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La bioetica al tempo dell’intelligenza artificiale

Autore


Giuseppe Lissa

Università degli studi Federico II

Indice


  1. Religione, etica e bioetica
  2. L’uomo, la persona, l’alterità
  3. Soggettivismo, utilitarismo, nichilismo?
  4. Natura e artificio? Meccanico e vitale

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S&F_n. 29_2023

Abstract


Bioethics at the Time of Artificial Intelligence

Against the backdrop of the bioethical question and artificial intelligence, this paper aims to reconstruct the question starting from the ethical-political and social issues that span the twentieth century to reach our days in a way that, in the eye of the philosopher, can only be even more critical and problematic.

  1. Religione, etica e bioetica

La religione è lo spazio in cui si stabilisce la relazione tra l’uomo e il divino, tra l’uomo e gli dei, tra l’uomo e Dio. Quello spazio è investito, nel suo ben circoscritto orizzonte, dalla luce che l’illumina, costituendolo nel suo essere: la luce della rivelazione. La rivelazione è rivelazione della verità. E la verità è il fondamento sul quale si costruisce l’identità dell’uomo.

L’uomo della religione è l’uomo che fruisce del dono della verità che lo rende uomo. Che lo rende uomo nella misura in cui si mostra disposto ad accogliere la verità e a sottomettersi alle norme che essa gli prospetta. L’uomo della religione è l’uomo dell’obbedienza. Non che egli non sia libero. Può accogliere o respingere la verità. Ma se l’accoglie non può far altro che praticarla, rendendo operative le norme che essa gli ha rivelato. La morale, in quanto sistema di norme e di regole in grado di orientare i comportamenti umani, è stabilita dalla religione, dalla rivelazione della verità e non dipende dalla libera elaborazione dell’uomo.

Perché questo accada, perché l’uomo e solo l’uomo sia all’origine della morale, occorre una svolta. Occorre una separazione dall’universo costruito dall’immaginazione religiosa. Occorre che l’uomo, privo di ogni altro riferimento stabilito prima che egli inizi a pensare, si insedi nella ragione e decida con fermezza di non seguire altra ragione che quella che, ragionando, dimostri di essere la ragione migliore. La morale che la ragione può elaborare non può perciò cristallizzarsi in un insieme di regole fisse e immodificabili. Confrontandosi con il divenire della vita dell’uomo, che è sempre vita di un esserci inserito in una serie indefinita di relazioni intersoggettive, che, dunque, è sempre vita di un essere storico, essa deve mostrarsi disponibile a immergersi nel mondo dell’etica e a confrontarsi con l’ethos e gli ethoi (ethea), storicamente determinati e divenienti che lo costituiscono. E poiché quel mondo è sempre aperto ed esposto alle sollecitazioni del cambiamento, del dubbio, dell’esitazione e dell’interrogazione, anch’egli deve impegnarsi a mantenersi su quel terreno mobile e scivoloso, pronto a far fronte ai mutamenti e alle trasformazioni del caso.

Sottoposta indefinitamente ai traumi della storia, l’etica è il campo in cui si affrontano i valori che i gruppi umani, di volta in volta affermano e coltivano. La sua creatività è definita dalla sua capacità di trasformarsi sotto la pressione dei formidabili mutamenti che si producono in seno alle associazioni umane, edificate dall’azione degli uomini. Come è risaputo, niente è più flessibile, modificabile, al punto, a volte, da risultare evanescente, dell’azione umana; come niente è più complesso di essa dal momento che l’azione che si sostanzia come insieme di ethoi (ethea), dando vita all’etica che sorregge e illumina la vita dell’uomo, consentendogli di fissare, di volta in volta, i lineamenti della sua identità, è sempre il risultato di un intreccio di sforzi individuali che negli incontri e negli scontri che li contraddistinguono subiscono trasformazioni talmente grandi da assumere configurazioni inedite e impreviste rispetto a quello che avevano pensato di realizzare tutti coloro che ne erano stati gli autori. Una dialettica specifica prende corpo su queste basi. L’etica non può non raccogliere le sfide che le provengono dai gruppi umani, man mano che essi trasformano gli stili di vita che conducono, dislocandosi incessantemente da un sistema sociale all’altro, stretti dalla necessità, di volta in volta, di confermare, smentire e reinventare le norme e i valori etici sulla base dei quali delineare la propria specifica identità.

Di questo danno prova inequivocabile le trasformazioni di quella che al suo apparire è sembrata a molti una nuova disciplina: la bioetica.

Secondo l’opinione comune, la bioetica nasce quando il cancerologo Van Rensselaer Potter (1911-2001) pubblica, nell’autunno del 1970, nella rivista “Perspectives in Biology and Medicine”, un saggio intitolato: Bioethics, the science of survival[1], cui fa seguito, l’anno successivo, il 1971, il volume Bioethics: Bridge to the Future[2].

Per ammissione dello stesso Potter, la bioetica (è da segnalare che fin dal 1971 il ginecologo A. Hellegers include la bioetica come una disciplina già costituita nell’Institute della George Town University di Washington: “The Joseph and Rose Kennedy for the study of Humann Reproduction and Bioethics” e che solo sette anni dopo è pubblicata anche la Enciclopedy of Bioethics[3]) deve configurarsi come “scienza della sopravvivenza” in una epoca in cui l’umanità va incontro ad una crisi senza precedenti.

Secondo l’illustre studioso, l’impressionante sviluppo delle tecnologie che ha caratterizzato i decenni alla Seconda guerra mondiale ha favorito un incremento demografico abnorme. E questo ha creato un degrado ambientale che minaccia l’abitabilità stessa della biosfera. Le capacità di sostentamento offerte dalla terra sono in pericolo. E questo fa sospendere sulla testa degli stili di vita e sui moderni modelli di sviluppo economico e sociali la spada di Damocle del declino che si configura persino come il preannuncio della catastrofe e della distruzione. L’inquinamento crescente mette in pericolo gli equilibri ecologici e avvia sulla strada della scomparsa un numero imprecisato di specie. L’appello di Potter è inequivocabile: in una simile situazione l’etica deve correre in soccorso dell’umano. Bisogna raccogliere la sfida e costruire una nuova saggezza, coniugando scienza, e particolarmente scienza biologica ed etica. La bioetica è per lui il ponte verso il futuro. Essa è un’etica nuova, un’etica capace di aprirsi al dialogo con il mondo delle scienze e di costruirsi come una nuova saggezza in grado di correre in soccorso dell’umano.

Proprio fra gli umani si annidano forze di disgregazione e di disintegrazione che non si limitano ad investire i sistemi sociali e i loro assetti, puntano addirittura al disfacimento dell’essere umano.

Gli Stati Uniti, il paese di Potter, certo, sono una democrazia e una democrazia è costruita in maniera tale da usare il diritto come strumento di difesa dell’umano. Un meccanismo che generalmente funziona. Ma che funziona solamente ad un patto, a patto che il potere, attivo sempre e quindi attivo anche in democrazia, resti sempre sotto controllo, sorvegliato a vista dall’etica e dal diritto, in maniera che non possa lasciare briglia sciolta al gusto di prevaricazione che lo inabita, nel cuore stesso del suo essere vitale. Ma quando una democrazia, come quella americana, è infettata da un virus, il razzismo, che agisce sin dai tempi della sua costituzione, che non è stato rimosso nemmeno dalla terribile guerra di secessione, che ambiva, almeno nelle intenzioni di alcuni rappresentanti delle forze del Nord, a liquidarlo, e che non ha cessato di vivere e di esercitare le sue funzioni nefaste nel corpo della nazione americana anche successivamente, attraversando tutta la storia degli Stati Uniti fino ad oggi e sopravvivendo perfino dopo i significativi rimedi giuridici messi in campo dal Presidente Johnson e dai suoi successori, è necessario ricorrere ad una riconversione radicale dei modi di pensare e di agire e far ricorso ad una trasfigurazione etica mai vista. Tragici eventi lo richiedono.

Il 16 maggio 1997 Bill Clinton, Presidente degli Stati Uniti, chiedeva a nome di tutto il paese scusa a tutta la comunità nera della contea di Macon in Alabama e agli otto sopravvissuti al terribile esperimento medico compiuto su di loro, e a loro insaputa, alcuni decenni prima e autorizzato dalla pubblica amministrazione: «Il governo degli Stati Uniti - dichiarò il Presidente - ha fatto qualcosa di tragicamente, di moralmente sbagliato…un atto chiaramente razzista»[4]. Di che si trattava?

Tutto era iniziato – ha raccontato Gilberto Corbellini – nel 1932 a Tuskegee, capoluogo della contea di Macon. A 600 uomini di colore, poveri e analfabeti, fu chiesto di sottoporsi ad accertamenti diagnostici periodici con la promessa del trasporto gratuito all’ospedale, nonché pasti caldi, cure ed i funerali a spese del governo. Ai medici interessavano i 399 soggetti da sifilide, che non furono informati della loro condizione, né curati se non con blandi ed inefficaci trattamenti. A tutti fu detto che avevano il “sangue cattivo” (bad blood) e che erano necessari periodici prelievi di midollo spinale. I sanitari usarono infermiere di colore e collaborazioniste per ingannare meglio i malati. Negli anni 40, in 250 furono trovati positivi per la sifilide alla visita di leva e per legge avrebbero dovuto essere sottoposti a trattamenti con penicillina, il nuovo e finalmente efficace antibiotico da poco sperimentato. Però furono esonerati dalla cura per disposizione del servizio sanitario. A conclusione dell’esperimento 28 uomini erano morti direttamente da sifilide e 100 per complicazioni associate alla malattia. 40 donne si erano infettate attraverso rapporti sessuali, e 19 bambini nati dai matrimoni avevano la sifilide congenita[5].

