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Elena Casetta – La sfida delle chimere. Realismo, pluralismo e convenzionalismo in filosofia della biologia Prefazione di Matthew Slater [Mimesis, Milano 2009, pp. 180, € 15]


Jerry Fodor e Umberto Eco ci hanno avvisato per tempo, in un mondo in cui esiste l’ornitorinco tutto è possibile. Coda da castoro, becco d’anatra, velenosissimo, semiacquatico, palmato ma ricoperto di peli, viviparo ma dotato di ghiandole mammarie per l’allattamento, bassa temperatura corporea, si direbbe da rettile, eppure mammifero. Insomma ce n’è abbastanza per dedurne che tra i tanti attributi riconosciutigli, il Creatore sia dotato anche di un certo senso dell’umorismo. Di fronte a un animale del genere tutte le possibili classificazioni del mondo naturale vanno a farsi benedire e, insieme a esse, fanno una brutta fine tanto il “realismo tipologico” di un Aristotele quanto il “concettualismo categoriale” di un Kant. Seguendo lo schematismo della Critica della Ragion pura potremmo infatti pensare alle specie e, per la precisione, ai taxa in cui si suole ordinare l’imbarazzante varietà delle forme viventi come a tante categorie dell’intelletto che, proprio in quanto strumenti logici e non ontologici, garantiscono la “vera ossatura del reale”. Ma allora dovremmo possedere gli schemi per ogni cosa, ornitorinco compreso, e di certo non è questo quello che ci viene documentato dalla storia di questo strano animale se è vero, come è vero, che da quando nel 1799 il naturalista inglese George Shaw cominciò a cimentarsi con la sua tassonomia se ne sono dette di tutti i colori: che in realtà non esistesse per davvero e che fosse l’artefatto di qualche bizzarro tassidermista (lo stesso Shaw), che fosse un animale dalla triplice natura (Thomas Bewick), che appartenesse a un nuovo taxon a metà tra mammiferi e ovipari (Etienne Geoffroy de Saint-Hilaire), ipotesi quest’ultima recentemente ritornata in auge grazie a un ricercatore di Stanford, che su “Genome Research” ha dichiarato che l’ornitorinco è un eccellente «ponte» tra i mammiferi, gli uccelli e i rettili. Opzioni classificatorie a parte una cosa è tuttavia certa, e cioè che di fronte a un oggetto ignoto sono state trovate soluzioni tassonomiche differenti, quindi non è vero che di quell’oggetto ne possediamo una schema. Si potrà obiettare – non senza un qualche azzardo – che gli schemi di cui parla Kant non sono innati come quelli platonici ma vengono astratti dall’esperienza; ma allora come spiegare il fatto che secondo Kant è proprio attraverso gli schemi concettuali che noi possiamo avere esperienza di qualcosa? L’ornitorinco è lì, esiste, ma come dire, kantianamente parlando (e pensando) non riusciamo a darcene una ragione.

Proviamo ora con il realismo tipologico aristotelico. Secondo questa impostazione, le categorie “naturali” esistono nella realtà delle cose e non nella nostra testa e le classificazioni dei naturalisti altro non sarebbero che il rispecchiamento della “vera ossatura del reale”. Ma se i tipi sono realtà ontologiche, in quale tipo collocare l’ornitorinco? La risposta a quest’interrogativo è consistita in una «lunga negoziazione» (Eco, 1997, p. 216) in virtù della quale i taxa, fino a un certo punto riconosciuti come immodificabili, sono stati leggermente ritoccati o, addirittura, si è arrivati al punto di riconoscere di averne scoperto (e non inventato) di nuovi in modo da trovare posto all’ornitorinco (ordine dei Monotremi, classe dei Mammiferi, eccezionalmente ovipari). Aristotele ha forse la meglio su Kant? La storia della biologia tassonomica degli ultimi due secoli sembrerebbe dimostrare di sì, se non fosse che negli ultimi decenni il parco zoologico cui siamo chiamati ad assistere si sta popolando di forme ancora più bizzarre e resistenti dell’ornitorinco. L’attuale potenza biotecnologica ci ha infatti posto di fronte alla «sfida delle chimere», cioè di organismi composti da una mescolanza di materiali provenienti da tipi diversi. La chimera, più dell’ornitorinco di turno, rappresenta un bel grattacapo filosofico perché dal punto di vista biologico è più che un “semplice” ibrido: mentre nell’ibrido si dà una mescolanza effettiva di materiali (prima di tutto genetici), nelle chimere si dà la compresenza di popolazione genetiche, cellulari e tissutali differenti in un singolo organismo. Se l’ornitorinco mette in crisi Kant e in difficoltà Aristotele, la chimera manda in tilt anche il buon vecchio stagirita. Elena Casetta è molto chiara: «Se le chimere sono entità composte da materiali provenienti da organismi che la biologia esperta e il senso comune qualificano di tipo diverso, dovrebbe a questo punto diventar chiaro perché è di fronte a oggetti siffatti che non a creature come gli ornitorinchi che la vicenda si fa ardua e la seccatura, diventa problema vero e proprio: come classificare oggetti che apparterrebbero, da un lato a più di un tipo (derivando da materiali di organismi diversi), dall’altro a nessun tipo (nessun organismo può appartenere a più di un tipo al medesimo livello di descrizione)?» (p. 75). La chimera attraversa i tipi, le classi e i taxa per definizione. Cosa farne? Che livello di realtà riconoscerle? Ecco che il problema da epistemologico diventa ontologico.

Leggibile anche per chi non è avvezzo alle formule apparentemente “fredde” della filosofia analitica, il libro della Casetta si dimostra un utilissimo viatico alla comprensione di ambiti e questioni da troppo tempo tenute colpevolmente in disparte dalla filosofia nostrana. Definire l’entità di cui si compone l’universo di discorso delle scienze biologiche, fare cioè dell’«ontologia della biologia», così come comprendere il senso che sottende le tassonomie del mondo naturale, fare cioè della «filosofia della classificazione», o ancora imparare a diagnosticare la «condizione epistemica» di fondo che ci fa giudicare come naturali o artificiali le entità che di volta in volta, nella nostra vita quotidiana come nei laboratori biotech, siamo chiamati a giudicare, rappresenta senz’altro uno dei modi più interessanti per fare una buona ontologia dell’attualità. Disporre di mezzi adeguati per risolvere il dilemma dell’ornitorinco e affrontare la sfida delle chimere sono imprese che il filosofo non può ignorare, a meno di non doversi rassegnare alla figura di un filosofo sfornito di una aggiornata «teoria degli oggetti», vale a dire di un dilettante. Il convenzionalismo realista proposto dalla Casetta, una classificazione degli oggetti biologici che permetterebbe di evitare sia l’impasse essenzialista e anti-evoluzionista del monismo metafisico di tradizione aristotelica sia il rarefatto moltiplicarsi delle kantiane categorie concettuali entro cui decidiamo (arbitrariamente?) di ordinare il mondo, diventa così un modo per provare a fare sul serio della filosofia.

Un unico appunto. Considerata la perdurante tendenza di autorevoli intellettuali e della stragrande maggioranza del’opinione pubblica a sovrapporre i pretesi confini naturali con quelli dell’etica, sarebbe stata gradita anche qualche paginetta in più sulle conseguenze bioetiche del convenzionalismo realista, tanto più se si avanza la proposta di una «bioetica convenzionalista», ovvero di una bioetica che «con il suo pluralismo e il suo relativismo non implica per questo di l’impossibilità di formulare giudici etici fondati» (p. 156).

Cristian Fuschetto

08_2009

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