Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, molti intellettuali marxisti gettarono le condizioni per una critica severa della teoria comunista nella sua terribile e totalitaria versione stalinista. In Francia, in particolare, approfondendo le argomentazioni socio-filosofiche ed economiche di Bruno Rizzi, militante trockista italiano purtroppo ignoto ai più e autore di un testo molto importante dal titolo La burocratizzazione del mondo, alcuni gruppi politici gravitanti nell’orbita dell’estrema gauche diedero vita a iniziative di varia natura per mettere in risalto gli aspetti più deprecabili dell’URSS: oppressione delle masse proletarie, ben lungi dall’essere liberate dalla loro schiavitù; formazione di una classe dirigente burocratica privilegiata; inadeguatezza della politica economica; controllo capillare e poliziesco della società. Basti pensare, al riguardo, ai lavori filosoficamente notevoli di Cornelius Castoriadis e Claude Lefort, che fondarono nell’immediato dopoguerra una rivista «Socialisme ou Barbarie», nella quale trovarono spazio analisi precise e ben documentate della situazione sovietica; oppure ai testi di autori come Edgar Morin e Kostas Axelos, che intendevano “superare” il marxismo, considerato ancora troppo compromesso con la metafisica occidentale, e che, a tal fine, cominciarono a confrontarsi con pensatori “eretici” come Lukàcs o lontanissimi dagli ambienti di sinistra come Heidegger e altri esponenti della cosiddetta “rivoluzione conservatrice”. Inoltre, sempre in quegli anni, la stessa Francia fu attraversata da un moto di protesta artistico-letterario piuttosto intenso, che portò alla formazione di vere e proprie avanguardie. Anche in questo caso l’obiettivo annunciato era di matrice politica: distruggere l’arte borghese e quindi capitalistica e lavorare per un comunismo libertario. Ebbene, proprio in questo contesto culturale venne formandosi Guy Debord, la cui opera principale La società dello spettacolo, apparsa per la prima volta nel 1967, tanta influenza ha avuto sulla contestazione del ’68 e su intere generazioni di studiosi, militanti politici e non. Un’opera, quella di Debord, tematicamente ricca, molto spesso più citata a caso ed elogiata come profetica e anticipatrice che effettivamente compresa nella sua estrema complessità.La tesi principale, se così la si può definire, è che «lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato da immagini» (p. 54). Secondo il filosofo francese, in altre parole, la società nella quale egli stesso si trova a vivere, è caratterizzata da un evento epocale, cioè dal fatto che il Capitale è giunto a un tale livello di sviluppo da essersi trasformato in immagine, anzi, in un’“Immagine” autonoma e autonomizzata, sintesi di tutte le immagini individuali del mondo. Il Capitale entra in una fase nella quale presentandosi come “Immagine” porta alle estreme conseguenze il processo di mistificazione della realtà, presentando il falso come vero e viceversa e costringendo, altresì, l’operaio a produrre merci-immagini sempre più astratte, private ormai quasi del tutto di un benché minimo valore d’uso. Al di là della critica allo sfrenato e generale consumismo, al di là delle categorie lukacsianamente intese (oggettivazione, reificazione, ecc.), con le quali Debord flirta con grande frequenza, occorre sottolineare anche un forte debito nei confronti di una certa lettura di Heidegger, tipica di Marcuse e di altri esponenti della scuola di Francoforte. Di ascendenza heideggeriana, più che marxiana o marxista, sembra, difatti, essere la critica degli effetti alienanti della tecnica e delle tecnologie, accusate di rinchiudere l’uomo in una fortezza inespugnabile, all’interno della quale a essere soddisfatti sono bisogni non primari o secondari, ma bisogni inventati ex novo, che, alla fine, bisogni veri e proprio non sono. Così, Debord arriva, a tratti in modo palese a tratti in modo più criptico, a denunciare l’inganno costante di un potere invadente, che, annullando ogni possibilità di radicale trasformazione della società, si ipertrofizza sempre più presentando alle classi sfruttate una miriade di immagini mistificanti, da cui trarre, voyeuristicamente, appagamento. Quest’incubo concreto, reale nel suo essere fantasmatico, accomuna l’URSS totalitaria dell’epoca, chiusa in se stessa, e il cosiddetto “mondo libero”, quello occidentale. Non c’è nulla in grado di resistere al potere onnipervasivo del Capitale spettacolarizzato, che si rende subdolamente indispensabile per tutti, offrendosi come immagine cangiante, in movimento, come film. Come quella pellicola che in Infinite jest di David Foster Wallace produce un piacere intenso negli spettatori che lo guardano e al tempo stesso li rende catatonici e dipendenti consumandoli lentamente. Lo sfruttamento del capitalista diventa più sottile: il proletario non riceve più un salario che gli garantisca una semplice sopravvivenza, dal momento che deve circondarsi, anche se in maniera limitata e saltuaria, di quei beni in grado di indebolirlo, di narcotizzarlo, di renderlo sempre più schiavo inconsapevole di un sistema produttivo affine ai peggiori universi concentrazionari.
Ciro Incoronato
S&F_n. 9_2013