 

Degli uomini erano stati usati come oggetti di sperimentazione, come se non fossero soggetti della specie umana. L’etica aveva di che confrontarsi anche negli Stati Uniti. È da segnalare che per anni di quell’esperimento si discusse in ambienti ristretti, ambienti di scienziati e di politici. Ma su tutto fu mantenuto uno stretto riserbo e solo nel 1972, data significativa per il nostro discorso, un comitato di esperti rese pubblica la storia dell’esperimento, giudicato, bontà loro, “immorale”.

I nodi problematici che contraddistinguono l’etica ufficiale di una grande democrazia erano venuti al pettine. Ce n’era ben donde per parlare di una sfida imprevista ed inedita da raccogliere da parte dell’etica in procinto di trasformarsi, grazie all’attivismo frenetico di un numero indefinito di circoli scientifici ed intellettuali, in bioetica. Come si vide, quella sfida, insieme a quell’altra sfida già segnalata da Potter, era così pressante da stimolare una crescita esponenzialmente illimitata della riflessione bioetica. Non vale nemmeno la pena di segnalare l’estrema alluvione di pubblicazioni bioetiche che dappertutto, in tutti i paesi, si rovesciò, da allora in poi, sul pubblico, che ne rimase prima sorpreso, poi interessato, poi sgomento e sopraffatto.

Certo quella sfida era stata, per un’opinione pubblica democratica, sorprendente ed imprevista, ma non si poteva in alcun modo dire che essa era, nel ventesimo secolo, inedita.

 

  1. L’uomo del Novecento: potenza e logos

L’uomo del Novecento aveva sperimentato ben altro. L’etica era stata messa alla prova in una maniera ben più forte e distruttiva alcuni decenni prima, quando i motivi che suggerivano di passare a qualcosa di simile ad una bioetica si imposero con forza travolgente.

Gli anni 20 e 30 del secolo XX sono stati, come si sa, gli anni del trionfo dei regimi totalitari in Europa: fascismo, comunismo stalinista, nazional socialismo. Nella sostanza intercorrono notevoli differenze tra questi tre regimi. E di quelle differenze non è possibile non tenere conto se vogliamo, come tutto sommato dobbiamo, mantenere il necessario equilibrio del giudizio storico. Ma questo non vuol dire che bisogna trascurare di mettere in evidenza che tutti e tre quei regimi, i quali non mancavano di avere tratti in comune, si affermarono in definitiva come la realizzazione di un unico modello istituzionale: quello totalitario. Il fascismo, ad esempio, il regime di Mussolini, era nato da motivi sociali e lo spirito che all’inizio lo pervadeva e lo spingeva in avanti è lo spirito di rivalsa di alcuni ceti verso altri: borghesia, ceti medi contro ceti popolari e proletari che avevano inteso, sotto la spinta di una speranza di giustizia destinata a rimanere delusa, “fare come in Russia”, promuovere cioè una rivoluzione sociale che avrebbe reso attuale sotto diversa forma una specie di regno di Dio sulla terra. Ma l’ideologia di fondo che lo sorreggeva era l’ideologia nazionalista interpretata come affermazione di una singolarità, di una nazione, che nel ’38 si sarebbe identificata come una razza, e si sarebbe messa in stato di insurrezione contro la condizione di universalità del genere umano cui tutti gli uomini appartengono. Questo tipo di nazionalismo imponeva come precetto etico l’esclusione e, di conseguenza, la prevaricazione nei confronti di quelli che erano giudicati non far parte della nazione. E si badi bene, a decidere chi faceva parte o meno della nazione era il capo carismatico, il Duce, che era l’incarnazione stessa della nazione e assumeva in sé tutte le prerogative di quella. L’esclusione poi poteva tradursi in pratiche diverse che andavano, a seconda dei casi, dalla ghettizzazione alla persecuzione violenta, alla eliminazione. Nel comunismo stalinista costruito su una ideologia precisa, che a guardar bene risultava molto simile a quella fascista: la necessità di edificare il socialismo in un paese solo, e, cioè, se non mi inganno, la necessità di dar vita a un socialismo nazionale, attribuendo questo compito ad una classe giudicata capace di costruire una umanità nuova, l’unica umanità universale, si giungeva, su queste basi, ad escludere e a rendere oggetto di persecuzione tutti coloro che non sarebbero stati giudicati appartenenti a quella classe e che sarebbero stati rinchiusi e liquidati nell’universo del Goulag, descritto magistralmente nelle opere di Chalamov, Solzenitsin, Evguenia Guinzburg ed altri. Il nazional-socialismo di Hitler, infine, indubbiamente il meno ipocrita dei tre regimi, perché esplicitamente costruito sull’affermazione di un popolo identificato come razza e gratificato del titolo di razza superiore. Qui l’universalità del genere umano era esplicitamente negata. Secondo Hitler, ci sono solo le razze. E le razze non sono uguali. Alcune sono destinate dalla natura inesorabile al dominio, altre alla servitù, altre ancora allo sterminio in quanto agiscono come vettori di infezione sulle razze sane e ne provocano la degenerazione. Alcune razze vanno trasformate in schiave, quelle che causano la degenerazione, e cioè, ebrei, rom, omosessuali etc. sono destinati alla soppressione. Gli anni di cui parliamo furono perciò gli anni del trionfo dei campi: campi di concentramento, campi di lavoro schiavo, campi di sterminio.

Quel che in queste esperienze storiche era messo in discussione era il destino stesso dell’umano. Quando con la guerra diventò possibile sviluppare fino alle estreme conseguenze il progetto totalitario: il fascismo si perse in un delirio di violenza imbelle ed inutile; il socialismo nazionale stalinista si tese in un’impresa bellica inedita chiamando il popolo alla riscossa in nome dei valori della patria senza rinunziare per niente ad escludere e a chiudere nel “mondo a parte” descritto dallo scrittore polacco Herling, gli avversari politici, i cosiddetti borghesi e gli intellettuali, rendendone prigioniera la mente e internandoli negli asili per gli alienati; il nazional-socialismo, costruendo qualcosa di veramente inedito, di nuovo e di mai visto, mise su una vera e propria mega-industria per la produzione di cadaveri. Si raggiunse così il punto più oscuro della storia umana, il buco nero nel quale sprofondarono ad un tempo sia l’idea di Dio sia l’idea dell’uomo che avevano sorretto fino ad allora la storia morale del mondo occidentale.

Auschwitz è il luogo di sperimentazione, non solo della morte di Dio, ma anche di quella dell’uomo.

Esso segna la fine dell’umanesimo giudaico-cristiano, per il quale Dio è il Signore della storia, che deve rimanere, come per l’appunto non accade ad Auschwitz, orientata, malgrado le deviazioni prodotte dalle attività dell’uomo quando questi si perde dietro le sue pulsioni e il suo egoismo, verso una fine e un fine di salvezza del genere umano. Ma non si limita a questo. Esso determina anche la fine dell’umanesimo laico moderno per il quale l’uomo fa la storia e, poiché l’essenza che lo costituisce risiede nel fatto che nel suo esserci coincidono, fin dall’origine, corporeità, libertà e razionalità, Sarks e Logos, egli la fa in maniera tale che anche quando l’alleanza tra libertà e razionalità è messa al servizio della potenza del popolo, della classe, della nazione e dello stato, la storia che prende forma, grazie al suo agire, rende testimonianza del fatto che si determina in essa la coincidenza tra reale e razionale: si realizza cioè un regno dei fini che celebra i fastigi dell’umano. Ad Auschwitz, come nell’universo del Goulag, i protagonisti sono due tipi di uomini: l’uomo della potenza, il signore e carnefice, e l’uomo della fragilità, vittima e sottomesso, umiliato ed offeso. E poiché ad Auschwitz ad agire è solo l’uomo della potenza, Auschwitz si configura come il luogo in cui si produce sia l’eclissi (Buber) sia la morte di Dio, sia la fine dell’uomo, se è vero che l’identità dell’uomo si costruisce ogni volta, sul terreno della storia, su un’idea dell’uomo che ha sempre una configurazione etica. Laddove viene meno l’etica, là muore l’uomo, capace di identificarsi attraverso un’etica qualunque sia. Ma poiché ad Auschwitz agisce solo l’uomo della potenza e poiché l’uomo della potenza costruisce la sua idea di sé sull’assolutezza della politica, proclamando la derisorietà e la fine dell’etica, con la fine dell’etica è compromessa la possibilità dell’uomo di procedere umanamente alla propria identificazione.

