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SCIENZA E FILOSOFIA: PER UN LINGUAGGIO COMUNE NEL TERZO MILLENNIO

Autore


Gianluca Giannini - Lucio Pastore [Luca Lo Sapio]

Università degli Studi di Napoli Federico II

LUCIO PASTORE è Professore di Biochimica Clinica e Biologia Molecolare presso il Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e capogruppo presso CEINGE-Biotecnologie Avanzate. Direttore del Centro Interuniversitario di Studio della longevità, delle malattie genetiche e multifattoriali e dei loro modelli animali e cellulari dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e fondatore di Kimera, startup biotech GIANLUCA GIANNINI insegna Filosofia Morale e Filosofia della Storia presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Membro del Comitato Scientifico di «S&F_scienzaefilosofia.it» LUCA LO SAPIO è Docente a Contratto di Percezione ed Etica delle Biotecnologie industriali presso il corso di Laurea in Biotecnologie Biomolecolari e Industriali dell’Università di Napoli Federico II. Coordinatore di redazione di «S&F_scienzaefilosofia.it»

Indice


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S&F_n. 24_2020

Abstract


Science and philosophy: towards a common Language for the third Millennium

The foundation (or refoundation) of a flexible and multifunctional Lògos for shaping a common language should be the main object of an ambitious project for the third millennium. We urge to imagine a platform in which science and philosophy are co-implicated. We need to construe a heuristic scaffolding to think in new ways an allegiance in which science and philosophy can find a new intimacy. In this interview Lucio Pastore and Gianluca Giannini discuss some crucial themes on the frontier between philosophical investigation and scientific innovations (with particular regard to life sciences).

 


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* Ringraziamo il Prof. Luca Lo Sapio, Coordinatore di Redazione di «S&F_scienzaefilosofia.it», per aver organizzato questo confronto e aver ideato, formulato e sapientemente rielaborato le questioni attorno alle quali si è intessuto. A dimostrazione che nel dialogo, specie in queste nuove possibilità/tipologie di incontro-confronto, la presenza del terzo è e sarà decisivo. Sinceramente, Gianluca Giannini e Lucio Pastore.

 

S&F: È finanche scontato, da subito, sollecitarvi sulla macro-questione che costituisce l’oggetto principale del presente numero di «S&F_scienzaefilosofia.it». Ragion per cui, cosa chiede il filosofo allo scienziato, e cosa chiede lo scienziato al filosofo?

 

G.G.: Caro Lucio, se sei d’accordo, penso si debba partire proprio da alcune tracce contenute nell’incipit del dossier della Rivista. In particolar modo da questa constatazione: “scienza e filosofia, talvolta, si parlano a fatica”. Ho la sensazione che questo sia vero, specie negli ultimi decenni in cui, al di là di alcuni generosi tentativi, non è possibile non registrare una sorta di vicendevole sordità mossa da una certa qual contraccambiata diffidenza. Francamente non saprei dire se per superare reciproche resistenze si debba procedere in direzione di una nuova alleanza. Forse dipende dalla mia ritrosia nei confronti dei sodalizi, delle congregazioni e finanche delle confraternite, giacché mi sembrano solo artificiosi tentativi – vi è da dire, sovente riusciti – di metter su circoli esclusivi solo più allargati. Ma pur sempre selettivi ed elitari.

Quel che è certo e che è oramai sempre più evidente la necessità di fondare (o rifondare) un Lògos flessibile e polifunzionale che concretamente transiti «per la ridefinizione di paradigmi e criteri che strutturano la relazione e la differenza e per la determinazione di chi è tenuto a identificarli».

Non so se questo, in senso stretto, voglia dire che si pone una “nuova questione epistemologica”, la necessità dunque di fondare innovative regioni del sapere. So per certo che è necessario dichiararsi, cioè anzitutto circoscrivere ambiti e territori. Attenzione però, non per stabilire un proprium e indi, da ogni peculiare avamposto, dettagliare volta a volta per perimetrare dominî tendenzialmente aggreganti. Bensì per trovare quei fattori comuni e non comuni per fissare più che un “massimo comun divisore” un “integrato complessivo accumulatore” tematico-riflessivo da cui ogni volta ripartire.

