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Giacomo Marramao – Contro il potere. Filosofia e scrittura [Bompiani, Milano 2011, pp. 151, € 10]


Prima di affrontare la complessità teorica di questo testo – complessità teorica sempre temperata da una “presenza” costante della realtà contemporanea nei suoi aspetti fattuali e pragmatici – può essere utile sottolineare la carica fortemente politica di quest’opera – e politica nel senso di “progetto” politico – che traspare soprattutto all’interno dell’Appendice. Non si tratta soltanto di un’opera teorica ma – con l’afflato tipico del pamphlet – di un libro che pone anche la questione del “che fare?”. Richiamando le lucidissime e radicali affermazioni di Debord sul ritorno del “tempo ciclico” all’interno del sistema dei consumi proprio delle società capitalistiche e industriali avanzate e la definizione del nostro tempo come “epoca delle passioni tristi” fondata sul «circolo vizioso di delusione-appagamento illusorio-nuova delusione» (p. 126), Marramao si interroga sui compiti della Sinistra di fronte alle trasformazioni delle società globali. Confrontandosi direttamente con le tesi di Simone, contenute nel suo libro Il Mostro Mite, Marramao in primo luogo ribadisce la pericolosità del richiamo a una presunta dimensione “naturale” dell’umano e della società all’interno di analisi che si interrogano sulle soggettività contemporanee e sulle strutture sociali che su di esse si strutturano. Non è forse questo il luogo per approfondire questa questione – e Foucault su questo ci ha insegnato tanto sul versante soggettivo almeno quanto Marx sul versante sociale – ma sicuramente è utile sottolineare la prospettiva “storico-culturale” dalla quale muove Marramao. In poche parole non si dà mai – ed è già immediatamente “ideologico” presupporlo – una “natura umana” con le sue pretese metafisiche, identitarie, immobilistiche – anzi è proprio questo una delle costruzioni ideologiche tipiche della modernità capitalistica, come ci hanno insegnato i soliti Marx e Foucault – e non si dà mai una società che sarebbe organizzata in un determinato modo secondo natura; tutto ciò che noi possiamo leggere dalla prospettiva antropologica e dalla prospettiva sociale della nostra contemporaneità deriva da un fenomeno “storico” ed evenemenziale rappresentato dal sorgere e dal diffondersi del modo di produzione capitalistico. Dialogando contemporaneamente con Tocqueville e Weber, Marramao può descrivere in questi termini la «divisione schizoide interna all’antropologia dell’homo democraticus»: «le basi culturali dell’economia capitalistica dell’Occidente si basano su una doppia (e antitetica) ingiunzione all’agire produttivo (che richiede per essere efficace una dimensione progettuale transindividuale) e al comportamento consumistico ed edonistico» (p. 144). In poche parole se la cosiddetta Neodestra (di cui il berlusconismo è sicuramente il più fulgido esempio) si richiama a una presunta “naturalità” della “natura umana” fondata sulla “passione triste” del consumo edonistico ed egoistico, la Sinistra dovrebbe, sul piano culturale, interpretare differentemente le soggettività attraverso un lavoro allo stesso tempo “teorico-culturale” e “pratico-politico”, sottraendo alla Neodestra la colonizzazione di un immaginario asettico, “triste” (in senso spinoziano), illusorio. Compito gigantesco, a nostro avviso, ma che lo si dica a chiare lettere – e che lo dica un filosofo – è quanto mai necessario.

Il testo di Marramao – a dispetto della sua ridotta mole – muove da questioni teoriche di una certa densità e rilevanza: «scopo del libro non è, dunque, la riproposta di un’ennesima critica del potere, ma la dimostrazione di come solo una restituzione scabra e disincantata dei meccanismi di produzione e riproduzione del potere a partire da concreti contesti di esperienza – archeologicamente dissodati o narrativamente intessuti – sia in grado di delineare linee di frattura talmente profonde da sovvertirne la logica» (p. 13). L’impostazione in questo senso è canettiana nel senso della doppia ingiunzione a una ricerca che si avvalga della dimensione della costante, ciò che nel potere si riproduce appunto “costantemente” come linee generali di funzionamento di un dispositivo, e della dimensione del concreto, la maniera attraverso la quale il potere si riproduce in contesti concreti come può essere la nostra contemporaneità. Insomma il libro assume questa duplicità come motivo di fondo: alla scena primaria del potere – ed è chiamato in causa, in questo senso, Elias Canetti – si innesta quella che Marramao chiama la nuova scena del potere di cui abbiamo discusso già alcune prospettive.