L’uomo della potenza, di cui ha parlato quello che, forse, più di Giovanni Gentile, è il teorico più coerente del fascismo italiano, Julius Evola, agisce da solo e sovranamente ad Auschwitz. Il culto della nazione, convertitosi in culto della razza, si trasforma in un idolo enorme e maestoso che richiede, esige scorra il sangue dell’uomo. L’uomo della potenza e della prepotenza, il costruttore di quello che Lévinas ha chiamato l’umanesimo dei prepotenti, è l’officiante dell’eccidio e dell’incenerimento. Quest’uomo, l’uomo di Auschwitz, è figlio di una costellazione di spiriti che da Schopenhauer, Nietzsche, a Junger, a Carl Schmitt, per finire ad Heidegger, hanno sedotto gli spiriti mediante le loro insistenze sulla libertà, rovesciatesi immediatamente, nelle loro interpretazioni, in esaltazione della libertà, intesa come potenza. Ma l’uomo della potenza, una volta sciolti i vincoli razionali che lo trattenevano, rompe immediatamente con il Logos, che ne avrebbe frenato, fino a imprigionarli, gli spiriti vitali. Fa anche di più. Trasforma quel Logos in uno strumento della potenza, convertendolo in un mezzo indispensabile per imporsi nella terribile e permanente lotta che la vita è, a suo giudizio. La sua saggezza si raccoglie nella sua essenza nell’affermazione secondo la quale la storia è il campo in cui si dispiegano un numero indefinito di forze che tutte vi si affrontano in una lotta disperata per la vita e per la morte. L’uomo della potenza assume perciò il volto tragico e sogghignante di Heinrich Himmler secondo il quale il superuomo che il nazional-socialismo intende e sta costruendo è l’uomo dello sterminio. E quando sul palcoscenico della storia l’unico ad agire è l’uomo dello sterminio, è impossibile ritenere che lì nello stesso posto agiscano il Dio dell’amore o l’uomo umano disegnato dall’umanesimo moderno, espresso particolarmente nel soggetto etico descritto da Immanuel Kant. Dio, come risulta dalle elaborazioni ebraico-cristiane successive, è, d’ora in poi, nell’ipotesi più favorevole (quella più sfavorevole dice che Auschwitz dimostra che Dio non esiste) separato dalla sua potenza, identificabile ormai solo come un servo sofferente, presente in corpo e in spirito nelle vittime stesse della morte. L’uomo è, dunque, inchiodato alla condizione di un essere derelitto, abbandonato alla violenza dell’uomo della potenza quando non è trasformato (come accade nel caso delle vittime di Mengele e degli altri medici nazisti) in puro oggetto di sperimentazione.

È quel che, a quanto sembra, ha capito Paul Celan che, gettando uno sguardo sul sangue sparso dall’uomo vi intravede la luce degli occhi di Dio e che vede, poi, Dio e l’uomo abbracciati in quel vortice di perdita infinita che è l’evento culmine di Auschwitz. E poiché sono una magistrale illustrazione di tutti questi passaggi mi permetto di trascrivere qui gli stupendi versi di Celan:

 

Siamo vicini, Signore,

vicini e afferrabili.

Già afferrati, Signore,

l’uno nelle grinfie dell’altro, come fosse

il corpo di ognuno di noi

il tuo corpo, Signore.

Prega, Signore,

accanto a noi prega

siamo vicini.

A sghimbescio andavamo

andavamo per chinarci

verso conca e cratere

all’abbeveratoio andavamo, Signore.

Era sangue, era

ciò che tu hai sparso, Signore. Riluceva

e ci mandava la tua immagine negli occhi, Signore.

Occhi e bocca così aperti e vuoti, Signore.

Il sangue e l’immagine che era nel sangue, Signore.

Prega, Signore, siamo vicini[6]

 

Vicini, entrambi, Dio e uomo, sprofondano nel buco nero di Auschwitz. E con essi ad Auschwitz risultano sospese: l’etica (quando l’uomo stermina per il gusto di farlo, non si può più parlare di etica o di morale); il diritto (gli ebrei, i rom, i malati, gli omosessuali, sono sterminati per il fatto di esistere, non perché siano colpevoli di qualcosa. La dialettica infrazione-punizione è qui annullata); la parola (v’è un punto estremo nel quale la sofferenza inferta si sottrae alle prese espressive del linguaggio), la rappresentazione (non si può rappresentare il passaggio dalla derelizione dell’uomo privato, con lo strumento del lavoro e della sottrazione del cibo, dei tratti salienti della sua identità, alla disperazione in cui precipita quando è costretto a passare per la camera a gas e a finire nel forno crematorio). E si badi bene, quando diciamo che ad Auschwitz si estingue l’uomo, non usiamo questa espressione in senso metaforico. Il campo di lavoro schiavo (occorre segnalare che su questo punto si registra una significativa convergenza tra quel che si verifica nell’universo concentrazionario hitleriano e quello staliniano, come si può constatare agevolmente paragonando le descrizioni di Levi, Rousset, Antelme con quelle di Chalamov, Solzenitsin e Evguenia Guinzbourg) in cui vengono rinchiusi ebrei, rom, omosessuali e nemici politici è un vero e proprio luogo fisico nel quale si compie una inedita e progressiva sperimentazione della decostruzione dell’umano. Il lavoro forzato, le percosse, la privazione di cibo, la scarsa possibilità di riposare, la catena ininterrotta delle violenze subite quotidianamente hanno l’effetto di spogliare progressivamente il prigioniero della sua humanitas. Se, come si era sostenuto nel corso di una lunghissima tradizione di pensiero, che risale fino ad Aristotele, l’uomo è uno Zoon Logon Ekon oltre che uno Zoon Politicon, allora a poco alla volta nel campo lo si priva prima della socialità, lo si inchioda poi ad una solitudine disperata, nella quale egli è retrocesso in direzione di una riduzione che ne fa un semplice corpo, un complesso di pulsioni e di riflessi condizionati, che, spogliati del Logos, della ragione, e financo della parola, attraverso la quale la ragione prende corpo e si esprime, spogliato, di conseguenza, anche della sua memoria, del ricordo di tutta la sua storia e della storia umana di cui è partecipe, egli è ricacciato infine nella sua ancestrale condizione di animalità. Il campo di lavoro schiavo è una fabbrica di quel che, sulla scorta delle indicazioni di Primo Levi, che aveva sentito usare questo termine ad Auschwitz, si è soliti chiamare il Musulmano. Un essere inebetito, privo di volontà, al limite della coscienza di sé, ma già privo di capacità di comunicazione. Come segnala Améry, il Musulmano era «nel gergo del campo, il detenuto che cessava di lottare, e che i compagni lasciavano cadere, egli non aveva più nella sua coscienza un residuo di spazio nel quale il bene e il male, il nobile e il vile, lo spirituale e il non-spirituale, avrebbero potuto opporsi l’uno all’altro. Non è più che un cadavere ambulante, un miscuglio di funzioni fisiche nei loro ultimi sussulti». Era un cadavere che non aveva altra prospettiva che quella di finire nel forno crematorio, dopo essere passato per la camera a gas. E questo era quel che accadeva nell’universo concentrazionario nazista nel quale il nazionalismo, convertito in razzismo, giungeva al luogo delle sue estreme possibilità.

Là dove il nazismo giungeva al suo culmine, l’etica andava incontro ad un momento di smarrimento totale e rischiava di perdersi nei deliri di potenza dei moderni dittatori totalitari. Quei deliri sembravano autorizzati da una lunga tradizione di pensiero politico, che si era sviluppata, in maniera impressionante, nel corso della modernità, particolarmente dopo la guerra dei trent’anni e con la pace di Westfalia che “mise alla fine della cristianità come organizzazione politico teologica unificata”, “erede dell’impero Romano cristianizzato”. «Il principio “cujus regio ejus religio”, sanciva l’assolutezza dello Stato Moderno, il cui capo, il cui principe, poteva disporre delle anime dei suoi sudditi». La nozione, elaborata da Jean Bodin, della sovranità dello Stato (Res-Pubblica) come “potenza assoluta”, liberava lo statista dagli ingombri della morale tradizionale e trasformava il potere nella fonte del diritto. I passaggi machiavelliano (separazione tra politica e morale) e hobbesiano (l’autorità politica è la sola fonte del diritto) ponevano le basi affinché, quando lo Stato, diventa Stato del Popolo che trasmette all’uomo carismatico la totalità delle sue prerogative, il capo diventa la scaturigine del diritto (Carl Schmitt) e quando «il diritto di certi Stati Totalitari autorizza il governo a rinchiudere in campi di concentramento le persone la cui mentalità e le cui tendenze, o la religione o la razza, gli sono antipatiche, e a costringerli ai lavori che gli piace, perfino ad ucciderli» è giocoforza ammettere che, «per quanto energicamente si possano condannare simili misure, da un punto di vista morale, non si può tuttavia considerarle come estranee all’ordine giuridico di questi Stati»[7]. Con il che, oltre al positivismo giuridico (Schmitt) anche il formalismo giuridico (Kelsen), contribuiva in qualche modo a rendere possibile la sottomissione legale della società alle ideologie. Ma questo non ci deve impedire di riconoscere che nella riflessione del giurista, che è il difensore più ascoltato di un “riformato giuspositivismo”, malgrado “il suo dichiarato anti-giusnaturalismo”, si agitano un inquietudine ed una preoccupazione rispetto alle possibili degenerazioni degli ordinamenti fondati esclusivamente sulla ragione che lo spingono a dichiararsi insoddisfatto per l’incapacità “delle numerose teorie giusnaturalistiche” esistenti «a definire il contenuto dell’ordinamento giusto in un modo che almeno si avvicini all’esattezza e all’oggettività con cui la scienza può determinare il contenuto delle leggi della natura»[8]. È significativo che qui, come è stato acutamente osservato: «il formalismo, scoprendosi nella sua immagine di contenutismo deluso, si palesi quale giusnaturalismo capovolto»[9].