E allora, al netto di tutti gli sciovinismi, settarismi e particolarismi che albergano nei cosiddetti saperi filosofici, direi che la filosofia si occupa anzitutto dell’umano. E la filosofia, che si occupa dell’umano, si occupa dell’umano perché implicando il “creare concetti sempre nuovi”, impone che essi vadano distesi, svolti, allargati, decifrati e infine capiti nella loro evoluzione e concrescenza storica in un continuo fluire, anche sempre da venire. E quindi senza soluzione di continuità.

Alla filosofia, quindi, l’onere di leggere, riconoscere e comprendere gli intricati inviluppi cui essa stessa ha, in certo qual modo, messo mano fabbricandoli. Cioè l’onere di leggere, riconoscere e comprendere il pluridirezionale e sempre edificantesi universo di azione e condotta dell’uomo.

Detto questo, è da rilevare anche che la filosofia come azione del pensare e nel pensare, come fucina e fabbrica del concetto non può rimanere irretita nei gangli di regioni (storiche) del sapere che, proprio perché storiche, appartengono solo ed esclusivamente al tempo loro. Certo – nella migliore delle ipotesi – persino in una logica accrescitivo-accumulativa, ma pur sempre soggette all’erosione della temporalità quale fluire causticamente distruttivo.

Ovviamente questo non vuol dire che la filosofia sia a-storica o a-temporale: è, anzi, cimento storico, ciò nonostante con il fardello di domande strutturanti quali, ad esempio, la richiesta di senso, nella consapevolezza non solo di un irrisolvibile gioco ma, anche e soprattutto, per dirla con Nietzsche, che trattasi sempre di vitali metafore e null’altro. Ciò a dire anche (e soprattutto forse) che le parziali, perché storiche e storicizzabili, risposte rimangono aperte, nell’apertura di un originario silente giacché, ove mai fosse, assolutamente inattingibile. Un originario perciò che, tutt’al più, è nella tensione persistentiva anche in direzione dell’ignoto minaccioso da parte di anthropos. I saperi regionali – sarebbe presunzione da stolti negarlo – aiutano, contribuiscono a non rendere a-storica la filosofia. Ma appunto contribuiscono: il filosofo non è uno scienziato, nemmeno dell’anima, non è il profeta o l’operatore di nessun dio.

Il filosofo, quindi, cerca risposte parziali a domande inesauribili. È colui al quale è toccato in sorte il non far cadere le domande nell’oblio, fosse pure l’oblio più agghiacciante e spaventoso, quello della verità raggiunta. Il filosofo scongiura l’oblio fabbricando concetti, foss’anche fabbricando di seconda mano senza brevetto, ovvero apprendendo il proprio tempo col pensiero, sebbene non nel senso logico-razionale e metafisico voluto da Hegel.

Dunque, concetti e categorie quale propellente dell’apertura che nel mistero della non-risposta ultima abitiamo. Qui, certamente, nella filosofia, con la filosofia non quale ricettario per un dolce e buon quotidiano, bensì sforzo e dolore di un ambire senza appagamento, quella che mi sembra essere una coordinata fondamentale della condizione umana stessa. In quest’ottica la filosofia non cura niente, neanche il tempo, non salva nessuno, al più – quando sa essere autenticamente se stessa – è tanto diagnosi, smania definitoria, classificatorio-storicizzante (nell’ottica però di un’autentica filosofia quale saldatura tra teoresi e storia delle idee), quanto teoresi che prova a prefigurare fondali e vedute alternative quali veri e propri protocolli di minoranza dacché di necessità in-attuali, cioè contro il contesto per un tempo a venire.

Di recente un fisico che apprezzo molto, tutt’altro che divulgatore a buon mercato di cose scientifiche, cioè Carlo Rovelli, ha con estrema chiarezza ribadito un punto nodale e che attiene più che il perimetro epistemologico in senso stretto, l’ambito delle scienze che sono tutte umane, fin troppo umane e che proprio per questo s’intrecciano, ancor prima d’ogni statuto conoscitivo, con la filosofia. «Questo è la scienza: un’esplorazione di nuovi modi per pensare il mondo. È la capacità che abbiamo di rimettere costantemente in discussione i nostri concetti. È la forza visionaria di un pensiero ribelle e critico capace di modificare le sue stesse basi concettuali, capace di ridisegnare il mondo da zero».

