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Domenico Parisi – Una nuova mente [Codice Edizioni, Torino 2006, pp. 200, € 16]


È forse a partire da Galileo, dall’uso di un cannocchiale teso a decifrare, quantificare, scandagliare quella natura che ai sensi ingannatori non è dato comprendere, che la scienza sottrae alla filosofia lo scettro di regina dei saperi. La filosofia prima, che, come voleva Aristotele, studia l’essere in quanto essere, l’essere in generale, e che dunque abbraccia e scruta dall’alto di un orizzonte più ampio le altre scienze, rivolte ciascuna a una particolare e limitata dimensione dell’essere, sembra gradualmente decadere: una deriva che dal moderno al post-moderno la condurrà a divenire ancella delle scienze dure.

È quanto delineato da Domenico Parisi, filosofo pentito e psicologo titubante alla ricerca di una nuova scienza della mente. Si tratta di un interessante percorso attraverso i modelli di conoscenza che va di pari passo con la biografia dell’autore: filosofo poco soddisfatto dell’aleatorietà di certe speculazioni, di una complessità linguistica che sembra rispecchiare poco “il reale” e molto più la versatile soggettività di chi quelle speculazioni elabora. Dalla filosofia dunque il nostro autore passa alla psicologia, che sembra garantire maggiore attenzione ai dati, alla sperimentazione, al fatto bruto che può essere quantificato e misurato e dar vita perciò a una teoria coerente. Quando l’oggetto del conoscere è l’umano e i suoi manufatti, le cose si complicano terribilmente: l’uomo, contemporaneamente soggetto e oggetto del proprio stesso sguardo, fatica a trovare un metodo che lo descriva e lo comprenda con efficacia. La stessa psicologia presenta una serie di problemi: se è vero che una parte di essa si serve di esperimenti per trarre conclusioni certe, è anche vero che la sperimentazione è possibile solo su un ristretto numero di fenomeni e soprattutto che spostare una realtà multiforme, variegata e soprattutto dinamica (perché sempre “situata” all’interno di un contesto), come quella umana, nell’ambiente asettico e per certi versi statico di un laboratorio, tende già a falsare i risultati: «Il comportamento, specialmente quello umano, è molto dipendente dalla particolare situazione in cui si verifica. Nella situazione semplificata del laboratorio avvengono certe cose ma nella realtà fuori dal laboratorio, nella complessità della vita reale, le cose possono essere diverse» (p. 36); la psicologia inoltre, allo stesso modo della filosofia, si serve del linguaggio, apertura inedita e mirabolante dell’uomo, ma anche suo limite intrinseco, gabbia ontologica; le teorie da essa formulate non sono matematizzabili, restano perciò incatenate all’alea della parola e al suo costante arbitrio. C’è un modo per risolvere queste difficoltà? Nell’epoca della tecnica dispiegata, la robotica, le simulazioni, sostituiscono il tradizionale laboratorio, fornendo risultati che sembrano avvicinarci molto di più alla conoscenza del reale.

Aristotele definiva l’uomo come zoon logon echon oltre che politikon: come sono scandagliabili questi aspetti, attraverso la nuova scienza della mente e i suoi prodotti, o meglio artefatti? Da una parte l’Animalitas, dall’altra la razionalità che si estrinseca attraverso il linguaggio, che a sua volta è sempre teso verso altri, è socialità e condivisione di uno spazio comune. La scienza allora comincia a elaborare e a esprimere le proprie teorie sull’uomo attraverso gli artefatti, le simulazioni o  i robot: la robotica è dunque uno strumento di ricerca della nuova scienza della mente, oltre a essere una tecnologia utile per una serie di applicazioni pratiche. Simulare l’umano e le sue prestazioni non è semplice: riprodurre l’animalità dell’uomo significa comprendere che esso è in prima istanza “incarnato” e situato, significa dare conto di quel corpo che probabilmente (per tornare alle lacune della filosofia) costituisce il grande rimosso della tradizione metafisica occidentale. Il cervello infatti «non interagisce soltanto con l’ambiente esterno […] ma anche con quello che sta dentro il corpo, e il comportamento, specialmente nelle sue componenti dinamiche, motivazionali, emotive, più che in quelle strettamente cognitive, dipende dalle interazioni del cervello con gli organi e i sistemi interni del corpo» (p. 22) La robotica morfologica allora sembra fare grandi passi in questa direzione: «In futuro i robot verranno costruiti non soltanto con i pochi tipi di materiali rigidi, inerti, con cui sono costruiti oggi, ma anche con i materiali morbidi, flessibili, dalla forma modificabile, che vengono fuori dalla ricerca avanzata in chimica, in biologia e nelle nanotecnologie» (p. 21). La robotica mentale studia invece la razionalità di questo animale, il logos, la complessità di un cervello «capace di alimentarsi da solo […] di avere esperienze auto-generate al suo stesso interno […] immagini mentali, ricordi, pensieri, sogni allucinazioni» (pp. 22-23). La socialità e la politicità dell’animale uomo è appannaggio della robotica sociale, sebbene la socialità simulata dai robot sia ancora estremamente elementare, più da insetti che da esseri umani. La robotica culturale studia le modalità di trasmissione del comportamento umano.