Al cospetto della terribile tragedia della seconda guerra mondiale che ha costituito una delle più grandi, se non la più grande e clamorosa rottura nel corpo della tradizione storica, sicuramente occidentale, e finanche umana, della quale ancora oggi, forse, non abbiamo ancora adeguatamente misurato la portata (questo malgrado che una grande pensatrice come Hannah Arendt abbia insistito, nei suoi straordinari libri, sulla corposità della frattura prodottasi nel corpo della tradizione storica dell’occidente con l’impresa nazista), un notevole numero di spiriti fu indotto ad imboccare la strada che si ritenne avrebbe portato ad un rifugio sicuro. E che cosa c’è di più sicuro di una legge morale universale già data? Nessuna meraviglia, dunque, se si pensò che fosse possibile raccogliere la sfida etica lanciata all’uomo dalle tragedie della guerra, di Auschwitz, Kolyma, Hiroshima e Naga-Saki attraverso la restaurazione del diritto naturale. V’era, specialmente nel mondo occidentale, considerata la tradizione cristiana che aveva contribuito a formarlo, una naturale predisposizione a ciò. Il Presidente degli USA Franklin Roosevelt aveva già in un discorso al Congresso del 6 gennaio 1941, affermato che per difendere e stabilizzare il “modo di vita democratico” sarebbe stata necessaria l’instaurazione di “un ordine morale più elevato”, “l’antitesi di questo preteso ordine nuovo della tirannia, che i dittatori cercano di creare nel fracasso delle bombe”. Da segnalare che questa predisposizione si incontrava felicemente con il contributo di uno dei maggiori filosofi cattolici europei del tempo, Jacques Maritain. Costretto, durante il regime di Vichy, a lasciare la Francia, sua moglie era ebrea, si rifugiò negli Stati Uniti e fu accolto tra i consiglieri di Roosevelt. Lì scrisse due testi Cristianesimo e democrazia[10] e I diritti dell’uomo e la legge naturale[11], nei quali non si limitò a criticare acutamente e acerbamente la modernità. Si spinse oltre. Ritenne, cioè, opportuno sostenere che si potesse opporre alla Ragione degli Stati, tutta raccolta nella proclamazione dell’assolutezza della politica, la sovranità della morale e del diritto. Per dar corpo a questo disegno occorreva, a suo giudizio, costituire un organismo sovranazionale che fosse insignito della dignità di gestire, al di sopra degli Stati, e per richiamare all’ordine in caso di infrazione, la sovranità, nel nome della moralità universale e mediante il diritto internazionale. Per diventare possibile quest’ordine richiedeva che gli Stati nazionali accettassero di limitare la propria sovranità mediante un atto di rinuncia che sottomettesse le ragioni della politica alle ragioni dell’etica. È questa la scelta che è alla base della fondazione dell’ONU (25 giugno 1945) e della redazione della “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo” (Parigi, 10 dicembre 1948). Su questa stessa strada si impegnarono anche gli stati europei. Anch’essi furono spinti dalle devastazioni subite da parte delle ideologie nazionalistiche, razziste e classiste a cercare un’istanza sovranazionale in grado di frenare e limitare le loro pulsioni alla potenza, all’espansione e alla prevaricazione. Settecento personalità si riunirono a La Haye, sotto la presidenza di Winston Churchill, per dar vita ad un congresso fondatore che redasse un programma. Fu così costituito un consiglio dell’Europa che promosse la prima assemblea parlamentare europea che redasse la “Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo”, modellata sulla “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”, ma che si spinge anche oltre, perché auspicò la costituzione di una corte europea competente a giudicare e condannare gli stati europei. Era un’affermazione forte della dignità della vecchia Europa che poneva l’etica al di sopra di tutte le ragioni delle altre istanze reali, fossero essere quelle della politica o quelle dell’economia.

Ma tutto questo era costruito su una base che si sarebbe dimostrata periclitante.

Poteva l’affermazione del primato dell’etica risolversi nella restaurazione del giusnaturalismo? Era quello che pensavano autorevolissimi filosofi cattolici, tra i quali, oltre Maritain, Emmanuel Mounier e Gabriel Marcel (perfino pensatori storicisti come Carlo Antoni si orientarono in quella stessa direzione) che misero al servizio delle nuove necessità ideali la nozione di “Persona”. Ma cos’è la persona? Nient’altro che un individuo, reso umano dal fatto di essere partecipe di una natura che ne riscatta l’individualità, elevandola all’universalità. In questo senso, ogni individuo, è, a priori, persona, singolarità che è, nel nucleo della sua essenza, universalità. All’interno di questo orizzonte comune, Maritain poteva interpretare la persona quale “spiritualità dell’uomo”, Marcel quale “partecipazione al mistero ontologico”, Mounier quale «inserimento comunitario e cosmico»[12]. Proprio Mounier nel Manifesto al servizio del personalismo comunitario[13], aveva situato la persona al di sopra di tutte le altre formazioni sociali, affermando che essa è “un assoluto” incomparabile rispetto a «ogni altra realtà materiale o sociale» che, quindi, in nessun caso, può essere considerata «come parte di un tutto: famiglia, classe, Stato, nazione, umanità» e che nessuna di queste entità «può legittimamente utilizzarla come un mezzo». Con il che, egli, insieme ai suoi colleghi, aveva inteso fornire al diritto internazionale, uno strumento di protezione dell’uomo, identificato come persona, nei confronti degli arbitri di qualsiasi tipo di entità, fosse anche esso rappresentato dallo Stato nazionale. In questo modo l’uomo umiliato ed offeso dagli stati totalitari si reinsediava nella sua umanità. Ma poteva farlo solo se, considerandosi persona, si riteneva restituito alla natura umana. In quanto persona egli poteva considerarsi, come aveva detto Aristotele, come “il migliore tra gli esseri viventi”, poteva farlo però in quanto non doveva a sé stesso questa superiorità ma alla natura. Come è stato detto: «è la natura che eccelle nell’uomo e non l’uomo che eccelle nella natura»[14] e la natura è buona perché è stata creata da un Dio di bontà. La filosofia finiva così per aprire la strada alla superiorità dell’etica, rispetto alla politica, all’economia e al diritto positivo degli stati, consegnandosi nelle mani della religione. Imboccando una strada decisamente anti-moderna finiva per proporre di sostituire l’uomo dell’obbedienza all’uomo della libertà.

È significativo che quando, nel 1948, i partecipanti al congresso di La Haye, di cui si è già fatto cenno, riconobbero, in una risoluzione approntata all’unanimità, che l’unità dell’Europa, al di là delle differenze nazionali dottrinali e religiose, è garantita da «una comune eredità di civiltà cristiana, di valori spirituali e culturali, e un comune attaccamento ai diritti fondamentali dell’uomo, particolarmente alla libertà di pensiero e di espressione», la chiesa cattolica non si contentò e non apprezzò, come forse avrebbe dovuto, questa impostazione “democratico-cristiana”. Il Papa Pio XII dichiarò che per ritrovare la pace l’Europa avrebbe dovuto espressamente riconoscere i “diritti di Dio e della sua legge”, in modo particolare, «il diritto naturale, fondo solido sul quale sono ancorati i diritti dell’uomo. Isolati dalla religione, in che modo questi diritti e tutte le libertà potranno assicurare l’unità, l’ordine e la pace?»[15].

Stupefacente sostituzione nel primato: la religione al posto dell’etica. Sostituzione significativa, sostituzione che afferma il primato dell’etica cristiana tout court e che pretende di imporre le ragioni di quell’etica non solo ai singoli Stati ma a tutte le istanze internazionali. Che questa potesse apparire come una pretesa risulta da un episodio significativo:

Il rapporto finale della Conferenza preparatoria sulla creazione di un Consiglio dell’Europa indica che i governi del Belgio, dell’Irlanda, del Lussemburgo e dei Pesi Bassi erano favorevoli a che ci fosse un riferimento esplicito ai valori religiosi: sorprendentemente il rappresentante del governo italiano, allora presieduto da Alcide de Gasperi, propose un testo senza menzione del cristianesimo né della religione.

 

Ma all’origine della costituzione dell’ONU e dell’Unione Europea non c’erano solo i cristiani, c’erano anche i laici che erano portatori di una diversa concezione dell’uomo, di una antropologia che scaturisce da uno dei tanti percorsi coperti dal pensiero moderno che non ha sviluppato solo l’antropologia che si esprime nella concezione del primato della volontà di potenza, dell’uomo come potenza. Quel che per questo modo di vedere non era accettabile, era la restaurazione del diritto naturale, perché la restaurazione del diritto naturale comportava il reinserimento dell’individuo entro la restaurazione «di un cosmo mosso da un universale finalismo»[16], incompatibile con il modo di vedere consentito dalla scienza moderna. Per trasmutare l’individuo moderno nella realtà della persona si sarebbe dovuto procedere ad una naturalizzazione del «principio di individuazione riportandolo alla materia quantitate signata»[17]. Ma questa operazione, brillantemente effettuata nel passato da Tommaso d’Aquino, non poteva riuscire altrettanto brillantemente ai filosofi cattolici del ventesimo secolo. Per una ragione molto semplice. Possibile e facilmente realizzabile nel cosmo degli antichi e dei medievali, quella operazione era diventata impossibile nel mondo moderno. La natura dei moderni, infatti, è eticamente neutrale, moralmente muta. Il giusnaturalismo moderno, che, come è noto, esiste ed è una realtà molto estesa e complessa, si costruisce, come ha dimostrato Piovani nel suo indimenticabile libro, come un “giusnaturalismo senza natura”, come un giusrazionalismo, quindi, non privo delle sue antinomie.

