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Perturbante nell’aria. Il dentro/fuori nella crisi ambientale

Autore


Mauro Van Aken

L’Università degli Studi di Milano Bicocca

Insegna Antropologia della Contemporaneità e Antropologia Economica e Sviluppo presso L’Università degli Studi di Milano Bicocca

Indice


1. Introduzione
2. La natura là fuori: una trincea naturalista
3. Vita dentro: autonoma, in-dipendente, impermeabile
4. Aria insensata e immunizzarsi dentro
5. Fuori e lassù: insignificanza atmosferica
6. Mondi atmosferici: accampati per aria
7. Conclusioni. Mescolanze e desideri di relazioni, tra dentro e fuori

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S&F_n. 25_2021

Abstract


Uncanny in the air. Indoor/outdoor in environmental crisis

The extraordinary social times imposed by the covid19 event has constituted the first traumatic and collective experience of the Anthropocene. Patterns of accelerated environmental changes reveal to be consequences of extractivism and environmental relation of the carbon economy. Indeed, interspecies passage are consequence not just of our agribusiness mode of production, but of our cosmology of naturalism, where “nature” has been positioned as external uncanny actor.
The short circuit of our symbolic structures in understanding the world has amplified with a polarization between inside/outside, at the heart of carbon economy and of fossil greenhouse effect, in a dramatic lack of metaphors of relatedness between human and nonhuman subjects.
The dualism of culture/nature has been amplified by an historical dissociation between earth and sky in our environmental imagination, where covid19 has emerged as terror in the air, in a dichotomy between indoor/outdoor. The symbolic structure of the air has been translated into an insignificant, detached and invisible field: social dynamics already at stake within social and cultural dynamics of climate changes as a social denial of significant social relations with what comes from the air or from “outside”. What prevails is a dispositive of immunization from outside or from the “foreign”, at stake in the last decades in defending ourselves from what merely becomes an outside menace for the community, out of patterns of relatedness. But cultures have always been atmospheric, since they have invested, accorded symbolic meanings, domesticated and inhabited and made sense to their exposure to atmosphere and to environmental web and entanglements.

  1. Introduzione

Il tempo d’eccezione nella vita sociale con l’evento Covid-19 è stato la prima esperienza traumatica e collettiva dell’Antropocene, non sul pianeta, ma qui “a casa nostra”: interconnessa alla crisi climatica e al cambiamento ambientale accelerato, conseguenza delle forme di estrattivismo e di relazione ambientale del capitalismo a base fossile, ha rivelato la centralità delle nostre relazioni ambientali e la crisi dei modelli con cui pensiamo “natura”. Le dinamiche virali sono non solo specchio e conseguenza delle nostre relazioni ambientali, ma hanno sempre accompagnato i cambiamenti climatici nella storia. Lo “state in casa” ha posto al centro, in modo angoscioso, la crisi ambientale, nuovi perturbanti attori ambientali, anche in forma rivelatrice. Emergono, nell’emergenza, le interazioni e interdipendenze con attori ambientali, anche micro, accanto a quelle macro-atmosferiche, come dinamiche ecologiche e assieme sociali e culturali della crisi climatica.

La presenza invisibile di questo nuovo virus colpisce l’immaginario occidentale non perché sia fenomeno inedito, dal momento che da decenni, tanto più nel sud-est asiatico, sono presenti allarmi e anche nuove forme di risposta a eventi virali da zoonosi e passaggio interspecie. Il trauma collettivo è causato dal fatto che, rispetto ad altri e recenti eventi epidemici o di crisi climatica, i mutamenti hanno toccato i centri delle reti globali della modernità occidentale: è l’eccezionalismo etnocentrico, anche in Europa, che ha proiettato le catastrofi umanitarie e i rischi climatici come qualcosa che avviene lontano nel tempo e nello spazio, nei paesi del “sud” o “poveri”, terremotando il nostro immaginario di sicurezza, autonomia e governo dalla “natura”. Abbiamo scoperto come tanto il passaggio di virus interspecie quanto le emissioni climalteranti alla base dei cambiamenti ambientali accelerati siano riflesso non solo del nostro modo di produzione, ma della nostra cosmologia naturalista, dove “natura” riemerge come un’invasione aliena.

