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Ludwig Binswanger – Sogno ed esistenza [Introduzione di Michel Foucault tr. it. di Lucia Corradini e Carlotta Giussani SE, Milano 1993]

Nel 1930, anno in cui pubblica questo breve saggio, Ludwig Binswanger aveva un’esperienza ormai pluridecennale nel campo della psichiatria clinica: basti pensare al fatto che aveva trascorso la sua infanzia tra le stanze di quella clinica Bellevue, della quale diventò poi direttore dal 1911 al 1956, al tempo diretta dal nonno suo omonimo che praticava fin dagli anni ‘60 del XIX secolo un modo alternativo di cura psichiatrica, che teneva insieme il trattamento terapeutico strettamente medico-istituzionale e un trattamento terapeutico di tipo familiare al quale partecipava anche la famiglia del direttore, cosa che serviva a conservare l’aspetto umano della relazione medico-paziente – spesso totalmente rimosso nelle strutture manicomiali del tempo. A quest’esperienza empirica maturata al 1930 si accompagnava, inoltre, una notevole elaborazione di tipo teorico: la lista degli autori che hanno influenzato il suo pensiero non si esaurisce ai “nomi fenomenologici” di Husserl e Heidegger ma rimonta fino al pensiero di Eraclito e Anassagora, passando per i nomi di Kierkegaard, Schleiermacher e Hegel. Ed è proprio una citazione di Kierkegaard a essere posta in epigrafe a Sogno ed esistenza, «ci si attenga piuttosto a quel che significa essere uomo», quell’essere uomo che nella pratica terapeutica viene rimosso e che invece costituisce la posta in gioco dell’impianto antropoanalitico di Binswanger. Tale aspetto viene sottolineato anche da Michel Foucault fin dalle prime righe della sua introduzione, scritta nel 1954 – anno in cui scrive quel Maladie mentale et personnalité che, otto anni dopo, verrà pubblicato con il titolo di Maladie mentale et psychologie – e la cui fortuna ben presto si è legata a quella dello scritto dello psichiatra svizzero. Foucault definisce il progetto antropoanalitico di Binswanger come: «una forma di analisi che si designa come fondamentale in rapporto a ogni conoscenza concreta, oggettiva e sperimentale; il cui principio, infine, e il metodo, sono determinati fin dall’inizio soltanto dal privilegio assoluto del loro oggetto: l’uomo, o meglio l’Essere-uomo, il Menschsein» (p. 15). Qual è allora il privilegio che Binswanger accorda al sogno in questo testo pienamente inserito nella sua fase antropoanalitica? Cosa il sogno può dirci in più del nostro essere-uomo, della nostra esistenza? Nel primo dei tre capitoli Binswanger mette in luce il rapporto profondo, esistenziale, che intercorre tra il sogno e il linguaggio. Alla dimensione discorsiva del sogno che si fa racconto, soggiace, secondo Binswanger, una teoria del significato secondo la quale non si realizza mai una trasposizione qualitativa dalla sfera onirica a quella linguistica ma v’è una direzione generale di significato che si diffonde in modo omogeneo tra le diverse sfere del logos: la sensazione di caduta nel sogno, ad esempio, sarà interpretata non come manifestazione corporea di una psiche “debole” ma come una direzione esistenziale generale che esprime il senso di gettatezza proprio dello stato emotivo del sognatore che il linguaggio può soltanto esprimere con una similitudine corporea qual è, per l’appunto, il senso di caduta. Il linguaggio, infatti, secondo Binswanger, attinge alla struttura ontologica fondamentale dell’uomo, ossia l’essere-gettato dell’esistenza che si “fa via via” nel mondo, che è sospensione inquieta tra l’esser dentro e l’e-sistere, ovvero l’esser fuori della pratica procurante. L’ermeneutica dell’onirico di Binswanger può quindi riassumersi nello sforzo di tenere insieme l’interpretazione psicologica del sogno e la fenomenologia – identificata con l’ontologia, in linea con l’indicazione heideggeriana – quale domanda fondamentale sull’uomo: pertanto, si tratta, come scrive lo stesso Binswanger, «di scoprire una struttura a priori di cui, sia lo schema dello stimolo corporeo oppure lo schema corporeo nella sua interezza, sia la tematizzazione erotico-sessuale non sono che specificazioni secondarie» (p. 96). Leggere, quindi, il racconto onirico vuol dire comprendere il perché in quel determinato momento ci sia stata quella simbolizzazione, perché il “cadere” e non il librarsi nell’aria, e per comprendere è necessario risalire al motivo determinato e determinante il sogno, un motivo che sarà fondato sulla storia interiore o sulla storia