 

  1. L’uomo, la persona, l’alterità

Con la natura, cade il sostegno offerto alla Persona. La persona era stata pensata come ciò che rende uomo l’uomo, e cioè come l’essenza dell’uomo: la sua ousia, quel che è proprio dell’uomo. Ora, quel che è proprio dell’uomo, la sua essenza, è, secondo l’impostazione aristotelica originaria, ciò che permane e che, al di là delle mutazioni, si presenta stabile. Nel cosmo, nel quale tutte le nature partecipano di questa stabilità non è contraddittorio affermare che quel che dell’uomo è più proprio è quel che in lui permane, indipendentemente da quel che fa. Quel che è essenzialmente egli lo è fin dall’origine, qualunque sia la sua origine. Ma l’uomo moderno, separato e, come aveva detto Montaigne, privo di qualsiasi comunicazione con l’essere, è in una condizione di mobilità che lo priva di qualsiasi stabile radicamento. Quel che è, sia sul piano fisico sia sul piano spirituale, si configura, cioè, come un equilibrio di forze attraversato da una tensione permanente che insidia quell’equilibrio e lo squilibra, imponendo la necessità di permanentemente riequilibrarlo. L’uomo è un esistente fondato sullo sforzo di esistere, e in lui, come aveva detto Sartre, l’essenza coincide tutta quanta con l’esistenza. Ne consegue che in lui, come in ogni altra realtà del nuovo mondo, il mondo scoperto dalla scienza moderna, l’essere è il tempo. In quanto essere temporale l’uomo, perciò, si muove tra due confini, insormontabili, quello del nascere e quello del morire, che concorrono a costituire la tragica realtà della sua finitezza. È perciò in questo spazio di finitezza che egli è obbligato a muoversi e a dar corso al suo sforzo d’essere. Ma qui, in questo spazio e fin dall’inizio, che possiamo collocare nel momento in cui raggiunge la consapevolezza di sé, egli non esiste isolatamente, non è un individuo separato dagli altri. Non è, di conseguenza, una libertà che può, senza preoccuparsi delle prevaricazioni che rischia di produrre, espandersi illimitatamente. Ha preteso, certo, in alcuni sviluppi speculativi del moderno di essere esclusivamente volontà di potenza e si è visto in quali abissi di perdizione è sprofondato. La verità è che al cospetto dell’altro, questo individuo che ha nella libertà il suo principio di identificazione, non ha il diritto di identificare quell’altro come un nemico, come aveva preteso un celebre passaggio della Fenomenologia dello Spirito, come un nemico che lo insidia, un nemico con cui occorre scontrarsi, nell’eventualità, esclusiva, o di abbatterlo o di sottometterlo, sempre che non tocchi a lui di essere abbattuto o sottomesso. L’altro è un esistente con cui si coesiste e si deve coesistere. In questo senso, l’esistenza è strutturalmente coesistenza che innesca ipso facto il dovere non solo di coesistere con l’altro ma anche quello di rispettarlo, fino al punto da farsene responsabili. L’esistenza come coesistenza è, quindi, instaurazione etica. E l’instaurazione etica coincide con il riconoscimento della libertà e dei diritti dell’altro, individuando lo specifico dell’etica e del suo primato nell’effettuazione del dovere che lega l’io agli altri e gli altri all’io. Coesistenza. Ma si badi bene, questa coesistenza non può essere fondata sull’utilità, come hanno ritenuto i teorici dell’utilitarismo. L’utilità è, come aveva visto bene Kant, tutt’al più una opportunità. E l’individuo non può essere spinto a riconoscere i coesistenti solo sulla base di un calcolo di opportunità. Se lo facesse mancherebbe la sua realizzazione etica. Non riconoscerebbe l’altro, lo utilizzerebbe per la soddisfazione delle sue esigenze e resterebbe inchiodato al suo egoismo, inesorabilmente prigioniero della sua solitudine. Non si può fondare l’etica sull’utilità. Le etiche del bonheur sono tecniche della felicità e costituiscono, in quanto tali, delle articolazioni dell’economia. Si muovono su un terreno sul quale l’altro può essere coinvolto solo per consentire all’io di perseguire i suoi interessi e di conseguire i suoi scopi. Un’etica fondata sull’utilità non si rivelerebbe, dunque, adeguata a proteggere l’umano, né l’umano dell’io né quello dell’altro. Solo un’etica della responsabilità nei confronti dell’altro può assolvere a uno scopo simile.

Come che sia, all’origine della rifondazione dell’etica europea così come si prospettò nei documenti citati, vi erano tutte e tre queste istanze. Vi era, particolarmente, anche quella utilitaristica che si sviluppò in ambienti influenzati dall’evoluzionismo darwiniano, recentemente accreditato di una nuova rinascita dai progressi compiuti nel campo delle scienze naturali. Entro questo orizzonte di ricerca, si era sviluppata un’antropologia evoluzionistica, propugnata proprio in quegli anni dall’ultimo rampollo della dinastia degli Huxley, il cui iniziatore era stato amico, collaboratore e divulgatore di Darwin. Nominato primo direttore generale dell’UNESCO, egli ebbe voce in capitolo sulla redazione dei documenti che sono all’origine della Costituzione dell’Europa.

I diritti dell’uomo furono, dunque, fondati sia come diritti della persona sia come diritti dell’individuo moderno. Questo innescò una dialettica che portò, secondo i rispettivi punti di vista, a risultati valutabili in maniera totalmente contrapposta. Dal punto di vista cattolico la costatazione è netta: «di fatto, i diritti dell’uomo non hanno mantenuto la promessa del personalismo»[18]. L’affermazione dell’individuo si è imposta su quella della persona e l’affermazione dell’individuo ha significato “soggettivizzazione della realtà”. Tutto è stato riportato ai desideri e impulsi dell’individuo. Diritti non sono stati più considerati i diritti naturali, quelli imposti da una natura che, in quanto creata da Dio, è gravida di valori. Veri diritti sono stati considerati i diritti decisi dalla volontà dell’individuo, che in quanto tali, sono espressione dello spirito individuale. L’ansiosa tensione ad essere sé stessi, disegnare una figura d’uomo che non si sa bene quale aspetto potesse avere, ha spinto ossessivamente l’individuo alla conquista della felicità. Ciò ha portato alla distruzione dell’ontologia personalista cristiana.

 

  1. Soggettivismo, utilitarismo, nichilismo?

L’affermazione di questo soggettivismo estremo e il trionfo dell’etica utilitaristica, hanno portato, secondo questa prospettiva, a un nichilismo estremo. Così anche dopo il diffondersi della bioetica, a partire dalla svolta di Potter, poiché nella bioetica ha prevalso lo spirito di questo individualismo utilitaristico ed edonista si è giunti ad un punto estremo nel quale si è finiti nell’abisso del nichilismo: «Contraccezione, aborti, divorzi, pornografia, eutanasia, omosessualità, eugenismo: tutte queste pratiche, largamente proibite nel dopoguerra, sono ora diritti e la loro critica è interdetta»[19]. Se si aggiunge il fatto che si sono prodotti nel frattempo anche una serie di eventi abbastanza sconvolgenti: il Sessantotto, l’89 (caduta del comunismo), 2001 (lo shock dell’Islam), 2007 (la crisi finanziaria mondiale), 2020 (il COVID) ed oggi la crisi migratoria, mentre, la plebeizzazione delle masse che si sta producendo in molti paesi dell’Europa rischia di provocare lo sprofondamento dei valori  e delle istanze europee, non si può far meno di ammettere che siamo dunque di nuovo al cospetto di una possibile frattura che rischia di innescare un’altra caduta dell’etica.

I problemi da affrontare si moltiplicano enormemente se si pensa che nel frattempo, in particolare dopo il 1970 e la svolta impressa da Potter con la fondazione della bioetica come disciplina autonoma, si è verificata una trasformazione tecnologica di inaudite proporzioni che rischia di esporre l’uomo ad una trasformazione che, secondo alcuni, rende addirittura possibile ipotizzare che egli si possa proiettare al di là dell’umano.