In primo luogo Marramao è convinto che sia necessario riscrivere e riformulare la triade “politica-potere-potenza” in maniera tale da «ripensare in senso forte tutti quei nodi che la grande tradizione metafisica dell’Occidente aveva concepito in termini di sostanza traducendoli nei termini – nel lessico e nella logica – della relazione» (p. 21). Si ha dunque la necessità di pensare la politica non semplicemente come fatto ma da un lato come problema che ha per oggetto l’ordine e dall’altro come domanda su quelle che possono essere definite le condizioni di legittimità; il potere non come sostanza ma come relazione per cui non si tratta solamente di un potere-su (il fatto del dominio e della subordinazione così bene messa in luce da Marx) ma anche di un potere-di (il fatto della libertà nei fenomeni di soggettivazione così ben messi in luce da Foucault); la potenza come l’essenza stessa dell’essere in quanto si determina come attività (come ha ben descritto Spinoza). Ed è proprio la potenza a essere particolarmente problematica in questo senso in quanto «il differenziale della potenza, la sua irriducibile ridondanza rispetto al potere, non risiede nella quantità di energia, ma nell’eccesso simbolico dell’autorità» (p. 33). In un certo senso è anche questa la scena primaria delle relazioni umane: la politica come fenomeno all’interno della quale si realizza la continua dicotomia tra il potere che cerca di istituzionalizzare ciò che è intimamente connesso a una potenza che è già sempre eccedente quella stessa istituzionalizzazione.

Questi presupposti permettono di superare la dicotomia classica tra la tradizione che vede la politica come prassi relazionale, e non possiamo non ripensare nel XX secolo al lavoro della Arendt, e quella che vede la politica come conflitto, a partire da Machiavelli e Spinoza giungendo fino a Foucault. Una nuova prospettiva deve partire dalla consapevolezza che «l’una è l’interfaccia dell’altra» (p. 37) e che «occorre spostare il fuoco della teoria e della prassi sulla costituzione dei soggetti: di una soggettività politica radicalmente nuova, capace di costituirsi a partire non più dall’ideologia identitaria della reductio ad Unum, ma dal criterio e dalla potenza simbolica della differenza» (p. 38).

A partire da questi presupposti teorici Marramao affronta il Canetti di Massa e potere ritrovando in quell’opera poderosa e ponderosa alcuni elementi che possono permettere di gettare una luce nuova sulla nostra contemporaneità. Ciò che Marramao trova fondamentale nell’analisi di Canetti è la definizione della logica del potere come una polarizzazione tra «la spinta all’accrescimento e l’ossessione paranoica della sopravvivenza a ogni costo» (p. 74), tra una “dinamica della crescita” (e sembra di sentire le litanie della crescita a tutti i costi nel dibattito economico-politico di questi ultimi mesi) e una “statica della durata” che si fonda sulla paranoia della sopravvivenza. Entrambi questi processi (solo apparentemente antitetici) bloccano il processo di metamorfosi, la possibilità di un cambiamento della forma-di-vita che dovrebbe rappresentare l’esperienza dell’umano. Da un lato, dunque, Marramao accoglie questa rappresentazione descrittiva del potere ma dall’altro, a differenza di Canetti, non ne fa una costante “naturale” ma un evento “culturale”. Come si era già accennato in precedenza Marramao diffida (dalla nostra prospettiva, giustamente) da ogni ricostruzione che abbia alla sua base una presunta “naturalità”, c’è un vizio di fondo “ideologico” come si è fatto notare precedentemente; una dinamica di potere che si innerva sulla “dinamica della crescita” ha a suo fondamento la rottura nella percezione del tempo avvenuta con il Cristianesimo da tempo ciclico a tempo lineare, la dinamica della secolarizzazione, e che la “statica della durata” si innerva invece su una logica dell’identità. Il convergere di entrambe può essere ricostruito come il momento dell’avvento del modo di produzione capitalistico che si è avvalso di entrambe e che vive della loro congiunzione e opposizione. Il convergere di entrambe è il fattore che determina l’impossibilità della metamorfosi in linguaggio canettiano o dei processi di soggettivazione in linguaggio foucaultiano.