esteriore del sognatore; è necessario, ad esempio, risalire al motivo fondamentale per cui in quel determinato momento il soggetto – e non il “chi” del sogno – rivolga in quell’esatto momento la propria attenzione al movimento respiratorio o il perché abbia ansie di tipo erotico. Con questi elementi è possibile dare un’interpretazione psicologica del sogno. Prendiamo come esempio uno dei sogni citati nel testo. Il sognatore è un paziente dello stesso Binswanger al quale racconta questo suo sogno: «Mi trovavo in un altro mondo, meraviglioso, in un mare di mondi, su cui io mi libravo, senza forma. Da lontano vedevo la terra e gli astri e mi sentivo orribilmente fuggevole e dotato di un senso enorme di forza» (pp. 102-103). In questo sogno, Binswanger discerne il movimento drammatico del sogno, quindi la trama del racconto onirico, dal contenuto emotivo del sogno, che ne designa l’aspetto qualitativo. Benché la sensazione del librarsi possa indurci a pensare a un senso vitale del sogno, in realtà si tratta di un sogno di morte, come comprende anche lo stesso paziente, in quanto, sebbene avvenga l’oggettivazione onirica delle ansie da parte del paziente, quest’oggettivazione “cosmica” è troppo vaga per essere considerata tale. L’enorme senso di forza di cui parla il paziente, infatti, si scontra con la descrizione di un Io la cui corporeità si è dissolta: è, come dice lo stesso paziente, senza forma. Osserva Binswanger come in questo sogno si realizzi una situazione del tutto paradossale sia dal punto di vista ontologico sia psicologico poiché il soggettivo del corpo finisce con il dissolversi in un soggettivismo estremo quale è quello del contenuto emotivo puro e semplice, dove il paziente perde del tutto l’inerenza al mondo: vi è una sfiducia assoluta nei confronti della vita che si manifesta nell’aspirazione a una fusione con un elemento sovra-soggettivo e cosmico-dinamistico. Il senso di precarietà e il conseguente desiderio di ricongiunzione a un elemento primordiale manifestato dal paziente rivelano quindi, secondo Binswanger, «l’esigenza di un fondamento, di un punto di riferimento d’ordine oggettivo» (p. 104) che si manifesta solo apparentemente in modo cosmico-dinamistico: se invece si va a fondo, a toccare le fila del vissuto interiore del paziente, «si scopre che questo ritorno alla forza cosmica originaria corrisponde a una nostalgia della madre con forti connotazioni erotiche, all’esigenza, rivelata dal giovane malato ed effettivamente realizzata, di trovare protezione in un’amante materna» (p. 104). Nel secondo capitolo del testo, Binswanger riporta alcuni racconti onirici celebri della letteratura, quale il sogno raccontato da Penelope nel libro IX dell’Odissea nel quale un’aquila piomba su alcune oche e ne fa una strage, oppure il sogno della regina Atossa di cui parla Eschilo nei Persiani, in cui due donne, una con vesti greche e l’altra con vesti persiane, vengono aggiogate al cocchio dal re Serse; tuttavia soltanto una finirà con il sottomettersi al giogo, l’altra invece si ribellerà e finirà con lo spezzare il giogo. Attraverso questi racconti onirici contenuti nella letteratura greca, Binswanger può notare come, presso i Greci, il confine tra lo spazio del vissuto interiore e quello dello spazio pubblico sia molto labile e ciò è dimostrato dal fatto che questi sogni, a differenza di quello del paziente di Binswanger, abbiano un valore di tipo profetico – in quanto il sogno di Penelope preannuncia la strage dei proci a opera di Odisseo mentre quello di Atossa l’imminente disfatta del figlio Serse – quindi a un evento esteriore futuro. Ciò è dovuto al fatto che, secondo i Greci, le vicende umane siano prestabilite e ordinate dalle moire e dalle divinità e il sogno non sia che una visione anticipatrice, una profezia. Nella sostanza, il soggetto dell’immagine onirica, l’evento esterno e il significato cultuale «costituiscono un’inscindibile unità» (p. 107) e se il sogno manifesta un volere divino allora vuol dire che ogni interiorità è esterna e ogni esteriorità è interiore. Con il mutare dei tempi, tuttavia, osserva Binswanger, è possibile riscontrare un processo di sottrazione del sogno dal cono d’ombra dell’esistenza: l’antica divinità oracolare Gea, la divinità degli eventi “tellurici”, viene soppiantata dalla luce di Febo, i sogni non sono più messaggi divini ma, come afferma Petronio, ognuno li fa per conto suo. Il sed sibi quisque facit di Petronio anticipa, secondo lo psichiatra svizzero, l’inclinazione