Da questo, cioè la necessità di immaginare, esplorare e realizzare nuovi modi di pensare il mondo, direi ancora, finanche l’urgenza che filosofia e scienze, come sempre, come da sempre almeno nella tradizione occidentale, riscoprano la fondamentale confidenza che in vista dell’“integrato complessivo accumulatore” di cui prima, procedendo oltre il mero dialogo, consenta di immetterci davvero su una lunghezza d’onda all’altezza di questi tempi. Tempi non solo non banali, ma latori e portatori di una complessità di motivi e sollecitazioni inedite di cui, in special guisa le scienze della vita, sono responsabili.

 

L.P.: Vedi Gianluca, è vero che dalla definizione del metodo scientifico in poi scienza e filosofia si sono allontanate e guardate con diffidenza. Il metodo scientifico condanna la speculazione eccessiva non suffragata dai dati che è spesso propria dell’evoluzione del pensiero filosofico. Il pensiero scientifico si basa sulla ricerca dell’evidenza per suffragare una determinata ipotesi che porterà poi a nuove domande.

La distanza tra scienza e filosofia non si può limitare a una semplice questione metodologica; è indubbio che entrambe le discipline hanno sviluppato linguaggi sempre più divergenti che aumentano la distanza e l’impossibilità di una comunicazione efficace. All’interno delle stesse discipline scientifiche, lo sviluppo di una comunicazione “gergale” porta a un impedimento di fenomeni di transdisciplinarietà limitando la possibilità di contaminazioni di saperi che sono spesso la base per le scoperte più rilevanti.

In questa risposta limiterei il campo alla ricerca in ambito biologico/biotecnologico.

La ricerca biologica si pone come obiettivo lo studio degli organismi viventi, tra cui l’uomo che è sicuramente argomento centrale; infatti spesso altri organismi sono utilizzati come modelli più semplici per affrontare questioni che sarebbero problematici nella nostra specie. I progressi negli ultimi centocinquant’anni sono stati tali da ridefinire molte delle nozioni precedenti, talvolta in maniera controintuitiva. Le conoscenze accumulate hanno portato allo sviluppo delle biotecnologie, un campo di ricerca in cui si utilizza la conoscenza dei sistemi biologici per applicazioni in diversi campi. La ricerca biotecnologica ha portato allo sviluppo della medicina rigenerativa, con la possibilità di ricostruire parti di un organismo.

La ricerca scientifica, e in particolar modo quella biologica e biotecnologica, ha sempre operato una suddivisione delle questioni in domande più piccole, aggredibili con i sistemi sperimentali a disposizione. Anche lo scienziato come il filosofo trova in questo metodo domande inesauribili: la risposta a una domanda ne genera una nuova e così via. Il risultato è spesso un insieme molto frammentato di risposte che necessitano una sistematizzazione; infatti, questa frammentazione della conoscenza rischia di far perdere di vista le questioni più generali ed è quindi necessaria un’opera fondamentale di strutturazione delle conoscenze acquisite.

Un nuovo ambito di collaborazione per una ritrovata intimità tra scienza e filosofia non può che basarsi sulla necessità delle discipline scientifiche di riunire i frammenti di conoscenza in teorie organiche per fare speculazioni e generare nuove domande di interesse più ampio. È evidente che per ritrovare intimità saranno necessari dei compromessi: uno dei più rilevanti riguarda lo sviluppo di un linguaggio comune come base di confronto che esca sia dai “gerghi” del linguaggio scientifico sia da alcune complessità del linguaggio filosofico. L’altro punto necessario riguarda i limiti della transdisciplinarietà e il significato dei risultati: con questo intendo che costruire una teoria in ambito biologico può costituire per il filosofo un risultato mentre per uno scienziato rappresenta un’ipotesi di partenza.

 

S&F: Mi sembra di capire, dunque, che la complessità dei risultati a cui oggi perviene la scienza ma anche la capacità di riflessione articolata della filosofia, nelle sue varie ramificazioni e specificazioni, suggeriscono di abbandonare la logica delle dicotomie che vede scienza e filosofia su due fronti distinti, in vista di uno sforzo di co-implicazione e assistenza reciproca. Soprattutto perché è in gioco oggi, forse, la questione più delicata, cioè della ridefinizione dell’umano. Si potrebbe dunque dire che la scienza può fornire tracce problematiche, additare sentieri da cui costruire il cimento del filosofo. Tuttavia, il movimento può essere pensato anche in altra direzione, con la filosofia ad anticipare e adombrare problemi, a immaginare soluzioni che la scienza, in un movimento appunto di co-implicazione reciproca, possa poi far suoi e rilanciare all’interno della propria piattaforma.