Anche in questo senso – in un breve ma intenso capitolo – viene richiamata l’esperienza biografica e letteraria di Herta Müller all’interno della quale è possibile ritrovare un’altra caratteristica che assume il potere all’interno delle società contemporanee: esso «sembra essersi trasformato, da canettiano “recipiente della massa”, in sistema paranoico di controllo capillare e indifferenziato, in cui ognuno finisce per diventare un potenziale eversore dell’ordine» (p. 84). All’interno di un sistema di potere caratterizzato in questi termine – e che non appartiene soltanto ai regimi del socialismo reale ma seppur in modalità differenti anche ai regimi liberal-democratici (Foucault ha messo bene in luce proprio questa connessione funzionale con lo sviluppo del capitalismo) – l’elemento fondamentale che si produce dalla parte del “governato” è la disappartenenza come la forma più radicale dell’individualismo moderno e dell’impossibilità di metamorfosi.

Per concludere è possibile sottolineare alcune contraddizioni che Marramao ritrova all’interno della geopolitica mondiale segnata dal fenomeno della globalizzazione, in primo luogo la “posizione” dello Stato che sembra schiacciato dall’alto dai grandi interessi economici che tendono a centralizzare e omologare il globo e dal basso dalle spinte identitarie e culturali che tendono invece a parcellizzarlo e polverizzarlo. Marramao non ripercorre semplicemente il leit-motiv della crisi dello Stato (definito vero e proprio Zeitgeist del XX secolo) ma cerca di renderlo più complesso e articolato. Se indubbiamente dobbiamo ritenere di trovarci nel tempo del “dopo il Leviatano”, è pur vero «che lo Stato nel mondo globalizzato ci restituirebbe pertanto la paradossale figura di un declinare crescendo» (p. 104) nel senso che lo Stato abbandona sempre di più i processi quantitativi di “statualità” organizzandosi sempre di più attraverso il paradigma della “governamentalità” fluida. E questo perché sorgono nuovi coaguli di “potere” che complessificano la governance mondiale: si tratta di «coaguli di potere economico» come ad esempio le multinazionali in chiave transnazionale ma anche la questione Marchionne in chiave strettamente nazionale, di «potere etno-culturale» attraverso l’istituzione di vere e proprie nuove identità culturali e comunitarie, di «poteri di tipo religioso» di natura transculturale che fluidificano i confini e coagulano interessi e poteri. Insomma queste indicazioni permettono di identificare una caratteristica fondamentale del potere: esso «è una variabile dipendente, il cui variare dipende dall’intensità dell’investimento simbolico che si viene di volta in volta a determinare nei diversi ambiti dell’interazione sociale» (p. 112).

Infine Marramao cerca anche di indicare una soluzione, secondo la quale una sfera pubblica postnazionale «non potrà darsi che attraverso un universalismo della differenza capace di destrutturare l’ossessione identitaria da cui traggono alimento le nuove forme di potere e di portare alla luce il potenziale liberatorio racchiuso nello statuto multiplo – intimamente conflittuale e intrinsecamente “polemogeno” – del Sé» (p. 121). Ma questo non è assolutamente semplice e Marramao non cede assolutamente a una conclusione puramente teorica ma intende problematizzarla e mostrarne la complessità di realizzazione materiale. Per far sì che avvenga questa “liberazione” del potenziale del Sé sarebbe necessario – e non è assolutamente semplice – colmare la distanza enorme che nelle società contemporanee sussiste tra “dimensione materiale” e “dimensione simbolica”. Entra in scena in questo senso l’ultimo grande elemento del potere moderno: la mediocrazia, o come direbbe Debord, lo spettacolo. Questa forma di “potere”, che si concretizza all’interno di quello che Marramao definisce neopopulismo mediatico e postdemocratico, non si concretizza soltanto attraverso un meccanismo che costituisce e gestisce i desideri dei governati in vista di un soddisfacimento e di un uso ideologico della felicità, bensì – ed è questo il punto nevralgico – «nell’appropriarsi – ripeto, beffardamente – delle strategie postmoderne di destrutturazione del soggetto e di radicalizzazione dell’immaginario, induce un effetto generalizzato di de-simbolizzazione – e, di conseguenza, di spoliticizzazione – della dimensione materiale del conflitto» (p. 123). Insomma la capovolta materialità dell’esistenza immunizza la possibilità di capovolgere la capovolta simbolizzazione mediatica dell’assenza di conflitto.

Delio Salottolo

3_2012

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