L’umano era già sembrato non all’altezza di risolvere i compiti imposti dalle scienze umane ad alcuni pensatori, di certo non banali, negli anni Sessanta e Settanta. Che l’uomo, animale razionale, avesse un posto privilegiato nella natura per la capacità, dimostrata, di dominare e di raccogliere la totalità dell’essere nella coscienza di sé, era stato considerato fino ad allora scontato. Ma come la psicoanalisi aveva anche fin troppo dimostrato, la coscienza di sé spesso si disintegra e si perde nei meandri oscuri della malattia mentale. «Da allora in poi il mondo fondato, fondato sul cogito» cominciò ad «apparire umano, fin troppo umano», al punto da spingere a cercare «la verità nell’essere, in una oggettività in qualche modo superlativa, pura di ogni ideologia, senza tracce umane»[20]. E tutto si svolse come se l’io, «identità per eccellenza, alla quale risalirebbe ogni identità identificabile, facesse difetto a sé stesso e non arrivasse a coincidere con sé stesso»[21]. La fine dell’umanesimo, che così si delineava all’orizzonte del pensiero che faceva seguito alla fine della metafisica, portava così, dopo la morte di Dio, alla morte dell’uomo, proclamata da Michel Foucault, morte che era già stata anticipata da Claude Lévi-Strauss, secondo il quale «lo scopo ultimo delle scienze umane non è quello di costituire l’uomo, ma di dissolverlo», mentre Jacques Derrida si sarebbe impegnato, di lì a poco, a perseguire un’interpretazione dell’interpretazione che gli avrebbe consentito di «passare al di là dell’uomo e dell’umanesimo»[22]. E, perfino nell’ambito del marxismo, che si era identificato fino ad allora come storicismo e filosofia della prassi, il regno del soggetto, che risulta espropriato anche nelle ricerche di Lacan, che portano ad evidenziare l’onnipotenza in esso delle forze dell’inconscio, va incontro ad una contestazione radicale da parte di Althusser che mirava a costruire la storia come scienza e per farlo introdusse la nozione di «processo senza soggetto»[23] che sostituisce la nozione della storia come processo dialettico o processo di alienazione dell’essenza dell’uomo che era stata al centro del cosiddetto marxismo occidentale. Per dirla in breve la nozione di uomo ha cessato in queste impostazioni, e specialmente in quella di Althusser, di essere una categoria razionale fondamentale per produrre la comprensione della storia, ed è diventata, per usare un’espressione di Bachelard, molto cara ad Althusser, un “ostacolo epistemologico”.

Ma qualcosa di peggio ancora stava per precipitare sull’uomo. Proprio intorno a quell’epoca Hannah Arendt, che si era rifugiata per sfuggire al nazismo, negli Stati Uniti, annotò nella Condizione dell’uomo questa osservazione: «quest’uomo futuro, che gli scienziati, ci dicono, produrranno nel giro di un secolo non di più, sembra in preda alla rivolta contro l’esistenza umana quale è data, dono venuto da nessuna parte (laicamente parlando) e che egli vuole per così dire scambiare contro un’opera delle proprie mani». Ma non si limitò a prendere atto di un fatto. Avanzò un commento: quel fatto, a suo giudizio, avrebbe sollevato «una questione politica primordiale, che non si può, di conseguenza, abbandonare né ai professionisti della scienza, né a quelli della politica». Una questione politica primordiale, così dice la grande pensatrice; ma chi ha dimestichezza con il suo pensiero sa che, poiché essa non era una machiavelliana, per lei nella politica era implicata l’etica. E l’etica che si confronta con il problema della costruzione in laboratorio dell’essere umano è un’etica della vita, una bioetica, così come è possibile delinearla nell’era del trionfo delle tecnologie. Come si collocherà questa eventuale nuova bioetica nei confronti dei due paradigmi interpretativi che sono, come si è visto, stati in campo in tutti i decenni che hanno preceduto questo radicale sommovimento: paradigma giusnaturalista e quello evoluzionistico liberale?

Come si è già detto, dal punto di vista giusnaturalistico l’impostazione e l’interpretazione che dei diritti umani hanno fornito i propugnatori dell’individualismo liberale portano, in quanto sviluppate fino alle estreme conseguenze, alla “distruzione dell’ontologia personalista e cristiana”, interpretando i nuovi diritti come diritti della volontà sul corpo che portano a pratiche “contro natura”. Il tutto in omaggio al principio «che ogni atto compiuto liberamente è buono se voluto liberamente»[24]. Questa impostazione che fa dipendere tutto dalla volontà dell’individuo comporta una duplice rottura con il corpo della tradizione occidentale. Sia “Atene”, sia “Gerusalemme”, che costituiscono le colonne portanti di quella tradizione, hanno insistito ad affermare che l’umano si distacca su un «fondo che egli non produce ma che al contrario lo produce»[25]. La modernità ha già compiuto un primo passo significativo per distaccarsi da quel fondo, quando, rinunziando ad entrambe le origini, quella naturale e quella divina, ha attribuito la costruzione della storia all’uomo. Creando la storia, fu sostenuto dai moderni, l’uomo crea sé stesso. L’espressione è pregnante, ma in definitiva essa ebbe in questo contesto un innegabile significato metaforico. Un significato che assume una ben diversa configurazione quando diventa possibile costruire l’uomo in laboratorio. Si profilano allora i lineamenti dell’uomo nuovo, dell’uomo in grado di determinare sé stesso, ma non solo in senso spirituale, bensì anche nella sua costituzione psico-fisica. Quest’uomo, secondo il propugnatore di un punto di vista giusnaturalistico, non nasce semplicemente, come ha suggerito già Hannah Arendt, da un senso di rivolta nei confronti dell’istanza inidentificabile da cui ha ricevuto la vita, ma da un vero e proprio odio nei confronti della vita. Prodotto di un processo evolutivo determinato dalla soluzione naturale, la vita, in generale, e la vita umana in particolare, sono debitrici dello stato in cui si trovano rispetto all’intreccio di due tipi di casualità, quelli del caso e della necessità (Monod). Il risultato è stato che generalmente l’uomo rimane inchiodato entro i limiti della sua imperfezione. E bisogna riconoscere che se in lui lo sviluppo delle facoltà razionali appare cospicuo, non altrettanto si può dire delle sue prerogative fisiche. Di conseguenza, se diventa possibile volere, decidere e padroneggiare i processi costitutivi della propria corporeità, perché non approfittarne? L’uomo non ha forse sognato da sempre la felicità? E non ha sognato da sempre di avere un corpo all’altezza della sua spiritualità? E recentemente, nel secolo XIX in particolare, non si è sognato senza interruzioni di proiettarsi oltre l’uomo? Certo l’oltre uomo era stato concepito come un uomo in grado di costruire la propria identità su nuovi valori, su valori suscettibili di consentigli, come rileva Nietzsche, di “rifidanzarsi col mondo”, e di espandersi nell’orizzonte di “un assoluto terrestre”. Quel che Nietzsche aveva perseguito era una riconversione culturale. L’oltre uomo era per lui l’uomo che basava la sua identità su valori non inficiati da alcun risentimento nei confronti dell’innocenza del divenire che contraddistingue la vita. Oltre uomo nell’impostazione dei transumanisti significa ora un’altra cosa. Significa che possiamo progettare l’uomo e sperare di ricostruirlo ex novo. Il genetista americano (Nobel 1962) James Watson in conformità a questa impostazione non ha, in linea di principio, avuto alcuna difficoltà ad affermare, nel 2000 che occorrerà «avere il coraggio di intervenire sulla linea germinale», anche «senza essere sicuri del risultato», per poi aggiungere: «di più e nessuno osa dirlo, se potessimo creare esseri umani migliori grazie all’aggiunta di geni (provenienti da piante o animali) perché privarsene? Dov’è il problema?»[26].

 

  1. Natura e artificio? Meccanico e vitale

Già, dov’è il problema? Nei laboratori si lavora incessantemente per raggiungere questo scopo. E mentre i biologi si concentrano su questi problemi, gli ingegneri hanno compiuto progressi immensi e stupefacenti nell’elaborazione delle macchine calcolatrici, dalle quali si sta sviluppando ormai l’intelligenza Artificiale: «I computer erano in origine macchine molto grossolane e distanti, in ambienti climatizzati in cui lavoravano tecnici in blusa bianca. Essi sono in seguito arrivati sui nostri uffici, poi sotto le nostre braccia e ora nelle nostre tasche. Ben presto non esiteremo nel metterle nel nostro corpo o nel nostro cervello»[27]. Grazie all’IA gli studi di genetica sono andati incontro ad uno sviluppo impressionante, il 2 giugno 2016 la rivista “Science” annunciava il lancio del programma “Human Genome Project-Write”. L’ambizione era quella di creare ex nihilo un genoma umano artificiale[28]. La creazione della vita cominciava a non sembrare più un argomento di science-fiction. Nel momento in cui il biotecnologo americano Craig Venter e i ricercatori del Genopol D’Evry e de CEP annunziavano, a loro volta, di aver fabbricato «batteri artificiali il cui DNA è stato scritto da un computer», il fine sembrava vicino se non raggiunto. L’uomo è, dunque, già pervenuto a trasformarsi da oggetto in soggetto dell’evoluzione? Che ci sia riuscito o meno non è facile a dirsi. Quel che è sicuro è che può controllare e addirittura progettare alcuni processi vitali. Già oggi le biotecnologie sono in grado di manipolare, indirizzare e governare i processi di procreazione mediante artifici. L’obiettivo perseguito è qui estremamente chiaro. Si tratta di sostituire la nascita “naturale” insidiosa e rischiosa con un procedimento che, grazie all’aiuto di meccanismi artificiali, rende questo evento sicuro e privo di incognite. Per rendere possibile tutto questo non si esita a suppore che un utero artificiale, monitorato e disinfettato, possa sostituire l’utero materno che come dice un esperto in etica moderna di Harvard «è un posto oscuro e pericoloso»[29] (Da segnalare che ad aprile 2017 una equipe di Filadelfia annunzierà la nascita di un feto di agnello in un utero artificiale). Quando queste tecnologie raggiungeranno il punto di sviluppo necessario le donne saranno liberate dalla maledizione che le destinava a trasmettere la vita nel pericolo e nella sofferenza: «le nascite assistite tecnologicamente, il che include eventualmente le gravidanze artificiali, libereranno le donne dalla necessità di essere le portatrici indispensabili e invulnerabili della prossima generazione. La libertà morfologica, la possibilità di cambiare il proprio corpo (ivi comprese le nostre capacità, il peso, il sesso e le caratteristiche razziali) ridurrà le oppressioni basate sul corpo (handicap, obesità, sesso e razza) ai pregiudizi estetici»[30].

