Possiamo scoprire i meccanismi che presiedono ai nostri comportamenti economici? Quali aree cerebrali, in particolare, si attivano durante le nostre decisioni d’acquisto? È possibile elaborare dei modelli comunicativi in grado di anticipare e, eventualmente, orientare le nostre scelte? Queste le domande che sono alla base dell’odierna disciplina designata dal termine Neuromarketing, introdotto per la prima volta nel 2002 da Ale Smidts (A. Smidts, Kijken in het brein: Over de mogelijkheden van neuromarketing 2002, in http://repub.eur.nl/res/pub/308/), docente di Marketing presso la Erasmus University di Rotterdam, Olanda (http://www.rsm.nl/home/faculty/academic_departments/marketing_management/faculty/faculty/smidts).
Questo recente campo d’indagine si colloca all’interno della più vasta, ma altrettanto giovane area di ricerca della Neuroeconomia che, avviando un confronto tra molteplici orizzonti disciplinari, tra cui le neuroscienze, l’economia, la psicologia e la filosofia, si propone lo scopo di individuare i fondamenti biologici dei processi decisionali (http://www.cresa.eu/neuroeconomia.html).
Un’ampia panoramica di questo fenomeno emergente è offerta dalle opere Neuromarketing, di Martin Lindstrom e Neuroshopping di Gianpiero Lugli. Attraverso le dettagliate analisi offerte in queste pagine, il lettore ha modo di confrontarsi con gli interrogativi, le sfide e le innumerevoli questioni aperte che questa scienza col proprio avanzare dischiude.
Il danese Martin Lindstrom si presenta sulla scena internazionale come uno dei massimi esperti di marketing e di branding. Il suo approdo al Neuromarketing è stato determinato da una domanda divenuta via via sempre più decisiva nel corso della sua esperienza professionale: nel vasto proliferare di marche cui oggi si assiste, in che modo alcune di esse riescono a imprimersi nella memoria del consumatore, mentre le restanti si dissolvono semplicemente nell’oblio? (cfr. Lindstrom, p. 2). Le tradizionali forme d’indagine, fondandosi su sondaggi d’opinione e ricerche di mercato, risultano inefficaci nel dare una risposta a tale quesito e ciò, afferma l’autore, per un motivo molto semplice: «quello che le persone dicono nei sondaggi e nei focus group non ha un rapporto affidabile con il modo in cui si comportano» (ibid., p. 20). Di qui l’interesse di Lindstrom per le neuroscienze, nella convinzione che l’esame dell’attività cerebrale connessa a opportuni stimoli possa dare una risposta chiara e inequivocabile alla domanda che da sempre accompagna l’attività di manager ed esperti di marketing: in che modo si comportano i consumatori? L’autore ha dunque dato il via a uno studio ampio e dettagliato, durato tre anni e svolto in collaborazione con due brillanti neuroscienziati: la dottoressa Gemma Calvert e il professor Richard Silberstein. Ricorrendo a un godibilissimo stile aneddotico, Lindstrom illustra, nel corso della sua opera, i risultati di questa lunga attività di ricerca condotta con l’ausilio delle più avanzate tecniche di scansione cerebrale, tra cui la Risonanza Magnetica Funzionale (fRMI) e la Topografia a Stato Stazionario (SST) (ibid., pp. 213-214).
La rilevazione delle risposte neuronali riscontrate nei numerosi volontari che hanno partecipato agli esperimenti in questione ha consentito a Lindstrom di individuare i punti di forza che contraddistinguono le proposte pubblicitarie più efficaci. In particolar modo, le neuroscienze sono valse in questa sede a convalidare l’ipotesi che i brand di maggior successo riescono a imporsi all’attenzione del consumatore solleticando opportunamente la sua affettività. A determinare la scelta del prodotto non sarebbero, pertanto, le nostre considerazioni razionali, bensì un potente insieme di desideri e di emozioni primarie, come la paura o l’empatia, che il più delle volte si colloca sotto la soglia della nostra consapevolezza. In conclusione a tali osservazioni, l’autore prevede per il futuro un notevole incremento delle operazioni di marketing che faranno leva su tali stati emotivi per orientare i comportamenti d’acquisto dei clienti (ibid., pp. 206-207).
Il ruolo centrale che le emozioni ricoprono nei processi decisionali costituisce l’assunto principale della cosiddetta economia comportamentale. Da quest’orientamento muove Gianpiero Lugli nell’illustrare le sue osservazioni all’interno del suo testo. L’autore, docente di Economia e gestione delle imprese presso la Facoltà di Economia dell’Università di Parma, prende le distanze dall’approccio economico neoclassico, che si fonda sull’idea che i comportamenti dell’acquirente siano dettati esclusivamente dalla sua razionalità. Se così fosse, un’ampia scelta di prodotti dovrebbe garantire un maggior grado di soddisfazione del cliente, tenendo conto che tra le alternative proposte sarebbe più probabile trovare quella che risponde pienamente alle sue esigenze. Invece non è così. L’esperienza dimostra che spesso un’eccessiva varietà di prodotti disorienta l’utente, conducendolo in alcuni casi a una rinuncia della decisione stessa. «La nostra mente cognitiva – sostiene Lugli – ha infatti limiti di capacità elaborativa e vincoli di tempo; la scelta è pertanto realizzata in modo a-razionale» (Lugli, p. 7). Le osservazioni neuropsicologiche, ampiamente descritte nelle pagine di Neuroshopping, offrono una chiara convalida della tesi fin qui esposta, dimostrando il ruolo tutt’altro che accessorio che le emozioni ricoprono nel corso della nostra vita. Esse ci aiuterebbero, infatti, a orientarci agevolmente nel mondo, attuando risposte rapide alla molteplicità di stimoli che ci vengono incontro. Tali risposte troverebbero soltanto in un secondo momento una legittimazione logica da parte della nostra mente cognitiva. Ne deriva, quindi, che «più che razionali siamo dei razionalizzatori» (ibid., p. 39).