A partire da ciò, è indubbio che la biologia utilizzi categorie che impegnano, in uno sforzo costante, sia gli addetti ai lavori, cioè i biologi, sia i filosofi interessati alle scienze della vita e alle loro implicazioni etiche. Ora, nell’ambito della teoria evoluzionistica, il concetto di specie gioca un ruolo decisivo, eppure intorno a questa categoria, talvolta, sono sorte e tuttora sorgono delle dispute piuttosto accese. I cosiddetti transumanisti, ad esempio, vedono nell’impiego delle biotecnologie avanzate un possibile strumento per ottenere il salto di specie e consentire a Sapiens di raggiungere un nuovo stadio evolutivo. Come considerate questo tema? Ritenete che possa avere un’effettiva rilevanza sul piano scientifico e ne scorgete le implicazioni dal punto di vista etico?

 

L.P.: Dal punto di vista della biologia, il salto di specie presuppone delle differenze genetiche tali da rendere improduttiva la riproduzione tra le specie diverse (assenza di progenie fertile). La speciazione intesa in senso biologico in genere è dovuta all’adattamento di un organismo a un ambiente diverso tale da selezionare modifiche genetiche che producono variazioni fenotipiche importanti; altre definizioni di specie non trovano riscontro in ambito biologico. Le biotecnologie avanzate, e in grossa parte la medicina moderna, sicuramente modificano alcuni dei comportamenti biologici dell’uomo, a partire dal momento del parto per continuare con abitudini alimentari, trattamento di patologie ed invecchiamento. Tecnologie di gene editing possono essere utilizzate per alterare il corredo genetico se applicate alle cellule germinali: si tratta comunque di modifiche di per sé insufficienti a generare salti di specie ma che sicuramente hanno implicazioni dal punto di vista etico. Sicuramente al momento tali modifiche non sono consentite, ma un dibattito pubblico a tale proposito è necessario.

 

G.G.: Come ho accennato in apertura, è necessario ogni volta, ripartire dai concetti e da quello che, in ogni qui e ora stanno a significare. Da cui, che intendiamo al momento per specie? Di là da necessarie rifiniture contenutistiche, penso ci possiamo trovare d’accordo nell’assumere che specie sta anzitutto a dire “categoria di classificazione degli organismi”. Ora, poiché la sollecitazione procede in direzione di anthropos, la prima vera (e forse unica al momento) considerazione che mi viene da proporre in direzione della sua classificabilità è relativa al suo status. E lo status dell’uomo, così come d’ogni altro ente, organico e/o inorganico, non è certamente nello statico. Ma, direi di più: lo status dell’umano, oltre a non poter essere stabilizzato e reso stazionario, è semplicemente motilità e mutevolezza. E ciò può anche voler dire che l’uomo assurge egli stesso a oggetto, homo materia per ottenere, come recita la domanda, il salto di specie e consentirgli di raggiungere un nuovo stadio evolutivo. Non so se può piacere la formula homo materia: ci tengo però a precisare che per quanto sembri riecheggiare quella di Günther Anders, la propongo in maniera finanche più radicale, non quindi come esito dell’evoluzione e/o auto-evoluzione della tecnica dell’uomo, bensì come prerogativa acquisita del vivente Homo nell’estroflessione della sua specifica strategia persistentiva costantemente in fabbricazione. E giacché non è un dato originario, perché sotto questo profilo non conosco dati originari e/o naturali fissi e sempiterni ma, al massimo, transitori stadi/stati artificiosi in divenire, il fatto che anthropos in qualche modo si sia fatto eventualità di materia a se stesso, non lo considero in astratto come qualcosa da temere o, finanche, deplorare.

Ribadisco: questa è la condizione dell’uomo. Questa è condizione umana. Capisco, tuttavia, la ricaduta deflagrante e gli effetti che ingenerano terrore specie se veicolati da mosche cocchiere della propaganda d’accatto che ormai ci inonda. Perché in fondo abbiamo, una volta e per tutte, sollevato il velo e non possiamo più ipocritamente far finta di niente. Questa è la dichiarazione definitiva della morte dell’uomo così come abbiamo sempre preteso concettualmente e categoricamente impegnarlo e, dunque, conoscerlo. È la morte dell’uomo della metafisica. La morte dell’uomo di tutte le metafisiche.

