Ma gli animali pensano? Si apre con questa domanda il testo di Carmine Di Martino, che attraverso un interessante dialogo con studiosi del calibro di Husserl, Leroi-Gouhran, Michael Tomasello, prova a far luce non solo su una questione antica quasi quanto l’uomo e cioè sulla sua pericolosa relazione di vicinanza-distanza dall’animale, ma anche sui nostri pregiudizi ermeneutici spesso fin troppo antropocentrati.Il testo inizia con la descrizione delle ricerche di Tomasello, per il quale le grandi antropomorfe non solo sono dotate di quell’intelligenza strumentale di cui parlava anche Scheler quando tentava di posizionare l’uomo nel cosmo, ma addirittura sono dotate di pensiero.Ma cosa significa pensare? Avrebbe chiesto un altro filosofo a passeggio su sentieri quasi sempre interrotti; significa per Tomasello che le scimmie antropomorfe sono dotate di un funzionamento cognitivo «flessibile e autoregolato intenzionalmente», di una vera e propria intenzionalità individuale (p. 14). Insomma la differenza tra noi e loro «non consiste nel possesso o meno del pensiero, ma nel tipo di pensiero» (ibid). Il tentativo dunque di Tomasello è quello di «immaginare il passaggio intermedio tra il pensiero delle grandi antropomorfe […] e il pensiero degli esseri umani moderni» (p. 16).In effetti se un’inveterata tradizione filosofica ha sancito nel corso del tempo l’abisso ontologico che separa l’ottusità animale dal logos umano sarebbe stato solo per mancanza di conoscenza delle nostre amiche più prossime. In altre parole all’uomo piace vincere facile: confrontandosi costantemente con specie estremamente distanti dall’altezza delle sue funzioni mentali, non ha avuto difficoltà a classificarsi come signore e dominatore dell’ente: uccelli, ratti e animali domestici non gliene avrebbero di certo voluto. La messa in discussione, secondo Tomasello può cominciare, solo quando, a partire dal XIX Secolo, le scimmie antropomorfe hanno cominciato a circolare, con la loro perturbante prossimità, negli zoo d’Europa.Per lo psicologo statunitense c’è pensiero quando un organismo «cerca di risolvere un problema, e perciò di raggiungere uno scopo, non già agendo direttamente, bensì immaginando, prima di passare all’azione, che cosa accadrebbe se…» (p. 17). In poche parole si tratta della capacità di rappresentarsi off-line un’esperienza, in maniera astratta e schematica. Gli studi compiuti sulle antropomorfe confermano che esse sono in possesso di questa facoltà. Le scimmie sarebbero dunque capaci, secondo Tomasello, di effettuare una sorta di automonitoraggio interno, attraverso il quale esse non solo sanno ciò che fanno ma addirittura sanno cosa non sanno, riescono cioè a monitorare il bagaglio delle proprie memorie e conoscenze per dirigere l’azione.Finalmente, dopo aver sviscerato le mirabolanti scoperte di Tomasello che inducono a legittimare la parola pensiero accostata alla tradizionale ottusità attribuita all’animale, come una sorta di premio finalmente elargito ai giocatori più deboli di una perenne competizione, Di Martino pone una domanda che tende a sparigliare il gioco di una scienza che spesso è poco incline a meditare sulle proprie premesse epistemologiche: chi pensa le scimmie che pensano? Questa domanda vuole forse ricordarci che tutto ciò che è detto è detto da un osservatore, e che passare dalla descrizione di alcuni fenomeni alla loro ontologizzazione, mai scevra da dimensioni assiologiche, è operazione tutta umana, di più, antropocentrata, che poco ha a che fare con le datità di cui si sta tentando di descrivere la fenomenologia in atto. In fondo Tomasello resta vittima dell’antropoecentrismo tipico di un’intera tradizione, seppure declinato in veste filantropica, perché tendente all’equiparazione dello schiavo di sempre con l’inveterato padrone.Di Martino è chiaro: le abilità attribuite da Tomasello alle antropomorfe sono il correlato «di uno specifico sguardo, di peculiari procedure e protocolli, di un apparato teorico, di scelte e interessi, e non presunte “realtà in sé”» (p. 26). È necessario dunque interrogarsi sulle