 

  1. La natura là fuori: una trincea naturalista

Ciò ha riportato un’attenzione alle questioni ambientali e alle risposte sociali e politiche a questi “eventi estremi” o forme di cambiamento ambientale accelerato. E ciò che emerso è il cortocircuito delle nostre credenze e strutture simboliche nel comprendere il mondo, irrigidite in una polarizzazione tra dentro/fuori su cui si è costruita tanto la nostra cosmologia naturalista, quanto l’economia del carbonio[1]alla base dei gas climalteranti. L’evento Covid-19, come parte della crisi climatica, ha messo in luce la drammatica mancanza, e rimozione, di metafore di relazionalità tra soggetti umani e nonumani, un vuoto di strutture simboliche dove relazioni e interdipendenze sono nascoste, indicibili e riemergono come angoscia e invasione.

Le manifestazioni di “natura” oggi si ripresentano come qualcosa di perturbante. Non è ciò che si presenta in sé il problema, che siano eventi estremi, scenari di surriscaldamento, inquinamento, virus, ma la categoria “natura” con cui rendiamo incomprensibile le dinamiche in cui siamo immersi. Anzi, la natura si ripresenta come minacciosa, inedita, proprio perché non capiamo le dimensioni emotive e le relazioni in cui siamo coinvolti e interdipendenti. Questa “natura” non solo non è mai esistita nella maggior parte delle culture, ma non c’è neanche a casa nostra, ci rende incomprensibile, aliena e quindi minacciosa anche la nostra realtà. Come il confronto con la maggior parte delle culture hanno mostrato, nell’economia del carbonio abbiamo alterizzato i soggetti dell’ambiente a cui siamo interrelati, li abbiamo tradotti, come prodotto e costruzione culturale, in un grande Altro vicino a noi, abbiamo messo a distanza ciò che ci è familiare, distante dalle nostre relazioni sociali, campo di oggetti muto, distante, fuori dalle relazioni. Che oggi scalpitano, vibrano e pulsano.

L’antropologia ha mostrato come le culture siano caratterizzate da diversi modelli di ambiente intimamente connessi all’appartenenza culturale e alle idee di società. Ciò che noi distanziamo come campo separato come “natura” è denominato altrove attraverso termini parentali, politici o religiosi, dove si soggettivano, anche in modo selettivo e contestuale, gli attori ambientali. E questo non solo nelle cosmologie o costrutti simbolici, ma tanto più nei sistemi di gestione delle risorse, nelle relazioni e pratiche irrigue e nelle costruzioni del paesaggio, quindi nelle pratiche quotidiane del fare cibo o riprodurre la comunità[2]. Il “naturalismo” è quindi una nostra cosmologia dove la cultura è definita in opposizione ad un campo ben distante e oggettivo della natura: la società e i processi culturali non sono pensati in un ambiente ma “se ne liberano”, in una connotazione anche morale. La “natura” come campo separato dalla cultura è talmente alla base sia della nostra ontologia naturalistica[3] quanto del nostro assetto epistemologico (saperi dell’uomo, saperi della natura), che ci mancano le parole e metafore del mondo capaci di comprendere le relazioni ambientali in cui siamo sempre più interdipendenti. I cambiamenti climatici esaltano proprio questo “impensabile”[4], un’incapacità di simbolizzare una “natura” che si ripresenta come molteplicità di soggetti, limiti e di relazioni: qualcosa di familiare e prossimo si ripresenta in un perturbante perenne, straniero familiare. In sintesi, abbiamo costruito un’idea di umano come se fosse fuori, distante dall’ambiente e ci risvegliamo oggi da questo sogno tramutato in incubo.

Come ha scritto Descola, «il modo in cui l’Occidente moderno rappresenta la natura è la cosa meno condivisa al mondo. In molte regioni del pianeta, gli umani e i non umani non si sviluppano in mondi incommensurabili secondo principi distinti»[5]. L’autore[6] individua accanto al naturalismo, altre cosmologie di socializzazione dell’ambiente: il totemismo, l’animismo e l’analogismo. Ciò che è rilevante è come ognuna di queste grandi cosmologie siano sempre allo stesso tempo un modello di definizione dell’umano in relazione ad altre presenze ecologiche, quindi sono forme di “identificazione”, di appartenenza culturale, di un “noi” tutto sociale fatto di diversità e somiglianza, con “altri”. E quindi anche noi naturalisti ci “identifichiamo” proprio perché immaginiamo un campo opposto di natura, ma perdendo le metafore di relazioni e interdipendenze, perdendo soggetti “là fuori”.

Queste costruzioni culturali sono anche forme di “ethos”, cioè sistemi morali e valoriali dell’uomo, in relazione sempre ad altri esseri viventi, anche quando, come nel caso del naturalismo, rimuoviamo la agency di altri attori ambientali. La prevalenza del paradigma di natura oppositiva e a-relazionale comporta che tra umani e nonumani siano negati l’interfaccia, il contesto comune, la relazionalità.