Le conclusioni cui ha condotto l’indagine pluridisciplinare condotta da Lugli si riflettono anche sul piano operativo, conducendo l’autore a proporre soluzioni innovative all’interno del marketing distributivo e a delineare una nuova forma di segmentazione della clientela, non più fondata sulla enorme varietà dei comportamenti effettivi dei consumatori, raccolta e analizzata mediante le tradizionali ricerche di marketing, bensì tenendo conto degli eventuali aspetti neuropsicologici che potrebbero intervenire in maniera decisiva nelle scelte d’acquisto delle persone (cfr. ibid., p. 153). Tale differenziazione consentirebbe di porre in atto strategie di vendita di successo, in grado, cioè, di «spingere il consumatore ad aumentare i suoi acquisti nel momento in cui entra in contatto con l’offerta commerciale» (ibid., p. 158).
Gli scenari delineati da questa nuova disciplina hanno senza dubbio il potere di suscitare l’entusiasmo dei professionisti del marketing, e una certa dose d’inquietudine in noi consumatori, lasciando intravedere l’idea che il pensiero umano possa essere concepito come un meccanismo di cui sia possibile conoscere e manipolare gli ingranaggi in maniera efficace e, soprattutto, senza sprechi di risorse. A tal proposito Lugli, con un accento più deciso rispetto a Lindstrom, mette in guardia dal trarre facili conclusioni. Prendendo le distanze da una visione radicalmente deterministica della mente umana, l’autore ricorda che gli esperimenti di neuroimaging sono effettuati in un contesto di laboratorio, prendendo in considerazione una variabile per volta (ibid., p. 27). Essi, pertanto, non riescono a tener conto della complessa interazione che l’individuo intrattiene col suo ambiente, la quale rende imprevedibile la sua azione. Per tale motivo, pur ricordando gli importanti contributi offerti da questo nuovo campo di studi, Lugli invita a non assolutizzarne i metodi e i risultati (cfr. ibid., pp. 28-29).
Una completa introduzione al neuromarketing non può non tener conto delle responsabilità etiche che col suo sviluppo tale disciplina prospetta. I nostri autori mostrano di esserne pienamente consapevoli, confrontandosi, all’interno delle rispettive opere, con le numerose preoccupazioni che questa nuova area di ricerca inevitabilmente suscita. Ambedue fanno riferimento in particolar modo alle perplessità esposte dal Commercial Alert, un’organizzazione no-profit che si propone il fine di tutelare i consumatori da eventuali abusi nelle iniziative commerciali. Sin dal 2004, tale organizzazione ha avviato numerose iniziative volte a sensibilizzare l’opinione pubblica circa gli esiti negativi che il neuromarketing potrebbe comportare nell’ambito della salute pubblica, della propaganda politica e del costume sociale (http://www.commercialalert.org/issues/culture/neuromarketing/commercial-alert-asks-senate-commerce-committee-to-investigate-neuromarketing).
Pur riconoscendo la necessità di procedere con cautela, sia Lindstrom sia Lugli ritengono eccessive le preoccupazioni sopraelencate. In particolare, entrambi pongono l’accento sul fatto che il neuromarketing non è che uno strumento. In quanto tale esso non è pericoloso in sé. Tutto dipende dall’uso che se ne fa. Ad avvalorare tale posizione viene ricordato come, attraverso uno dei suoi primi studi effettuati con le tecniche di scansione cerebrale, Lindstrom abbia dimostrato l’inefficacia delle etichette dissuasive presenti sulle confezioni di sigarette, offrendo in tal modo il proprio contributo all’interesse dei consumatori (Lugli, p. 25; Lindstrom, pp. 4-5 e p. 22). Se, dunque, da un lato il neuromarketing si presenta come un potente strumento di persuasione, dall’altro lato, sottolinea in particolar modo Lindstrom, esso può rivelarsi una forma di conoscenza utile affinché le persone possano tutelarsi più agevolmente dalle insidie del marketing. L’autore danese sostiene, infatti, che «capendo meglio il nostro comportamento irrazionale […] avremo in realtà più controllo, non meno» (M. Lindstrom, p. 5). Le condivisibili considerazioni degli autori non distolgono, naturalmente, dalla necessità di alimentare un dibattito etico intorno al neuromarketing. La neutralità di tale strumento, infatti, non esclude, ma, al contrario, porta sempre con sé la possibilità di un suo uso improprio. Lo stesso Lindstrom dichiara che «come ogni nuova tecnologia, il neuromarketing porta con sé il rischio di abusi» (ibid., p. 4) ed è in relazione a tale prospettiva che trova una sua legittimazione l’auspicio che gli sviluppi e i risultati di tale attività di ricerca siano soggetti a una costante attenzione e a una regolamentazione volta a tutelare le fasce più deboli e incaute della popolazione dei consumatori.
Anna Baldini
S&F_n. 5_2011