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François Jacob – Il topo, la mosca e l’uomo – tr. it. a cura di F. Nuzzo De Carli [Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp. 147, € 15,37]


È recentissima la notizia che alcuni ricercatori italiani hanno scoperto che la ridotta attività della proteina HUWE1, molecola indispensabile per la corretta programmazione delle cellule staminali del cervello, determina lo sviluppo di neoplasie cerebrali. Lo studio è stato condotto su un animale da laboratorio ormai da noi tutti associato a questo, come ad altri tipi di esperimenti: il topo.

Alla fine degli anni ’60 François Jacob propose ai diversi membri dell’Istituto Pasteur, dove lavorava in qualità di biologo, la creazione di un laboratorio specifico in cui «genetisti, fisiologi, biochimici, patologi, virologi, cancerologi ecc. lavorassero fianco a fianco su uno stesso materiale» (p. 61).

Quello che a prima vista può sembrare qualcosa di marginale, in realtà rappresenta un momento fondamentale, decisivo, che segna il passaggio dall’analisi genetica dei batteri all’embriologia del topo. E soprattutto, la possibilità di studiare nel topo un particolare tipo di tumore, il teratocarcinoma. Un passaggio non indolore né facile dal momento che, fin da subito, per il laboratorio si pose l’esigenza di formare i propri scienziati e di creare un’equipe su scala internazionale pronta a confrontarsi circa i diversi approcci metodologici e gli animali su cui condurre gli studi. L’Istituto Pasteur aveva da anni ampliato i propri orizzonti: dalla mosca ai batteri, funghi, virus, per giungere agli organismi più complessi, e tuttavia la proposta di Jacob, presentata anche a Jacques Monod, incontrò inizialmente perplessità e ostacoli. Il funzionamento e la genetica della cellula batterica erano a uno stadio ancora preliminare e per di più la drosofila aveva rappresentato per anni l’insetto privilegiato nel quale osservare il ruolo dei geni nello sviluppo dell’embrione.

Tale situazione dura all’incirca fino agli anni ’70. Difatti, nel momento in cui si apre la possibilità di studiare separatamente i geni, accanto al problema che riguardava il loro funzionamento si fa strada una domanda di ordine diverso, diremmo “meccanico”: com’è possibile la costruzione di un organismo, cosa ne determina la struttura? Di qui, l’ipotesi del mondo vivente come una sorta di grande Meccano; l’enorme variabilità delle specie come frutto della combinazione di pochi – sempre gli stessi – elementi: frammenti, filamenti, segmenti assemblati, separati e poi nuovamente e differentemente mescolati.

I riflettori vengono puntati non solo sul procedimento genetico e sulla differenziazione cellulare ma anche sulle mutazioni intese come cambiamenti – errori, variazioni – all’interno del messaggio genetico. Col tempo è apparso chiaro infatti che «le anomalie genetiche più frequenti non comportano la formazione di strutture nuove, sconosciute fino a quel momento […] l’anomalia consiste nel far comparire un organo là dove non è atteso […]. Come se, in una regione del corpo, tutti gli ingredienti necessari per la formazione di una regione diversa fossero già lì, pronti a manifestarsi non appena ne ricevessero l’ordine» (p. 45).

All’inizio nessuno avrebbe assicurato l’esito positivo della scelta: del resto, la mancanza di garanzia e di certezza accompagnano – devono accompagnare – la ricerca scientifica. Jacob infatti parla di imprevedibilità della scienza nella misura in cui il suo procedere avviene per tentativi, per salti nel vuoto, nell’ignoto: «la scienza può, a posteriori, spiegare come un tale evento si sia verificato. In nessun caso essa può prevederlo» (p. 27). In questo punto, il linguaggio più propriamente medico-scientifico porge la mano a quello filosofico poiché secondo l’Autore la scienza ha il compito di fornire una Weltanschauung che a volte collima, fornisce gli strumenti per la nostra lettura e comprensione della realtà, altre volte pone in discussione gli oggetti e il mondo stesso. Dualismo che ritroviamo anche nella descrizione fornitaci dello scienziato come colui che vive due realtà parallele: una vita ordinaria che egli condivide con gli altri e la vita privata della ricerca.

Tuttavia, i problemi sorgono quando la teoria trova applicazione e viene così a determinarsi un cambiamento: si pensi al bagaglio nuovo, straordinario, apportato dalla genetica che potrebbe svelarci il nostro destino (se è vero che, dietro pagamento, potremmo conoscere di quale malattia ci ammaleremo e di che morte moriremo). Al di là di una riflessione sugli eventuali effetti di una eugenetica negativa e/o positiva, foriera di accuse, odio, ignoranza ma anche di passioni e di sostegno; al di là delle evocazioni di sogni malefici, Jacob auspica il proseguimento della ricerca scientifica perché «per fare progressivamente spostare il peggio verso il meglio, per trovare rimedi là dove ancora non ne esistono, bisogna perseguire senza sosta la ricerca. Gli sviluppi che a buon diritto sono attesi dalla terapia genica, ancora balbettante, non possono che essere in questo senso» (p. 100).

Forse, in modo troppo ottimistico e idealistico, Jacob fa leva sull’onestà di ogni scienziato, sul dovere che ogni scienziato ha di dire tutta la verità; sulla responsabilità affidata alla coscienza e non al successo, alle leggi che regolano il mercato, alle case farmaceutiche o alle politiche proprie di ogni Paese che credono e fanno credere di aver trovato la cura per il male del momento. Illusione o speranza?

Forse, il dovere di dire tutta la verità è l’unica possibilità data all’uomo. Così Jacob: «Noi resteremo eternamente vittime di Zeus e di Pandora. Rinchiudendo tutti i mali nel vaso che Pandora avrebbe aperto, Zeus ha obbligato l’umanità a combattere per sopravvivere […]. Ha condannato gli esseri umani a una ricerca che non avrà mai fine» (p. 120).

Rosanna Cuomo

09_2009

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