Viveiros de Castro[7] ha mostrato come presso gli indios in Amazzonia, caratterizzati da religioni animiste, viene attribuita ai nonumani soggettività, una loro “prospettiva” sul mondo con quei caratteri con cui noi delineiamo l’idea di soggetto unicamente umano: intenzionalità conscia, agentività o azione sociale, avere un punto di vista che esprime una volontà nella relazione (di caccia, di venerazione, di predazione, o di addomesticamento). Conoscere il mondo è perciò soggettivarlo il più possibile, scoprire le intenzionalità e i punti di vista. Mentre per noi la natura è diventata un campo distinto e oggettivo, qui la natura è di partenza un “campo intersoggettivo”.

La natura, posta come Alterità nei nostri sistemi produttivi o di pensiero, si caratterizza quindi come un oggetto in gran parte passivo all'azione umana, “a disposizione dell’uomo” sia per l'esplorazione scientifica, per lo sfruttamento intensivo o per la conservazione ambientale in recinti verdi ben delimitati dove alla base vige un ideale prometeico dell'uomo all’interno dell’economia del carbonio. Esautorata la “natura” dalla società, da relazioni e limiti che questi pongono, l’uomo si ritrova unico solitario attore, incapace di riconoscere interdipendenze con “altri”. Ciò porta però a rimuovere la finitezza e i limiti dell'ambiente, elemento cruciale in molti saperi locali ed economici, senza che questi siano connessi a idee di “armonia” o “fusione con la natura”, concetti invece connessi proprio al nostro naturalismo e alle sue rimozioni. La natura come costruzione storica ha dato la possibilità di immaginare il mondo attraverso questo dualismo molto recente dove la natura può essere immaginata come magazzino (di estrazione), discarica (dove gettare ciò che “rifiutiamo”), o spettacolo edenico inalterato, dove comunque lo sguardo è sempre esterno, distante, incapace di leggere interdipendenze sempre più prossime. Il dispositivo naturalista si traduce oggi in una trappola di pensiero, incapace di leggere, o rimuovendo nello spavento, una molteplicità di agenti, tanto più nel nuovo regime climatico che mostra un pullulare di interconnessioni, che forza a riscoprirsi dentro, non fuori un ambiente attivo[8].

 

  1. Vita dentro: autonoma, in-dipendente, impermeabile

Le nozioni di dentro/fuori come campi autonomi e separati che caratterizzano il nostro naturalismo, sono prodotto storico dei processi di urbanizzazione e del cambiamento dell’immaginario ambientale.

La geografa Kaika ha mostrato il processo storico, che lei stessa definisce di “rimozione” dell’acqua, avvenuto nelle capitali europee ad inizio del XIX secolo, con la sua traduzione da fluido altamente simbolico in “roba tecnica” H20; il suo nascondimento in tubazioni, ha permesso di costruire l’idea stessa di città e di “casa moderna”, come autonoma, separata, impermeabile e indipendente dai processi ambientali:

la casa come la città moderna sembrano funzionare autonomamente e indipendentemente da processi sia naturali che sociali, perché il flusso degli elementi naturali, delle relazioni sociali e dei capitali rimane feticizzato (le relazioni sociali) o reso invisibile (le reti tecnologiche)[9].

L’acqua è separata dalla società, è a disposizione (rubinetto, fogne) in un doppio processo: si eludono i sistemi di produzione dell’acqua (cioè il sistema tecnico, amministrativo e politico) in quanto è pensata come “naturale”, quindi fuori dalle relazioni sociali, ma si rimuovono allo stesso tempo le relazioni ambientali, in quanto è “natura” di cui ci rimangono nascoste le reti e le scelte politiche.

Nella casa borghese la natura entra attraverso reti nascoste: ciò vale per tutte le reti ambientali dal cibo, all’elettricità, alle filiere di rifiuti. La casa viene a demarcare il confine della cultura, dove la natura potenzialmente pericolosa là fuori e la natura purificata-mercificata dentro sembra confermarsi, mantenendo la dicotomia tra natura e cultura come fondamento della sensatezza della casa. L’acqua desocializzata[10] ha permesso di costruire la città come “spazio avviluppato” nella modernità, autonomo e indipendente, che non contempla e non sa più pensare e conoscere le interdipendenze. Ma ciò ha rafforzato la sua dimensione perturbante: proprio nell’intimo del domestico può riemergere quel rimosso come alieno che corrompe o rende impossibile lo stesso senso di casa, dove «ciò che avrebbe dovuto rimanere nascosto e segreto, viene alla luce»[11]. E l’acqua riemerge nelle inondazioni o nel suo scarseggiare sempre più, nel timore della sua impurità, o solo quando si interrompe l’erogazione possiamo scoprire come siamo interrelati ad una rete socio-naturale, cioè a strette interdipendenze ambientali, non comprensibili nella dicotomia tra dentro/fuori, cultura/natura.