La nuova scienza della mente intende inoltre, attraverso i suoi artefatti, provare a superare le barriere disciplinari, che fanno dei diversi settori conoscitivi dei ristretti recinti impermeabili agli altri saperi e che tendono a irretire la fluidità e dinamicità del reale entro le maglie anguste di categorie gnoseologiche specifiche, che scindono artificialmente (è il caso di dire) l’integrità dell’umano. Uno dei problemi gravi secondo Parisi è in particolare la netta separazione tra scienze della natura e scienze dell’uomo: «Per vari motivi, di natura filosofica, religiosa, culturale, gli esseri umani hanno difficoltà a considerare se stessi come parte della natura, e questo “separatismo” dell’uomo, almeno fino ad oggi, è stato fatto proprio anche dalla scienza» (p. 39). In effetti si tratta proprio di quell’antropocentrismo di matrice umanistica, che, considerando l’uomo come centro dell’universo, sostanzialmente separato dalla muta cosalità del resto dell’ente, lungi dal permetterne la comprensione, l’ha storicamente spesso ostacolata. Secondo l’autore i rimedi a questi problemi consistono per un verso nell’introdurre il metodo delle simulazioni in psicologia e in generale nelle scienze dell’uomo e nel tentare di andare oltre le divisioni disciplinari. Una simulazione, che è una cosa nuova e per molti aspetti misteriosa, non è la realtà, tuttavia tende a riprodurre la realtà delle cose: «questo con le teorie espresse a parole o con i simboli della matematica non è possibile. Nelle teorie espresse a parole o mediante i simboli della matematica, una cosa è la teoria e una cosa è la realtà. Non c’è via di mezzo. Le simulazioni sono una via di mezzo» (pp. 41-42). Il bello di questi strumenti è che «tutto si può simulare, i fenomeni che riguardano il singolo individuo ma anche i fenomeni sociali, economici, geografici, storici» (p. 43). Ovviamente la simulazione può avvenire attraverso programmi al computer oppure mediante artefatti come robot; e allora emergono subito una serie di quesiti di natura ontologica ed etica: si tratta di esperimenti, della formulazione di teorie, di scienza, di tecnica? E qual è il confine che separa naturalità e artificio? La tecnica delle simulazioni ovviamente deve poggiare su modelli teorici adeguati e a questo proposito l’autore fa riferimento a tre modelli: quello dei sistemi complessi «che sono composti da un grande numero di elementi che interagiscono tra loro in modo tale che dalle loro interazioni emergano proprietà globali dell’intero sistema che non si possono prevedere, o dedurre, anche se si conoscono alla perfezione i singoli elementi e le leggi che governano le loro interazioni» (p. 44). Tale modello ha la virtù di essere rigoroso ma non riduzionista; i modelli evolutivi, nati in biologia con la teoria della selezione naturale di Darwin e con la genetica, possono tuttavia essere applicati anche all’evoluzione culturale e tecnologica dell’homo sapiens; i modelli a rete «un insieme di nodi che si influenzano l’uno con l’altro attraverso i collegamenti. Il risultato è che l’intero sistema viene ad avere proprietà che dipendono dal numero totale dei nodi, dalla quantità complessiva dei collegamenti […] si dimostrano utili e applicabili a una grande quantità di fenomeni diversi. I nodi di una rete possono essere molecole, cellule, individui, organizzazioni di individui» (pp. 46-47).

Se tutto si può simulare, allora cade di conseguenza la tradizionale barriera che oppone le diverse discipline. Attraverso questi modelli interpretativi in effetti non solo evaporano le barriere disciplinari ma anche una serie di quesiti che ha travagliato la coscienza umanistica occidentale: è la società che crea l’individuo o l’individuo che crea la società? L’io precede il noi o viceversa? Queste domande infatti avrebbero senso solo nell’ambito di un’ottica binaria e dicotomica che non prevede la complessità.

