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Adolf Portmann – La forma degli animali. Studi sul significato dell’apparenza fenomenica degli animali – tr. it. a cura di P. Conte [Raffaello Cortina Editore, Milano 2013, pp. 248, € 24]


«Non faremo come quei cercatori di tesori che credono che le cose di maggior pregio si trovino sempre e soltanto a oscure profondità» (p. 29): una dichiarazione d’intenti esplicita e incisiva quella di Adolf Portmann, Medaglia d’oro della Humboldt Gesellshaft, professore di Zoologia dal 1931 al 1968 all’Università di Basilea e autore de La forma degli animali. La nuova edizione, ben curata e con un saggio introduttivo di Pietro Conte molto utile per comprendere il contesto in cui l’opera si è sviluppata, ha il merito di porre all’attenzione del lettore una critica all’evoluzionismo darwiniano volta a rintracciare e recuperare la bellezza della natura, intesa in senso antiutilitaristico. L’osservazione delle forme animali porta l’autore a uscire dal filone finalistico e aprirsi all’ignoto, fino ad avvertire la misteriosa grandezza di ciò che accade in natura e a essere coscienti di quanto limitate siano le nostre conoscenze in relazione al problema della vita. Il sottotitolo dell’opera, che ha avuto due edizioni, una del 1948 e una del 1960 (quest’ultima ampliata e rivista in numerosi aspetti formali e contenutistici), è Studi sul significato dell’apparenza fenomenica degli animali, ed è qui che il lettore viene immediatamente tratto in inganno. Si aspetta di leggere una serie di argomentazioni corredate da prove scientifiche che attestino il fine ultimo per cui la natura ha provvisto le diverse specie animali di particolari caratteristiche morfologiche. Un fine rintracciabile soltanto guardando oltre l’apparenza fenomenica degli animali, oltre la loro forma esteriore. Invece è proprio questa convinzione l’obiettivo contro cui Portmann rivolge la sua vis polemica. Le geometrie delle conchiglie, gli ocelli sulla coda del pavone, i disegni sulle ali delle farfalle, le striature delle zebre, le livree colorate e brillanti degli uccelli, nell’immaginario collettivo sono considerate come la manifestazione della struttura interna dell’animale, ossia il segno esteriore di un organismo il cui funzionamento si avvale anche dell’apparenza fenomenica. Per anni i ricercatori hanno insistito sull’indagine dei meccanismi interiori che regolano le funzioni vitali degli animali, processi nascosti, non visibili in superficie, ma comprensibili proprio a partire dalle caratteristiche esterne dell’animale. Forma, colore, disegno, piumaggio, risponderebbero, secondo la logica del cercatore di tesori, a un’esigenza interiore dell’animale, come la difesa dai nemici, il richiamo sessuale, la protezione dei cuccioli, la comunicazione con i conspecifici.Quindi, il tesoro si troverebbe sotto la superficie, il significato oltre la forma, oltre l’apparenza fenomenica. Il presupposto di questo genere di indagine è, secondo Portmann, il retaggio di un paradigma scientifico fondato sul dualismo forma/sostanza: «Sin dai tempi più remoti, l’esperienza ha portato gli uomini a considerare gran parte di ciò che è visibile intorno a loro come una parvenza ingannevole che nasconde la vera natura delle cose. Le scienze naturali stesse hanno consolidato l’opinione secondo cui il nucleo essenziale della realtà si troverebbe celato al di sotto di numerosi rivestimenti» (p. 11). Questo schema mentale, basato sull’opposizione tra eidos ed eidolon, essenza e parvenza, conoscenza e opinione, nasce con la filosofia presocratica e trova in Platone la sua monumentale sistematizzazione filosofica. Se in Platone le forme sensibili sono solo rappresentazioni imperfette e mutevoli delle vere forme ideali, per buona parte della scienza contemporanea esse sono una manifestazione secondaria e accessoria di processi concreti, ma celati sempre sotto le ingannevoli apparenze. L’essenza delle cose, secondo il dualismo gnoseologico, è invisibile agli occhi del corpo, ma visibile agli occhi della mente, o alle lenti del microscopio, se si preferisce. La vexata quaestio per cui esisterebbe un mondo vero nascosto dietro il mondo restituitoci dai sensi, era stata l’obiettivo polemico di un autore molto caro a Portmann, Goethe. Autore della Metamorfosi delle piante e di vari studi botanici e zoologici, Goethe aveva criticato l’impiego indiscriminato di lenti e microscopi, accusati di confondere l’immediata conoscenza sensibile dell’uomo e di favorire un’idolatria di numeri e misure che non restituiscono la pienezza e l’intensità della viva osservazione delle forme.Il rischio, secondo l’autore de La forma degli animali è quello di perdere di vista il mondo che ci circonda, quel mondo della vita, come lo chiama Husserl, che è al tempo stesso presupposto e orizzonte di ogni esperienza possibile. Portmann dunque prende posizione contro un modello teorico che fa della verità un nucleo