In questa cosmologia, la vita è rappresentata come autonoma, impermeabile, completa, senza relazioni, indipendente – e non permeabile, ambientata, incompleta, interdipendente, fragile, fatta di interconnessioni ambientali, un aspetto che il pensiero femminista ha mostrato centrale anche nell’immaginario del feto o della cellula come forme di vita autonoma e in-dipendente[12].

Ingold ha ben mostrato il “capovolgimento” delle concezioni moderne che si pensano come se fossero fuori dall’ambiente, o fuori dal pianeta stesso, dove «il mondo appare come un oggetto di contemplazione, distaccato dalla sfera dell’esperienza vissuta»[13]. L’ambiente è “globale” dal momento che la relazione si impone come visiva, spettacolo o mappatura dall’esterno. Il mondo non è più oggetto di esperienza, partecipazione, interdipendenza, ma di rappresentazione esterna, un mondo-a-parte piuttosto che un mondo in cui siamo immersi in processi di vita. In tante culture l’ambiente è compreso come “sferico”, gira attorno all’esperienza e prossimità, piuttosto che presentarsi come “globale”, troppo distante per essere parte dell’esperienza. La stessa idea di “globo” è quindi anche una costruzione storica, che nasce da una visione “esterna”, e quel distanziamento è alla base del poter legittimamente fondare l’idea di essere padroni del “sistema vivente” del mondo, e quindi non esserne più interdipendenti.

 

  1. Aria insensata e immunizzarsi dentro

L’evento Covid-19 nella vita sociale ha polarizzato la dicotomia tra dentro/fuori già presente nel nostro immaginario culturale, e frutto di una costruzione urbana di “natura” come campo separato, “fuori” da noi. E non abbiamo più parole, cornici, metafore per definire le nostre relazioni con nonumani, in una drammatica mancanza, e rimozione, di metafore di relazionalità.

Questo dualismo è stato inoltre amplificato da una storica dissociazione tra terra e cielo nel nostro immaginario ambientale: il Covid-19 si è presentato come “terrore nell’aria”, con la demonizzazione e il divieto dell’aria aperta inizialmente, poi sconfessata gradualmente individuando nel “chiuso” la fonte principale dei contagi. L’evento Covid-19 ha portato a risposte sociali e istituzionali basate spesso sul terrore, come paura non elaborata, con le conseguenze di politiche d’eccezione, della ricerca di capri espiatori, del fuori – bosco, prati, ambienti rurali – come patologico e da censurare, di dimensioni arbitrarie verso i più marginali. Il terrore alimentato dell’aperto è stato un sacrificio degli spazi aperti, delle dimensioni pubbliche, a favore di spazi privati, chiusi, del consumo e a pagamento come unici spazi “protetti” e securizzati.

La simbolica dell’aria e del cielo come campo insignificante, distaccato e invisibile, era però già presente e già studiata nelle dinamiche sociali e culturali dei cambiamenti climatici. L’aria è già diventata il locus del rischio anche perché ne abbiamo perso una semantica, un ordine significativo e simbolico di fronte a pericoli invisibili che arriva “dall’alto” nella crisi dei tempi atmosferici[14].

Questa illeggibilità nasce quindi non solo da eventi estremi ma innanzitutto dall’insignificanza ed estraneità di cui è connotato ciò che arriva da “fuori” e dall’aria, in quanto invisibile e illeggibile socialmente; dinamiche comprensibili e quantificabili con registri esperti e scientifici che rimangono però “lontani dall’esperienza”, lasciando forme di paura insignificante e si trasformano perciò in terrore.

Da tempo abbiamo creduto di immunizzarci dal “fuori”. Come ha mostrato Esposito, l’immunizzazione è un dispositivo centrale negli ultimi decenni nel difendersi da ciò che diventa minaccia esterna, che sconfina «sul crinale tra l’interno e l’esterno, il proprio e l’estraneo, l’individuale e il comune»[15], che siano stranieri, virus o difesa di privilegi giuridici. La comunità si viene a caratterizzare come protezione dalla contaminazione dal fuori, si pensa come corpo omogeneo, indipendente, senza relazioni con il fuori da cui si rende immune, separato: munus è «sgravato da debito, dispensato, chi non deve niente a nessuno e a niente»[16], diventa «il limite interno che taglia la comunità ripiegandola su di sé»[17]. Una dicotomia tra dentro e fuori nel pensare la comunità che assume un linguaggio bellico e di trincea, dove la vita della comunità è pensata come autonoma, ermetica, rimuovendo vulnerabilità e relazionalità con altri soggetti. La “comunità” assume rigidi confini dove le dimensioni di relazioni, culturale e ambientale sono censurate e rimosse.