Le nuove soglie di conoscenza porteranno secondo l’autore a liberarsi dai limiti imposti dal linguaggio: la tradizione metafisica occidentale concede all’umano un posto d’onore fra gli enti, in quanto animale linguistico: è la parola che rende l’uomo il dominatore dell’ente. Eppure secondo Parisi il linguaggio è solo un aspetto della realtà e talvolta un ostacolo al conseguimento della conoscenza. Perché? Perché il linguaggio crea idoli, scompone la realtà «in cose ben definite, ben separate le une dalle altre […] che hanno una loro essenza e non cambiano nel tempo. La realtà è proprio l’opposto. La realtà è fatta di cose non ben definite, non ben separate le une dalle altre […] prive di essenza, che cambiano sempre nel tempo. Quindi il linguaggio distorce la realtà[…] questo forse per la vita di tutti i giorni non è un problema ma per la scienza si, perché il compito della scienza è conoscere e capire la realtà così com’è, senza distorcerla» (p. 66). Questa frase è estremamente densa, meriterebbe forse una recensione a parte. Parisi sostiene dall’inizio il suo imbarazzo rispetto alla filosofia e il passaggio alla psicologia come tentativo di avvicinarsi meglio alla realtà del reale. Non a caso termina i suoi studi di filosofia con Vittorio Somenzi, un fisico materialista e operazionista. Ciò vuol dire che il presupposto epistemologico di Parisi è che esista una realtà, che si staglia dinnanzi agli occhi di un osservatore e che va in qualche modo catturata, nella fattispecie attraverso un metodo che deve essere rigorosamente sperimentale e verificabile, sul modello delle scienze dure, in particolare della fisica. Ma chi scrive si domanda: non è anche questa una premessa di tipo essenzialista? Non rimaniamo sul piano dell’ontologia? Credere che vi sia una realtà (parola niente affatto innocente) solida, da scoprire, fatta in un certo modo, che il linguaggio distorcerebbe, impedendoci di vederla “così com’è”, non significa rifiutare il postulato secondo cui ciò che chiamiamo realtà è qualcosa di fluido, non ben determinato e privo di essenza? Se la realtà è priva di essenza possiamo tranquillamente affermare con Nietzsche che non esistono fatti ma solo interpretazioni, e che il linguaggio, lungi dall’essere lo specchio deformante della densità del reale, non è altro che lo strumento (rigorosamente storico, temporale, e dunque destinato, perché no, a morire) attraverso cui, l’umano, in maniera assolutamente adattiva, costruisce di volta in volta il proprio mondo, senza alcuna pretesa (oramai morta da tempo), che le parole aderiscano alle cose, senza alcuna volontà di cercare la realtà così com’è, il noumeno al di la del fenomeno linguistico che quella realtà di volta in volta plasma, rendendo il mondo abitabile per l’uomo.

Parisi definisce il linguaggio come una finestra sul mondo e tuttavia una finestra con vetri colorati, una finestra dunque menzognera: ma non lo sono anche le teorie scientifiche? Esse non comprendono la realtà, si limitano a descrivere dei fenomeni, che sono, come lo stesso autore sostiene, fluidi: le lenti di Galileo non sono le stesse di Newton e quelle di Newton non somigliano a quelle di Heisenberg. Anche le scienze sono un prodotto storico. L’uomo, come sostiene l’autore, è un animale che prevede, che modifica l’ambiente: l’uomo ha le mani, e la mano, come voleva anche Heidegger, pensa. L’uomo è un agente che costruisce di volta in volta le sue teorie, che lungi dal comprendere il reale, hanno lo scopo di far sopravvivere questo animale e di rafforzarlo, prevedendo sempre meglio e attraverso una serie di artefatti che vanno dall’amigdala al microchip, gli effetti delle sue azioni. Questi artefatti ci aiutano, migliorano la nostra esistenza, riducono l’alea dell’avventura umana sulla terra. Una nuova scienza della mente che si serva delle simulazioni e della vita artificiale non può che essere positiva e necessaria. E tuttavia è difficile pensare che questo sradichi la filosofia dal suo compito: le scienze sembrano soppiantarla, gli oggetti della filosofia vengono gradualmente assorbiti dalle scienze: spazio, tempo, io, mondo; eppure la filosofia ha ancora un ruolo da svolgere: essa è stata ed è ancora ricerca di Senso. Il progredire e l’approfondirsi delle scienze rappresentano una grande opportunità, la filosofia può servirsene evitando di chiudersi nelle roccaforti dei suoi tradizionali dogmatismi e uscirne rafforzata. Le scienze e le tecniche allargano i nostri orizzonti epistemologici, ma necessitano tuttavia di uno sguardo più ampio che ne inglobi i risultati all’interno di una matrice di senso che continui a mantenere abitabile il mondo per l’animale uomo.

Fabiana Gambardella

S&F_n. 4_2010

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