condizioni della manifestatività della vita, che, a dispetto di Heidegger e dei suoi concetti fondamentali, non si dà mai in quanto tale. Sostiene Di Martino in merito alle antropomorfe: «Le loro risposte non sono insomma separabili dalle nostre domande […] Non si tratta con ciò di invalidare gli esiti ottenuti, ma di considerare che essi non sono eventi indipendenti dalle condizioni dell’esperimento» (p. 27).La domanda che Heidegger pone nell’ambito delle lezioni del ’29, Possiamo trasporci in un animale?, ci invita a una cauta risposta: certo, da sempre nella descrizione dell’animalitas operiamo attraverso una trasposizione analogizzante della nostra esperienza, e del resto non potrebbe essere altrimenti. Tuttavia è necessario praticare una sorta di ricognizione di second’ordine, che ci renda sempre consci di tale operazione.Il testo procede con un interessante analisi della fenomenologia dei viventi a partire da Husserl, per il quale «le peculiarità strutturali degli uomini e degli animali possono essere mostrati solo attraverso una analisi dei rispettivi mondi» (pp. 31-32). È ovvio che per quanto concerne i viventi non umani, essi ci si offrono «in una empatia, che è una variazione assimilante dell’empatia tra uomini» (p. 33). Per Husserl gli animali sono dotati di una struttura egoica, attraverso la quale gli si dà in un certo modo coscienzialmente un mondo ambiente. La sostanziale differenza che Husserl delinea tra uomo e animale è data dalla presenza nell’uomo di una dimensione culturale, che gli aprirebbe infinite possibilità, precluse all’immediatezza della vita animale. L’uomo infatti realizza opere permanenti, che si sottraggono all’attualità e si protendono nell’orizzonte del futuro. Gli animali, pur presentando delle tradizioni, non vivrebbero in un mondo culturale e pur essendo in grado di utilizzare degli strumenti, non li riconoscerebbero come tali, né investirebbero le cose di valori spirituali.L’umano apre alla dimensione della storicità e dunque della libertà, il mondo culturale che è andato costruendo si rinnova costantemente, la sua è una inesauribile Bildung, laddove il mondo animale è caratterizzato dalla ripetizione. L’animale è senza storia, poiché è senza tempo, o meglio, senza cognizione del tempo. All’uomo è dato protendersi verso il futuro e rammemorare il passato, insomma tematizzare i suoi orizzonti attraverso il progetto e l’immaginazione; l’animale al contrario esperisce l’oggetto come semplice presenza nel qui e ora del suo stare, poiché, sostiene Husserl, «il tempo è una costruzione spirituale dell’uomo» (p. 63).L’io umano è dunque un io personale che si appercepisce come soggetto: «Il soggetto umano è in un certo senso in cammino verso l’attualizzazione del suo essere persona e, una volta che vi è giunto, può anche regredire» (p. 57). L’uomo dunque trascende gli istinti in direzione del valore.L’umanità dell’uomo allora, come insegna tutta una tradizione di matrice umanistica, si staglia come compito da rinnovare continuamente. Ma cosa rende gli uomini così speciali e così mostruosamente creativi? «È grazie alla funzione linguistica che un mondo di significati identici e ripetibili può costituirsi ed essere tramandato […] In quanto è il linguaggio a permettere la costituzione di identità ideali obiettive, vale a dire di acquisizioni spirituali trasmissibili, tradizionalizzabili, esso è perciò stesso indispensabile alla formazione di un mondo culturale e di un orizzonte infinitamente aperto» (p. 67).Se è possibile effettuare tale comparazione analogica tra uomo e animale è perché essi devono possedere qualcosa in comune, uno strato comune; per Husserl l’uomo non è semplice somma di animalitas e humanitas; l’umanità dell’uomo trasformerebbe «l’animalità che ha in sé» in qualcosa di completamente inedito.Fin qui il dettato husserliano, tuttavia, sostiene Di Martino, quando si solleva la domanda circa l’origine «delle differenze e sui rapporti tra esse, la fenomenologia non ha apporti da offrirci» (p. 77); essa mantiene però tutta la sua validità in quanto disciplina del rigore e