Una prospettiva questa che spinge ad «immunizzarsi da tutto ciò che è fuori, che è oltre e altro»[18], dove l’accento e il significato di vita e di comunità son costruiti su un’idea di chiusura trincerata rispetto al fuori, all’estraneo e all’esterno, in una «volontà ostinata di restare intatti, integri, indenni»; qui si connettono «la xenofobia, la paura dell’estraneo e la exofobia, la paura abissale per tutto ciò che è esterno, che viene da fuori»[19]. In un immaginario di un’identità integra e autonoma rispetto ad un fuori da cui immunizzarsi, connessi all’idea di protezione e sicurezza. È proprio dove prevale l’immunità, viene meno la comunità[20], anzi si scambia l’immunità con la comunità, dove l’apertura al mondo si trasforma in minaccia o dovere di sicurezza.

 

  1. Fuori e lassù: insignificanza atmosferica

Le dinamiche di cambiamento ambientale accelerato provocati da gas climalteranti e l’irruzione del Covid-19 fanno emergere qualcosa di molto simile: la perdita di relazioni sociali significative con ciò che arriva da fuori e dal cielo. Ciò si è radicato su di una dissociazione storica, nei saperi esperti quanto nel senso comune, tra ciò che sta a terra – più serio e tangibile – e ciò che sta per aria – irrazionale, secolarizzato e distaccato –, una dissociazione particolare rispetto all’intimità e relazionalità che tante culture hanno mostrato vis-a-vis l’ambiente atmosferico da cui ogni comunità dipende e da cui è avvolta[21]. E al pari del clima, la pandemia si mostra come un “male comune”[22] in cui ci riscopriamo interconnessi a livello planetario, ma può diventare un bene comune nell’attivare processi di cambiamento tornando ad abitare e riconoscere le relazioni ambientali in cui siamo immersi.

Il tempo atmosferico è stato sempre “letto”, e l’etereo e processuale che lo contraddistingue è stato “tradotto” in forme simboliche, reti di significati in diverse culture e ambienti. Szerszynski[23] mostra molto bene come il tempo atmosferico sia costruito semioticamente attraverso una definizione tra il dentro/fuori dei sistemi viventi. I segni del tempo, storicamente connessi al divino o alle regolarità stagionali, si sono trasformate con la climatologia in un laboratorio di forze coerenti, misurabili. Questo cambiamento ha accompagnato il passaggio da una società basata sull’agricoltura e le sue dipendenze dal tempo outdoor, con saperi locali ed ermeneutiche religiose, all’ambientazione industriale connessa alla meteorologia come scienza delle misure e di standardizzazione, dove il tempo diventa una calcolabile coerenza di forze, dove «queste pratiche di intermediazione tecnica hanno portato il tempo indoor nel tentativo di controllare la sua sregolatezza materiale e semiotica»[24].

Ci confrontiamo quindi con radicali cambiamenti avendo perso la semantica della nostra intimità e relazionalità nell’ambiente atmosferico. Piuttosto, ci siamo abituati a un’idea di clima indoors, gestito, confortevole o regolare comfort zone, che amplifica però lo spaesamento.

Il secolo scorso è stato definito proprio il “secolo dell’aria” per le nuove forme di utilizzo tecnologico e di significazione in cui l’atmosfera si è tradotta nel pensiero occidentale: la conquista dell’atmosfera con l’aviazione – a scopo bellico nella II guerra mondiale e poi come spazio logistico –, la visione satellitare e la prima prospettiva della terra come pianeta dallo spazio, l’occupazione dell’etere, la colonizzazione del cosmo e l’invenzione dello spazio virtuale. Vegetti[25] mostra come nell’idea di spazio occidentale, la stessa politica sia passata da metafore del nomos della terra ad una conquista e secolarizzazione dell’aria, dove gli stessi poteri imperiali sono partiti dal controllo dell’aria all’interno di una nuova geografia globale. Se nell’antichità il cielo era abitato dalle divinità, dal sacro, ma anche da soggetti attivi delle forze atmosferiche da valorizzare e familiarizzare, con il suo utilizzo politico e strategico avviene una secolarizzazione radicale e un processo di svalutazione.