Morte e pur tuttavia auto-svelamento di condizione di sé a sé da tempo annunciata: perché lungamente, dal punto di vista concettuale, preparata, costruita, fabbricata e confezionata. Nel solco della nostra tradizione il salto di specie è dunque anzitutto questo: il superamento definitivo della metafisica.

Ma, appunto, come dicevi, un dibattito pubblico a tale proposito è necessario, al netto delle modifiche attualmente possibili e consentite.

 

S&F: Non c’è dubbio che la categoria di specie sia una delle più sdrucciolevoli, come sottolineava l’evoluzionista Ernst Mayr nella sua monumentale Storia del pensiero biologico. Partendo dalla sua riflessione, Prof. Pastore, resta il fatto che conditio sine qua non per un qualsiasi ulteriore approfondimento critico di questa categoria debba passare per un riferimento ai processi di speciazione e ai meccanismi di riproduzione. Il salto di specie, dunque, di cui discutono i transumanisti, se esaminato all’interno di una cornice evoluzionistica, appare poco plausibile. Tuttavia, è possibile associare, come suggerito dal Prof. Giannini, la categoria di specie, in quanto tipologia classificatoria, alla categoria di status, e dunque alla specifica condizione di Sapiens nel suo peculiare sforzo persistentivo. Anche in quest’ottica, la tradizione occidentale ci ha consegnato l’immagine di Sapiens come animale mortale oltre che razionale. La mortalità e, come suo contraltare, l’aumento della longevità rappresentano una sfida per la condizione umana. Quali sono le linee che a vostro avviso la filosofia può fornire, in termini di contributo teorico, ai progetti della scienza (anti-aging science) e quali contributi la scienza può dare alla filosofia per la messa a tema di una categoria di mortalità che tenga conto anche degli avanzamenti scientifici?

 

L.P.: L’evento morte è contemplato come necessario nella specie Sapiens; tuttavia, in natura sono noti esempi di animali in cui la morte non è un evento necessario. È il caso, ad esempio, della Turritopsis nutricola. Questa medusa è in grado di ritornare allo stadio di polipo per poi successivamente svilupparsi nuovamente nello stadio di medusa. Non conosciamo in maniera dettagliata il meccanismo biologico che sottende questa peculiarità della Turritopsis né la sua applicabilità ad altri organismi. Nel caso del Sapiens, tuttavia, la ricerca sulla longevità in buona salute ha comunque accumulato un corpo di dati notevole che stanno definendo in maniera diversa l’approccio all’età avanzata; in aggiunta, la possibilità di generare organi artificiali e la conoscenza sempre maggiore del funzionamento del sistema nervoso centrale e dei suoi meccanismi richiederà una sempre maggiore ridefinizione del concetto di uomo inteso come animale biologico.

 

G.G.: Io non so se la filosofia debba fornire delle “linee” e se, soprattutto, debba tracciare confini e quant’altro e se possa, dopo tutto, avanzare la pretesa di contribuire ai progetti della scienza se ciò vuol dire muoversi nelle solite dicotomie, imbellettate di una qualche cosmesi eticistica, assecondare/ostacolare, collaborare/contrastare. In apertura credo di esser sin troppo prolisso in merito. L’uomo è sottoposto a una pressione decisiva che lo proietta verso il proprio definitivo trascendimento: come suggerito da Kurzweil ormai alcuni anni fa, come conseguenza delle rivoluzioni biotecnologiche e informatiche, si impone che l’uomo si proietti oltre se stesso, verso qualcosa d’altro. Una trasfigurazione complessiva che ingiunge di ripensare qual è la condizione umana passata e futura. E da questo, a parer mio, le domande fondamentali per tutti noi, filosofi e scienziati, sono le seguenti: qual è l’uomo che cade? Ovvero, quali paradigmi dell’umano, più o meno tradizionalmente declinabili, evaporano? E, soprattutto, da questa caduta si rialzerà un nuovo qualcuno o un qualcosa di assolutamente inedito?

Sicuramente le vecchie (e vetuste aggiungerei) categorie di naturale/artificiale che, come accennavo, sono temporalmente definibili e indi storicizzabili, non aiutano più in quegli specifici assetti categorico-concettuali.