In attesa di liberare la donna dai traumi del parto o con l’utero artificiale o con la clonazione degli umani, si comincia a intervenire sui gameti per eliminare eventuali imperfezioni genetiche. Nel febbraio 2017 «L’Accademia americana delle scienze e l’accademia nazionale di medicina hanno approvato l’edizione germinale, in particolare con l’aiuto di CRISPR, per eliminare le malattie ereditarie gravi presso gli embrioni»[31]. Si tratta, secondo i sostenitori dell’etica naturale, di una svolta che dà corso al sogno degli inumani che puntano a sbarazzarsi della nascita e a sostituirla con un processo programmato e orientato. Soppressione della natura, istituzione del primato della volontà. La denunzia è forte e si spinge fino ad affermare che, autorizzando cose di questo genere, la scienza rivela di essere oggi il vero motore della potenza e del controllo, essenziali per instaurare un regime dispotico assoluto. Una ulteriore prova di ciò, secondo questa impostazione interpretativa, sarebbe offerta dagli sviluppi della medicina che da medicina curativa tende ormai a trasformarsi in medicina migliorativa. E si badi bene ancora una volta, non si tratterebbe di science-fiction ma di reality-science. Organismi internazionali rilevanti avallerebbero questi sviluppi. Fin dal 2002 un rapporto pubblicato dal Dipartimento del commercio americano e della National Science Foundation (NSF) auspicava «il miglioramento delle performance umane attraverso le tecnologie convergenti»[32]. E nel 2003, il Comitato di bioetica americano, pubblicava a sua volta, un rapporto che legittimava il principio di una medicina migliorativa non terapeutica.

E chi pensasse si trattava soltanto di eccessi del solito mondo americano immerso in un’atmosfera liberal utilitaristica, ossessionato dalla necessità di consentire agli uomini il raggiungimento della felicità, si sbaglierebbe di grosso. Dal momento che anche l’Unione Europea ha nel 2004, per non restare indietro rispetto a questi sviluppi, nominato un comitato di esperti per esaminare la questione. Un comitato che, ben lungi dallo smentire le conclusioni dei colleghi americani, ha auspicato di inaugurare una prospettiva di miglioramento, di incremento delle facoltà umane, “etica, durevole e giusta”. Si tratta, come si vede, di impostazioni che hanno aperto la strada a sviluppi estremamente problematici. Se i giusnaturalisti hanno protestato con grande forza contro le invenzioni di una tecnoscienza che mirerebbe ad instaurare un totalitarismo tecnologico, fondato sulla costruzione dell’uomo in laboratorio, il pensiero liberale, preoccupato di preservare la libertà dell’uomo nel rispetto e nella realizzazione dei suoi diritti, di tutti quei diritti, cioè, il cui esercizio non implica nessuna conseguenza negativa per gli altri, ha concesso il suo assenso allo sviluppo di queste tecnologie migliorative per l’essere umano. Vorrei citare qui come exemplum di questa posizione che non sposa né l’oltranzismo dei giusnaturalisti né quello dei liberal naturalisti e si colloca in un territorio di confine sul quale non è facile mantenersi in equilibrio: «chi rifiuterà di riparare i geni patogeni? (…) chi rifiuterà anche di migliorare la resistenza dell’organismo umano all’invecchiamento, di aumentare le sue capacità percettive, intellettuali, finanche di dotare la specie umana per ibridazione di attitudini superiori?»[33]. Nessuno, è ipotizzabile, si rifiuterebbe di avvalersi di queste modifiche e anche se questo comportasse la necessità di trasformarsi in un ibrido nel quale l’organico e il meccanico si sposano perfettamente tra loro. Basta gettare uno sguardo su quel che racconta la cronaca giornalistica per rendersene conto. Se illustri ricercatori[34]  dell’Università di Losanna, guidati da Grègoire Courtine, inseriscono nel cervello di un paziente che ha perduto l’uso della gambe, «un dispositivo che crea un ponte digitale tra il cervello dell’uomo paralizzato e i nervi sotto la ferita» e , grazie a questo dispositivo, «il cervello dialoga direttamente con la parte del midollo spinale che controlla il movimento», consentendo al soggetto in questione «di stare in piedi e camminare»[35], chi potrebbe avere da ridire? Certo, si potrebbe osservare che questa è comunque medicina curativa. Ma è medicina curativa che comporta l’ibridazione tra il meccanismo e l’organismo. Un’ibridazione così realizzata difende e rispetta l’umano così com’è, nel mentre lo ripara. Essa è, dunque, una conquista straordinaria per l’uomo che non sarebbe sbarazzato della sua condizione umana. Ma, si potrebbe obiettare: con lo sposare il meccanico e il vitale non si pongono le basi per raggiungere comunque a un risultato simile? Se restiamo sul terreno dei fatti, se ci atteniamo a quello che possiamo aspettarci realisticamente dall’attuale sviluppo delle tecnologie non è e detto che si possa veramente giungere a un momento in cui diventerà possibile proiettarsi oltre l’umano, magari in direzione del post-umano. Questo è vero. Ma i risultati ottenuti in un dato momento dalla scienza si prestano sempre a letture e interpretazioni che possono anche essere diverse da questa. Anche le scienze e le tecnologie, lette e interpretate alla luce di un a priori particolare, possono secernere prospettive ideologiche o utopiche.

È quel che sta accadendo in molte parti. Ed è in questa direzione, mi sembra, che si stanno sviluppando i discorsi del trans-umanesimo e del post-umanesimo. Qualunque possa essere il giudizio che si sia maturato o che si maturi su questi discorsi, quel che è sicuro è che essi non mancano di interesse e meritano perciò grande attenzione.

Ma affinché i discorsi proposti da questi due filoni di pensiero possano esser compresi nelle loro ragioni, di certo, né banali, né stravaganti e, comunque, sensate e non sprovviste di qualche fondamento, occorre seguirle nelle loro elaborazioni, partendo da un passaggio che esse coprono dall’inizio del loro percorso speculativo. Occorre partire dalla presa d’atto di quello che a loro appare come un dato di fatto piuttosto che un’interpretazione. Come si sa, il corpo umano è un aggregato di cellule che vengono continuamente sostituite durante tutta la vita e tuttavia all’incirca esso conserva sempre la sua identità. Quel che gli consente questa performance, e quel che si mantiene stabile entro certi limiti (con la vecchiaia il processo di sostituzione si allenta o si inceppa e anche la forma si deforma) è rappresentato dalle caratteristiche del processo formale che avviene in esso nel corso della sua vicenda esistenziale. «Se il processo è preservato» il corpo «è preservato»[36]. Si può ipotizzare che l’identità del corpo sia mantenuta dal messaggio che esso trasmette, dal codice che genera la sua forma. E con questo ci ritroviamo sul terreno della cibernetica. Ci si deve ricordare che già negli anni 50 del 900 Norbert Wiener aveva identificato il mondo come «un vasto campo di informazioni»[37]. Con quest’affermazione egli aveva posto le basi per il determinarsi di una nuova ontologia, un’ontologia informazionale per la quale l’essere è il messaggio. Secondo questa impostazione, tutto, in noi e intorno a noi, dunque, è messaggio: lo sono il corpo, il pensiero, il linguaggio, le cose materiali, la natura nel suo insieme. Ma se questo è vero, questo vuol dire che chi penetra i meccanismi di funzionamento di questa realtà consegue su di essa un potere totale di intervento. Se tutto è messaggio, tutto può essere letto e interpretato. Tutto può essere scomposto e ricomposto, come un libro può essere scritto e riscritto in tanti modi diversi. Certo, questo potrebbe dar luogo a molte letture e a molte interpretazioni diverse, e, forse, inclini a entrare in conflitto tra loro. Ma v’è una costellazione di spiriti che, sulle basi di questa constatazione, interpretata come un’ontologia informazionale, ha ritenuto di doversi orientare verso una sola interpretazione possibile: quella per la quale il convergere delle nuove scienze in un’unica impresa conoscitiva consentirà di tutto interpretare per tutto trasformare. Anticipando ampiamente sul futuro, questi spiriti rapiti da un entusiasmo interpretativo irrefrenabile che li riempie della convinzione che un giorno giungeranno al punto in cui sarà possibile di tutto trasformare, il mondo e l’uomo, si avventurano sulla strada che li porta a realizzare il passaggio al di là dell’umano e giungere addirittura al post-umano. È quel che vogliamo, dichiarano i transumanisti:

noi vogliamo diventare l’origine del futuro, cambiare la vita nel senso proprio e non più nel senso figurato, creare specie nuove, adottare cloni umani, selezionare i nostri gameti, scolpire i nostri corpi e i nostri spiriti, rendere sani i nostri geni, divorare festini transgenici, fare dono delle nostre cellule germinali, vedere gli infrarossi, ascoltare gli ultrasuoni, sentire i feromoni, coltivare i nostri geni, sostituire i nostri neuroni, fare l’amore nello spazio, dibattere con i robot, praticare clonazioni diverse all’infinito, aggiungere nuovi sensi, vivere venti anni o due secoli, abitare la luna, terraformare marte, dare del tu alle galassie … ci evolveremo e nessuno ce l’ impedirà[38]

 