Anche Sloterdijk[26] caratterizza la centralità di pensare il mondo come “bolle” e “serre” nel 20° secolo proprio a partire dalla «grande mutazione dell’immagine del mondo del XIX e XX sec.»[27], a partire da alcuni cambiamenti tecnici ed esistenziali assieme. L’aria con la Prima guerra mondiale si fa il medium principale del conflitto e distruzione (la guerra chimica via aria) dove il cielo stesso diventa, tanto più con la bomba atomica, il “locus del rischio” e del pericolo e così rimarrà anche in periodo di pace. Nell’aria e dall’aria hanno luogo le catastrofi ecologiche e militari. Inoltre, le modalità di abitare vengono a costruirsi come «serrologia estesa», «spazi climatizzati dell’umano», dove case o centri commerciali si trasformano in serre culturali: abbiamo sempre più organizzato la nostra esistenza in un’autoproduzione di clima. Già dal secolo scorso perciò ci siamo trasformati in «designer del clima»: «Dimmi in che cosa sei immerso e ti dirò chi sei»[28] diventa la nuova connotazione dello spazio e dell’esistenza, dove l’atmosfera si traduce per la prima volta in un campo di gestione. Un “effetto serra” domestico che precede quello globale: il condizionamento energivoro diventa l’emanatore di comfort a qualsiasi latitudine con la costruzione di serre co-isolate, connessi a spazi di serra del consumo (necessariamente climatizzati) fondati sul potere liberato dall’energia fossile; la società dei consumi è intimamente connessa al «consumo di sfere»[29] isolate, fragili, co-isolate ma contigue, che dichiarano indipendenza dall’ambiente circostante.

La stessa nozione di bolla “educativa” è tornata in auge nelle scuole materne sotto Covid-19, ma perché già pensiamo la vita sociale ed ecologica come bolle protette ai pericoli del fuori/aria. O bolle di consumo, dove poter immaginare che la vita sia autonoma, impermeabile, isolata, individuale, e servirsi del mondo in abbondanza, in un consumo illimitato senza relazioni ambientali. Il dentro diventa spazio legittimo del consumo, o spazi protetti nell’unico rituale permesso del consumismo come soggettività fondante e sensata, dove ritualizziamo non solo identità sociali e di godimento delle merci, ma la nostra liberazione dall’ambiente: nelle forme di consumismo celebriamo una natura a disposizione, dove è possibile eludere interdipendenze ambientali, rilasci di gas climalteranti, e qualsiasi relazioni ambientale. Come scrive Latour, in questo nostro sogno della modernità nel realizzare un paradiso di merci in terra, «abbiamo immanentizzato il cielo, dove nessuna terra è più accessibile» perdendo di vista i limiti ecologici, perché nascosti, «per un overdose di trascendenza malriposta»[30].

 

  1. Mondi atmosferici: accampati per aria

Le culture son da sempre atmosferiche, cioè hanno sempre dovuto investire, simbolizzare, significare, addomesticare, abitare, ripararsi e dare senso alla propria “esposizione” al tempo atmosferico come relazione fondante, intima e soprattutto, molto dinamica rispetto ai cicli d’acqua, la stagionalità produttiva o i rischi metereologici; e oggi siamo ancor più atmosferici dal momento che concorriamo all’alterazione dei suoi cicli di carbonio e di dinamiche di surriscaldamento[31]. E quindi il tempo emerge, in questa nuova “emergenza”, come un’invasione aliena di qualcosa che invece è stato storicamente molto familiare. Se il “tempo” è un cambiamento radicale e inusitato, è una buona notizia riscoprire che le culture hanno sempre saputo, nelle forme più creative, “abitare” le imprevedibilità e relazioni all’ambiente atmosferico.

Se oggi viviamo una “ansia climatica” è anche perché l’atmosfera da sempre è abitata da significati emotivi, legati alle percezioni sociali di stabilità, coerenza esistenziale, protezione dal rischio, prosperità: le culture hanno spesso espresso l’interdipendenza – economica, ai cicli piovani, a rischi e risorse limitanti – del proprio coinvolgimento atmosferico a partire dalle dimensioni esperienziali e dai saperi ambientali proprio per addomesticare e rendere intimi e familiari i luoghi. Oggi viviamo un rapporto drammatizzato con i tempi, un aria-moto, come terremoto che arriva dal cielo, planetario e locale assieme, che destabilizza non solo case e comunità ma le stesse strutture di significato e visioni del futuro.