tutta moderna alla hybris dell’individualità – condannata invece in età greca – all’onnipotenza e all’uguaglianza dell’uomo-individuo con la divinità. Nel terzo e ultimo capitolo Binswanger si chiede cosa sia questo quisque, ovvero il “chi” del sogno, individuato come geroglifico della modernità: il quisque è il soggetto del sogno? O, almeno, del sognare? Secondo Binswanger la pura teoria del quisque rappresenta soltanto una parte della verità: essa deve tener presente la distinzione fondamentale tra il sogno e la veglia, distinzione che si traduce nella storia della filosofia nella distinzione tra immagine e forma dossica da una parte – come in Platone e in Husserl – e spirito dall’altra – come in Eraclito e in Hegel. Infatti, osserva lo psichiatra svizzero, «mentre in Petronio e in tutti i periodi illuministici il Quisque sta per così dire dietro il sogno come una x assolutamente indeterminata, ed è ciò che lo compie, qui l’uomo è qualcosa di completamente diverso da un Quisque, ed è un uomo solo in quanto è in grado di penetrare nel mondo del sogno» (p. 113). Attraverso la lettura del pensiero eracliteo fatta da Hegel nei suoi corsi sulla storia della filosofia, Binswanger rileva nel rifiuto dei due filosofi dell’individualità e della particolarità – in quanto, sia per Eraclito che per Hegel, l’essenza dell’individualità cosciente sta nella generalità dello spirito – un risvolto decisivo per la moderna teoria psicologica: è vero che i sogni se li fa ognuno per conto suo ma il contenuto sovraindividuale dell’immagine – quindi la ricorrenza nell’immaginario onirico dell’aquila piuttosto che della colomba – non è costituito di volta in volta dal sognatore individuale ma ognuno attinge a un pattern onirico comune: per questo motivo, quindi, Binswanger può concordare con Hegel quando questi afferma che l’essenza dell’individualità è nella generalità dello spirito perché se è vero che vi è una ricorrenza di determinate immagini sul piano intersoggettivo ciò non significa che queste immagini suscitino le medesime sensazioni o vengano elaborate allo stesso modo individualmente. Si ritorna quindi al punto di partenza: cosa accade all’io desto quando, dopo aver provato il senso di caduta, si “riprende” ed esprime il senso di smarrimento che ha provato in precedenza? Scrive Binswanger: «Qui, per esprimerci nei termini di Heidegger, la presenza è posta di fronte al suo essere; «è posta» nel senso che a essa accade qualcosa ed essa non sa che cosa e come le sta succedendo» (p. 121). Ecco l’elemento comune individuato da Binswanger: l’angoscia, che è l’angoscia della morte, l’angoscia del fallimento, è il tratto ontologico comune di ogni sogno in quanto essa, come scrive Heidegger in Che cos’è la metafisica?, concerne la presenza dell’uomo in quanto tale. Il quisque, il singolo che è semplicemente se stesso, diventa il Sé, l’uomo che si è emancipato dalla doxa, soltanto nel momento in cui egli decide non soltanto di comprendere cosa gli accade ma quando decide di intervenire attivamente nella dinamica degli eventi esterni e introdurre una consequenzialità tra essi: fare, propriamente, la storia del sé, la storia della sua stessa vita, che non è la storia delle vicende esterne, dove la partecipazione o l’astensione da essa non dipende soltanto dall’individuo in quanto questi può fare soltanto, come afferma lo stesso Binswanger, storia di vita. E cos’è quindi l’uomo, quel “chi” che sogna? Binswanger definisce l’uomo nello stato onirico funzione di vita. Benché diverse, la funzione di vita e la storia di vita hanno un unico fondamento: l’esistenza, che Binswanger non irrigidisce in una definizione di tipo essenziale ma la intende in senso dinamico, come un farsi che non trova mai compimento. Ed è per questo motivo che Binswanger non può individuare con nettezza il luogo di congiunzione tra l’inizio della funzione di vita, e quindi del sogno, e la fine dello stato desto, ovvero dello stato interiore: esso, scrive Binswanger, si trova nell’infinito. Il merito di questo testo sta sicuramente nel vedere l’onirico non tanto come una zona grigia dell’esistenza ma come un luogo di risposte non ancora elaborate, come luogo della vertigine; infatti, come scrive Foucault nell’introduzione, «se il sogno ha tanto peso per designare i significati esistenziali, è perché segna nelle sue coordinate fondamentali la traiettoria dell’esistenza stessa» (p. 61).

Fabio Sacchettini

S&F_n. 20_2018

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