nascosto al di sotto di ingannevoli rivestimenti. Questo principio ci conduce a un rischioso dilemma: o consideriamo l’apparenza fenomenica come il volto esteriore della legge di sopravvivenza, oppure come un banale effetto collaterale delle funzioni vitali. Nel primo caso la forma è completamente subordinata al principio di utilità e risponde a una inesorabile eteronomia, nel secondo caso invece la forma è considerata come qualcosa di superfluo, nel senso di superficiale, appunto.Ebbene, con tenace forza persuasiva, Portmann fa di questo testo l’occasione per raccogliere una serie di ricerche volte a dimostrare, con chiarezza e ricchezza di dettagli, che la superficie non dev’essere intesa necessariamente come il contrario della profondità, che l’apparenza fenomenica ha un suo proprio significato, autonomo rispetto alle leggi di conservazione dell’individuo e della specie, che la forma non è solo manifestazione dell’interiore processo vitale di un organismo. Il senso delle forme di tutti gli esseri viventi, degli animali, delle piante e dei funghi è piuttosto l’autopresentazione, ossia l’esibizione del proprio essere così e non altrimenti, una prerogativa che a quanto pare non è appannaggio esclusivo degli esseri umani. Portmann considera l’autopresentazione come la manifestazione fenomenica di un sé, il quale indossa un “abito” che lo rende speciale, ossia unico e irripetibile, pur non essendone cosciente. Così le sfumature, le linee, i colori e la conformazione degli animali assumono un valore nuovo, anzi un valore recuperato sotto una spessa coltre di neve depositatasi nel corso del tempo, con gli innumerevoli dati della ricerca scientifica che, cadendo copiosi come fiocchi (secondo la metafora del celebre biologo von Uexküll), creano uno scenario affascinante ma al tempo stesso coprono il meraviglioso spettacolo della natura. L’aspetto esterno di una pianta o di un animale dunque, secondo Portmann, identifica un organismo non soltanto nella sua appartenenza a una determinata specie, ma anche nella sua unica e irripetibile individualità. L’essere vivente si mette in mostra come se si esibisse su un palcoscenico e se noi decidiamo di guardare solo dietro le quinte, se non teniamo gli occhi puntati sulla scena, preferendo guardare i preparativi degli attori e i macchinari che producono gli effetti speciali, finiremo col perderci lo spettacolo stesso.«La ricerca volta a mettere in luce le leggi fondamentali che regolano l’esistenza ci ha fatto perdere di vista le forme viventi e tutta la loro ricchezza, convincendoci che si trattasse di una rinuncia inevitabile e che distogliere lo sguardo dalla pienezza formale rappresentasse per lo scienziato moderno un grandioso atto ascetico, una doverosa rinuncia!» (p. 210); ma bisogna precisare che gli scienziati hanno agito così per rintracciare leggi di uniformità cui far risalire la molteplicità dei dati sensibili. Le cangianti apparenze esterne sono state ricondotte a elementi strutturali e avvenimenti più stabili e costanti, sulla cui base poi è stata costruita una realtà ritenuta ben più importante rispetto a quella fenomenica. L’apparenza fenomenica però scompare dietro le forze messe in luce dall’analisi e dietro le leggi che ne governano l’azione. In base a questa concezione, le percezioni sensibili si riducono a mero indizio di ciò che è celato dietro le forme. Portmann tuttavia non vuole rinnegare i risultati della biologia contemporanea: che l’apparenza fenomenica svolga importanti funzioni, da quelle più elementari, relative al sostentamento e all’autodifesa, a quelle più raffinate, riguardanti l’individuazione del sesso opposto e alla relazione con i genitori o la prole, è indubbio. Il suo obiettivo è piuttosto quello di interpretare l’apparenza fenomenica in chiave non solo funzionalista, ma anche in un’ottica volta alla rivalutazione del senso proprio della forma, indipendentemente dalla funzione cui essa è legata. «Dobbiamo forse dire che tutti i tratti caratteristici dell’apparenza fenomenica che si sottraggono alle interpretazioni utilitaristiche sono assolutamente inesplicabili e incomprensibili?» (p. 217). In ogni caso, secondo Portmann, dovremmo guardare alla loro esistenza con la massima serietà, considerando la forma degli animali come un fattore degno di importanza in sé e per sé. Le caratteristiche formali, infatti, hanno un valore particolare, indipendente rispetto alla funzione di autoconservazione: «il valore di presentazione» (p. 223). Porre l’accento sul valore di presentazione deve servire a riportare l’attenzione sulla più importante proprietà della forma, che consiste nel rendere manifesto, tramite il linguaggio dei sensi, la peculiarità di ogni organismo. Una peculiarità unica e irripetibile, offerta ai nostri occhi in modo immediato e sempre capace di catturare l’interesse della scienza.

Maria Teresa Speranza

10_2013

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