I significati culturali dell’aria son da sempre al centro di cosmologie e miti, proprio per mostrare il coinvolgimento emotivo, esistenziale, e assieme pragmatico e strategico, nell’atmosfera. In effetti, la dimensione più sensibile, sensoriale, più avvolgente, è alla base storicamente della fiducia nei luoghi, ma la abbiamo relegata al campo dell’irrazionale, dei saperi esperti, o della minaccia “impensabile”, proprio perché abbiamo perso una semantica del tempo.

Le culture sono sempre state “campate per aria”, nel senso più storico, generativo e positivo della metafora, ac-camparsi, proprio perché l’aria costituisce la dimensione principale di regolazione economica e il tempo atmosferico ha da sempre orientato il tempo cronologico conferendo un ordine in base a idee di stagioni, il più intenso campo di valorizzazione simbolica. Se le culture costruiscono la propria identità, idee di comunità e di costume in relazione ai “propri” flussi atmosferici, in una modalità di “appaesamento” nel tempo, un suo cambiamento è un inevitabile e radicale “spaesamento” dove viene a mancare la fiducia nei luoghi come riconoscimento esistenziale.

L’atmosfera ha da sempre caratterizzato l’emblema anche dell’invisibile, dell’immateriale, del transeunte, del cangiante, e quindi anche della potenza, della vulnerabilità a cui si sottostà. Oggi noi conferiamo ben altri condensati simbolici all’aria: le dimensioni della distanza, dell’incertezza, della volatilità, della contingenza, dell’irrazionalità. Nell’economia del carbonio abbiamo fondato le nostre metafore per abitare il mondo su immagini materiche, misurabili, conquistabili e sfruttabili, idee di terraferma dissociata però dal cielo reso indifferente e insignificante, dove la razionalità moderna, il logos cartesiano, hanno privilegiato “la roccia dura” del pensiero, in un primato ontologico della solidità e una svalutazione di ciò che è flusso e relazionalità ad altre forme di vita.

Ma le culture hanno costruito modelli di “abitare nell’atmosfera”[32] attraverso interazioni simboliche e pratiche, per stabilizzare la vita sociale non nel distacco e diniego, ma nel coinvolgimento attivo nel tempo atmosferico come fatto sociale. L’aria non è semplice sfera lassù, ma è sempre stato un medium in cui le culture sono co-involte, co-avvolte e interdipendenti.

Al contrario, le culture euro-americane e parte del pensiero scientifico ha pensato il mondo come terra separata dal cielo, biosfera dissociata dall’atmosfera, anche sulla base della tradizione cristiana che ha diviso queste due sfere. E così il nostro cielo si è svuotato – ma è molto “pieno” di CO2.

Non è facile fondare qualcosa di serio, come una transizione sociale ed ecologica, se pensiamo che il cielo sia staccato e “poco serio” o irrazionale, o se dimentichiamo di esserne interdipendenti.

 

  1. Conclusioni. Mescolanze e desideri di relazioni, tra dentro e fuori

Coccia mostra come la vita delle piante riveli le dimensioni tutte atmosferiche di abitare e stare nella mescolanza[33]. Sono le piante infatti a fare il mondo, anche in termini di maggior parte di massa tropica sul pianeta, veri mediatori evolutivi, dal momento che non solo stanno nell’ambiente atmosferico ma lo hanno coprodotto con la fotosintesi e la rivoluzione dell’ossigeno. La separatezza tra terra e cielo che abbiamo costruito come fatto culturale, elude con fatica la dinamica ecologica che le piante insegnano: costruiscono vita aderendo al mondo atmosferico, ancorate a terra, dove il mondo è proprio l’interdipendenza con le vite altrui attraverso l’atmosfera. L’invenzione della natura invece postula «un mondo fisso, stabile, solido, un mondo che sta di fronte ad un soggetto fisso, che si può parlare di oggetto»[34]. Le piante mostrano una «breccia aperta all’autoreferenzialità del vivente», dove «il cosmo non è fondamento delle cose, è la loro mescolanza, la loro respirazione»[35]. Rispetto al nostro pensarci come indoor co-isolati, «al contrario, le piante dimostrano che è la climatizzazione il più semplice atto di esistenza del vivente»[36]: il clima è fatto naturale e fondativo delle piante, maestre atmosferiche. Con il loro metabolismo ed evoluzione, le piante espongono la priorità del vivente – le interazioni – sull’ambiente.