dell’umiltà, poiché: «mette in evidenza il terreno di esperienza che implicitamente vige in ogni osservazione, descrizione e ricostruzione scientifica […] Ci invita a fare, che gli “oggetti” e i “risultati” delle ricerche scientifiche non esistono in sé, separatamente dagli atti che ne consentono l’apparizione» (p. 80).Il terzo capitolo, sulla scia degli studi di Leroi-Gourhan, prova a indagare su quelle origini, in merito alle quali la fenomenologia non poteva essere d’aiuto. A proposito di umanizzazione, Leroi-Gourhan considera la locomozione il fattore determinante per l’aumento del volume cerebrale. Secondo lo studioso dunque «il processo di umanizzazione comincia dai piedi» (p. 88). La stazione eretta risulterebbe determinante per la liberazione di mani e bocca e dunque per la nascita della tecnica, quella degli strumenti e quella ancor più dirimente del linguaggio. È vero, anche le antropomorfe si servono e in maniera appropriata, di strumenti; tuttavia, il tecnicismo delle grandi scimmie compare «spontaneamente sotto l’effetto di uno stimolo esterno» (p. 93) ed è destinato a scomparire una volta cessato lo stimolo. Il tecnicismo umano precede l’azione, l’accompagna e sopravvive ad essa, determinando la dimensione del lavoro e della cultura.La mano dunque, che attraverso lo strumento manipola il mondo, produce effetti di ritorno sull’ambiente nel quale opera. In altre parole «l’uomo “inventa” gli strumenti […] gli strumenti, le specifiche azioni a essi correlate, “inventano”, cioè fanno venire al mondo, configurano un individuo umano che ancora non c’è» (p. 105). Inoltre, come espresso da Paul Alsberg, esponente dell’antropologia filosofica del Novecento, producendo lo strumento l’uomo gradatamente si libera dai vincoli corporei, disattiva alcune funzioni che vengono svolte dall’utensile.Secondo Leroi-Gourhan inoltre, agli ominidi più antichi dovrebbe essere riconosciuto «un linguaggio di un livello pari a quello dei loro utensili» (p.110).Attraverso il linguaggio si staglia un mondo e il tempo inteso anche come memoria. Se all’oralità pare legata una memoria di tipo eidetico, con la scrittura alfabetica la memoria sociale può estendersi all’infinito poiché si apre una «possibilità di accumulazione, tesaurizzazione, capitalizzazione del sapere del tutto impensabile prima» (p. 122). A questo punto compare l’uomo storico.Ma dove ricercare le origini del linguaggio? L’autore si muove fra la tesi “discontinuista” di Tattersall, che lo interpreta come una «decisiva novità evolutiva, qualitativamente differente dai sistemi comunicativi non umani», avvenuta in seguito a una serie di processi ex-attativi (p. 128), e il riferimento alla visione gradualista di Tomasello, che intravede l’origine del linguaggio nell’ultra-socialità, intesa come prerogativa umana. Il linguaggio sarebbe dunque un prodotto sociale, emergente da abilità «specificamente umane di collaborazione, comunicazione cooperativa e, più in generale, di intenzionalità congiunta» (p. 129).Il linguaggio schematizza e universalizza, il linguaggio si riferisce spesso a un’assenza, dunque sebbene scimmie come i bonobo siano in grado di produrre una sorta di protolinguaggio, caratterizzato da sequenze di gesti, essi sono sempre diadici, non indicano mai un terzo polo oltre l’emittente e il ricevente; sono incapaci cioè sia di riferirsi a un’assenza, sia di procedere oltre l’hic et nunc della situazione presente.Nell’ultima parte del testo l’autore si domanda se gli animali siano in grado di ricordare. Il ricordo si sa è strettamente legato alla questione dell’identità ma soprattutto alla questione del linguaggio: «Avere una lingua vuol dire allora avere una totalità di significati ideali di cose/azioni “in quanto tali”, poterli evocare in assenza e in qualunque situazione, in base a essi ricostruire i vissuti passati e progettare i comportamenti futuri» (p. 200).La simbolizzazione operata attraverso il linguaggio dischiude la Lichtung e ci rende esseri infinitamente aperti, inediti viaggiatori nel tempo della memoria e del progetto.
Fabiana Gambardella
S&F_n. 18_2017