Per quanto possa sembrare stupefacente, è quello che avverrà rincara anche colui che è considerato fra i transumanisti un capofila, Ray Kurzweil, l’autore di una serie di opere significative tra cui spicca il grande libro La singolarità è vicina[39]. In quest’opera Kurzwweil si sofferma amplissimamente su questo passaggio di cui intendo qui mettere in rilievo, considerato che questo discorso deve volgere al termine, e brevemente, solo due tappe. Secondo Kurzweil verso il 2050 il convergere degli sforzi scientifici di diverse discipline, nanotecnologie, biologia, IA, scienze cognitive o neuroscienze (NBIC) renderà possibile padroneggiare la vita umana completamente. Potremo allora inserire nel nostro corpo e nel nostro cervello dei nanobot che agiranno come delle vere e proprie officine riparando le cellule, riproducendole, sostituendole. «Nanobot nel nostro organismo distruggeranno gli agenti patogeni, elimineranno gli scarti, come le proteine mal formate e le protofibrille, ripareranno il DNA e invertiranno i processi di invecchiamento. Saremo in grado di riprogettare tutti i sistemi dei nostri organismi in modo che siano capaci e durino di più»[40], «l’accelerazione dei processi nella biologia ci permetterà di riprogrammare i nostri geni e i nostri processi metabolici in modo da eliminare malattie e processi di invecchiamento»[41]. Alla luce di questi sviluppi «possiamo immaginare che la prima realizzazione della rivoluzione nano e bio-tecnologica, ci consentiranno di eliminare praticamente tutte le cause mediche di morte»[42]. “Gli esseri umani” espanderanno allora «il loro pensiero senza limiti»[43]. Si creeranno le basi per la realizzazione di quella che Teilhard de Chardin aveva definito una noosfera. L’uomo che, come spiega, a sua volta, in un libro intrigante, Laurent Alexandre (La mort de la mort), sarà giunto a determinare la morte della morte dovrà ricorrere ad una governance mondiale che non mancherà di configurarsi, ahimè, agli occhi meno entusiasti e più critici di quelli dei transumanisti, come lo spettro di un totalitarismo tecnologico assoluto. È notevole che in questo ultimo scorcio della sua vita centenaria, Henry Kissinger, che insieme all’ex capo di Google Eric Schmidt ha pubblicato nel 2021 un libro su L’intelligenza artificiale e il nostro futuro[44], si stia concentrando particolarmente sulle potenzialità dell’IA considerato che «sotto attacco» – e la guerra tra gli Stati è, secondo Kissinger, ineludibile –, «può diventare necessario affidarsi alla capacità di reazione della macchina se i tempi di revisione e analisi delle loro scelte fatte dall’occhio sono troppo lunghi»[45].

Che cosa sarà allora l’oltre umano? Una IA fornita di una capacità di pensare in grado di spingersi aldilà di ogni limite, di gestire l’affettività umana in maniera esponenziale, e, quindi, di porre seriamente il problema di chi avrà il potere di decisione rispetto al futuro del mondo, o un uomo potenziato al punto da essere completamente trasfigurato: un uomo titolare di una mente e di un corpo in grado di sconfiggere la morte e di trascendere i limiti che circoscrivono l’umano? Nell’uno e nell’altro caso si aprirebbero prospettive che definire inquietanti è veramente poca cosa. Difficile gettare uno sguardo nell’oscurità circoscritta dall’orizzonte di questo futuro. I caratteri che comunque si intravedono sono quelli distintivi di tutte le società chiuse descritte dal discorso utopico.

Le utopie, certo, hanno un loro fascino, ma fin troppo spesso esse si sono configurate come descrizione di mondi chiusi. Chiusi nella loro perfezione. Perfezione che è sempre stato lo strumento mediante il quale il funzionamento di un potere totale e indiscutibile ha sedotto gli uomini. Se si realizzasse la perfezione, l’uomo si fermerebbe. Cesserebbe di essere quel viator che è, sempre in cammino, sempre insoddisfatto, ma sempre teso nello sforzo di essere libero e intrepido scopritore del mondo. L’uomo che, certo, forse, come si è detto, non dispone di un’essenza, non può contare su un fondamento che lo proietti verso l’assoluto a meno che non si voglia sostenere che quel che in lui permane è la finitezza, la necessità di ritornare, ad un certo momento, nel buio dal quale proviene. Nessuna utopia lo convincerà mai che egli può sbarazzarsi dei suoi limiti. Questo non vuol dire che fino a quando gli sarà dato di respirare smetterà di tendersi nello sforzo di compiere il suo dovere verso se stesso, verso gli altri e verso il mondo. Perché non c’è niente che lo fondi nella sua umanità, se non l’etica, che in quanto etica della responsabilità, gli consente di ricostruire la sua identità umana, che può essere migliorata in tanti modi possibili, ma che non può esser trascesa. Io credo che, anche se, probabilmente, non merita di morire, l’uomo può e deve in tutta tranquillità, e anche se non ha speranza, abbracciare “sorella morte”. Io credo che può e deve farlo con serenità se non si è sottratto a tutti i doveri che la vita gli ha imposto. Per questo, mi pare, che non ci sia modo più opportuno per concludere queste note se non facendo uso delle parole di un grande poeta, delle parole di Pindaro: “O anima mia, non aspirare alla vita immortale, ma esaurisci il campo del possibile”.

 

[1] R. V. Potter, Bioetica. La scienza della sopravvivenza, Levante, Bari 2002.

[2] Id., Bioetica. Ponte verso il futuro (1971), tr. it. Sicania, Messina 2000.

[3] W. T. Reich, Encyclopedia of Bioethics, Macmillan, New York 1978.

[4] G. Corbellini, L’immoralità del paternalismo, in «Il Sole 24 Ore», domenica 30 ottobre 2022, pag. VI.

[5] Ibid.

[6] P. Celan, Tenebrae, in Sprachgitter, Suhrkamp Velag, Frankfut 1959, pp. 27-28 (trad. mia)

[7] H. Kelsen, La dottrina pura del diritto (1934), tr. it. Einaudi, Torino 2021.

[8] Id., Teoria generale del diritto e dello Stato, Edizioni di Comunità, Roma 1963.

[9] P. Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna, Liguori, Napoli 1961.

[10] J. Maritain, Cristianesimo e democrazia (1943), tr. it. Passigli, Firenze 2007.

[11] Id., I diritti dell’uomo e la legge naturale (1942), tr. it. Vita e Pensiero, Milano 1991.

[12] P. Piovani, Principi di una filosofia della morale, Morano, Napoli 1973.

[13] E. Mounier, Manifesto al servizio del personalismo comunitari (1936); tr. it. Ecumenica, Bari 1975.

[14] G. Puppinck, Les droits de l’homme denaturèe, Edition du cerf, Paris 2018.

[15] Discorso del Papa Pio XII al secondo Congresso internazionale dell’Unione Europea dei federalisti, 11 novembre 1948, contenuto in Documenti Pontifici, 1948.

[16] P. Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna, cit.

[17] Ibid.

[18] G. Puppinck, Les droits de l’homme denaturèe, cit.

[19] Ibid.

[20] E. Lévinas, Humanisme de l’autre homme, Le Livre de Poche, Paris 1987.

[21] Ibid.

[22] R. Brague, Le Règne de l’homme. Genèse et échec du projet modern, Gallimard, Paris 2015.

[23] L. Althusser, La querelle de l’humanisme, in Ecrits philosophiques et politiques, Tome II, Paris 2005.

[24] G. Puppinck, Les droits de l’homme denaturèe, cit.

[25] R. Brague, Le règne de l’homme, cit.

[26] «Courrier International», 21 dicembre 2000.

[27] J. Truong, Totalement inhuman, Les Empecheurs des penser en ronde, Gallimard, Paris 2001.

[28] Pièces et main d’oeuvre, Manifeste des chimpanzés du futur. Contre le transhumanisme, 2017.

[29] J. Fletcher, The ethics of Genetic Control: Ending Reproduction Roulette, Prometheus Books, Buffalo 1988.

[30] J. Hughes, Le transhumanisme dèmocratique 2.0. https://iatranshumanisme.com/le-transhumanisme-democratique-2-0/

[31] Pièces et main d’oeuvre, Manifeste des chimpanzés du futur. Contre le transhumanisme, cit.

[32] M. Roco, W. Bainbridge, Converging Technologies for Improving Human Performance: Integrating From the Nanoscale, in «Journal of Nanoparticle Research», 4, 2002, pp. 281–295.

[33] L. Ferry, La révolution transhumaniste. Comment la technomédicine et l’uberisation du monde vont bouleverser nos vies, Plon, Paris 2016.

[34] In «Corriere della Sera», giovedì 25 maggio, p. 21.

[35] Ibid.

[36] H. Moravec, Une vie après la vie, Odile Jacob, Paris 1992.

[37] N. Wiener, Cybernetics or Control and Communication in the Animal and the machine, MIT Press 1961.

[38] Manifest des Mutants, http://www.lesmutants.com/mutationenglish.htm

[39] R. Kurzweil, La singolarità è vicina (2005); tr. it. Apogeo, Milano 2008.

[40] Ibid.

[41] Ibid.

[42] Ibid.

[43] Ibid.

[44] H. Kissinger D. Huttenlocher E. Schmidt, L’intelligenza artificiale e il nostro futuro (2021); tr. it. Mondadori, Milano 2023.

[45] In «Corriere della Sera», venerdì 6 maggio 2023, p.18.

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