E come Haraway ha mostrato, urge oggi ripensare il tempo/spazio in questa faglia epocale per «imparare a stare in contatto con il vivere e il morire in forma responsabile su una terra danneggiata e ferita»[37]. Ciò che Covid-19 e altri cambiamenti ambientali accelerati fanno emergere, anche in modo rivelatorio, è come le nozioni di «eccezionalismo umano e individualismo limitato diventano impensabili nelle scienze più avanzate: non è possibile pensare in loro presenza»[38], e come la nozione di umano solitario, unico attore isolato e fuori da relazioni con altri soggetti nonumani, renda impensabile ed eluda le relazioni che Covid-19 e crisi climatica esibiscono. Abbiamo bisogno di storie, metafore, modelli capaci di ospitare le relazioni con soggetti che abbiamo eluso nell’economia del carbonio, o come scrive Haraway, abbiamo «bisogno di storie e di teorie abbastanza grandi da contenere la complessità e mantenere gli argini e i confini aperti e affamati di nuove e vecchie connessioni capaci di sorprenderci»[39] basate sulla relazionalità del vivente, piuttosto che sulla sua elusione, in una riscoperta di un’interdipendenza e co-vulnerabilità.

E se Covid-19 si è mostrato un superglobalizzatore, accelerando processi sociali già in corso, la crisi climatica è anche segno di una mutazione ecologica ancor più duratura ed irreversibile, di una scala più ampia da cui uscire rispetto al Covid-19. La tendenza a costruire bolle di privilegio securizzate è già in corso, ma la pandemia ha anche mostrato come grandi cambiamenti e sospensioni siano possibili, e siano sempre meno desiderabili un’idea di produzione e “natura” come unico principio di relazione con il mondo, mentre desiderabile diventa la nostra relazionalità con altri attori e forze viventi.


[1] T. Mitchell, Carbon Democracy political power in the age of oil, Verso, London 2011.

[2] M. Van Aken, La diversità delle acque. Antropologia di un bene molto comune, Altravista, Lungavilla 2012.

[3] P. Descola, Diversità di natura, diversità di cultura, Raffaello Cortina, Milano 2021.

[4] A. Ghosh, La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile (2017), tr. it. Neri Pozza, Venezia 2017.

[5] In M. Sahlins, Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana, elèuthera, Milano 2010, p. 103.

[6] P. Descola, Diversità di natura, diversità di cultura, Raffaello Cortina, Milano 2021.

[7] E. Viveiros de Castro, Images of nature and society in Amazonian ethnology, in «Annual review of Anthropology», 25, 1996, pp. 179-200.

[8] B. Latour, La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, tr. it. Meltemi, Milano 2020.

[9] M. Kaika, City of flows. Modernities, nature and the city, Routledge, New York 2005, p. 30. La traduzione è nostra.

[10] M. Van Aken, op. cit.

[11] Ibid., p. 65.

[12] S. Franklin, C. Lury, J. Stacey, Global nature, global culture, Sage, London 2000.

[13] T. Ingold, The perception of the environment: essays on livelihood, dwelling and skill, Routledge, London 2000, p. 210.

[14] M. Serres, Tempo di crisi, Bollati Boringhieri, Torino 2010.

[15] R. Esposito, Immunitas, Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2020, p. 4.

[16] Ibid., p. 7.

[17] Ibid., p. 10.

[18] D. De Cesare, Virus sovrano. L’asfissia capitalistica, Bollati Boringhieri, Torino 2017, p. 23.

[19] Ibid., p. 23.

[20] Ibid., p. 37.

[21] M. Van Aken, Campati per aria, elèuthera, Milano 2020.

[22] U. Beck, La metamorfosi del mondo, Laterza, Torino 2017.

[23] B. Szerszynski, Reading and Writing the Weather Climate Technics and the Moment of Responsibility, in «Theory, Culture & Society», 27, 2010, pp. 9-30.

[24] Ibid., p. 121.

[25] M. Vegetti, L’invenzione del globo. Spazio, potere e comunicazione nell’epoca dell’aria, Einaudi, Torino 2017.

[26] P. Sloterdijk, Sfere III. Schiume, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2004.

[27] Ibid., p. 25.

[28] Ibid., p. 9.

[29] Ibid., p. 162.

[30] B. Latour, op. cit., p. 280.

[31] M. Van Aken, Campati per aria, cit.

[32] T. Ingold, Earth, Sky, Wind, and Weather, in «Journal of the Royal Anthropological Institute», 13, 2007, pp. 19-38.

[33] E. Coccia, La vita delle piante. Metafisica della mescolanza, il Mulino, Bologna 2018, p. 13.

[34] Ibid., p. 45.

[35] Ibid., p. 92.

[36] Ibid., p. 84.

[37] D. Haraway, Chtulucene, Sopravvivere su un pianeta infetto, tr. it. Nero, Roma 2019.

[38] Ibid., p. 51.

[39] Ibid., p. 146.

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