testo, rinviene nell’antropologia filosofica gehleniana una sorta di programma di stabilizzazione sociale. Secondoil sociologo, la concezione dell’uomo di Gehlen presenta un risvolto politico. Per Rehberg l’utilizzo della categoria di azione rimanda a una visione dell’uomo come essere da disciplinare, che appunto a causa della sua incompiutezza è costretto a strutturarsi. L’aspetto interessante è che se la teoria dell’animale carente, in Herder come in Scheler, conduce a un’interpretazione positiva rivendicante la dignità dell’uomo e la sua libertà di ente aperto al mondo, in Gehlen si manifesterebbe invece un anti-illuminismo volto a intravedere maggiormente i pericoli impliciti nella posizione eretta dell’uomo, pericoli di un’esistenza divenuta instabile. L’uomo deve disciplinarsi esonerandosi dalla miriade di sorprese cui il mondo lo espone. La cultura allora rappresenta una tecnica di autodisciplinamento. In effetti a prescindere dalla specificità di alcuni contenuti considerati obsoleti dalle recenti ricerche in ambito biologico,la riflessione di Gehlen risulta più che mai attuale poiché riporta in auge la domanda sull’uomo in un’epoca di crisi di orientamento della società, in cui più forte appare il compito dell’antropologia filosofica.

Fabiana Gambardella

09_2011

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