Ho la sensazione che Jim Al-Khalili, un altro fisico teorico – che volete fare, i fisici mi sono simpatici alla pari dei biologi molecolari – abbia ragione nel rilevare che «le previsioni relative ai cambiamenti che interesseranno la nostra vita a seguito di avanzamenti scientifici e tecnologici si distribuiscono su quel vasto territorio che va dall’inevitabile al totalmente inatteso». E tuttavia, ed è questo che mi sembra essere il punctum quo nel quale ricollocare ogni ripartenza riflessiva, «il mondo cambia perché noi cambiamo. Come tutte le verità spesso trascurate, è una cosa che appare ovvia, una volta che la si dichiara apertamente. Il futuro sarà differente non tanto perché abbiamo inventato delle nuove tecnologie, quanto piuttosto perché abbiamo scelto quali inventare e quali usare – e, di conseguenza, quali saranno quelle a cui permetteremo di cambiarci».

 

S&F: È chiaro, da ciò che dite, che dietro molte delle questioni qui in gioco ci sia una profonda ridefinizione e ricalibratura concettuale di termini e categorie che apparivano, fino a qualche decennio fa, intangibili. Anche la morte, dominio intangibile par excellence, smette di essere tale e diventa oggetto di interventi tecnici più o meno complessi in cui è in gioco, come avete evidenziato, una “ridefinizione del concetto di uomo inteso come animale biologico”. Nello stesso alveo problematico troviamo anche le tecniche di genome editing, come la CRISPR/Cas 9 che sono, in tal senso, un volano di trasformazioni e ristrutturazioni complessive di sapiens e che ci consentono di abbattere barriere concettuali sulle quali la tradizione occidentale ha edificato le proprie piattaforme di comprensione dell’umano. Tali tecniche tuttavia potrebbero essere usate anche, in prospettiva, per una riprogrammazione di Sapiens, nei termini di una “eugenetica positiva”. Come si pongono rispetto a questo tema uno scienziato e un filosofo impegnati nella riflessione sulle nuove prospettive dell’umano e dell’umanesimo?

 

L.P.: La differenza tra “terapia genica” ed “eugenetica” in alcune situazioni può essere molto sottile, soprattutto quando parliamo di disabilità intellettuali. Delle riflessioni sugli interventi genetici sono assolutamente necessarie per valutare l’opportunità di alcuni interventi e definire i confini di ciò che è accettabile sotto il profilo etico.

 

G.G.: Sotto questo profilo e al netto della fantasiosa “morte della morte” che, almeno nel mio caso, prefigurerebbe gli estremi di una noia letale, la risposta mi sembra sin troppo scontata e non perché in qualche modo sia, di professione, un filosofo morale. Anzi, proprio per questo, so per certo che la filosofia della morale deve sempre lavorare al di qua del bene e del male, in un orizzonte solidamente avalutativo… L’indiscutibilità cui facevo cenno risiede nel fatto che se l’umano è considerato “fine”, sebbene non “fine in sé”, qualsiasi acquisizione tecnica debba essere accolta. Nell’assunzione dell’umano come fine e mai come mezzo risiede un discrimine invalicabile a mio avviso. Un discrimine invalicabile anche e soprattutto per i detrattori delle scienze coeve.

 

S&F: Tutto ciò contribuisce a farci comprendere che non si può parlare dell’umano come un fine in sé, un punto di arrivo. Piuttosto un traguardo che sposta la sua linea d’approdo sempre in avanti. Dalle vostre posizioni è abbastanza evidente la consapevolezza di questo percorso in cui artificiale e naturale perdono il proprio statuto di mistificante purezza e autoreferenzialità per mischiarsi in un’ottica di co-implicazione che mette in evidenza l’impossibilità fattuale e di principio di una loro separazione. In questa prospettiva, dunque, un settore d’indagine promettente nel campo delle biotecnologie avanzate è quello della biologia sintetica. La biologia sintetica si propone infatti non solo di riprogrammare micro-organismi per il perseguimento di scopi umani, ma anche di creare organismi sintetici dalle fondamenta. Questo ridisegna il ruolo degli scienziati e dà loro strumenti di intervento sulle basi della vita e comporta, di fatto, una ridefinizione della categoria stessa di vita (in una ormai sempre più difficile contrapposizione con ciò che è “artificiale”). Come vi ponete rispetto a questo tema? Ritenete che la ricerca biologica possa procedere autonomamente su questo sentiero o pensate che l’apporto della filosofia e della riflessione etica possa contribuire ad una migliore definizione di termini e problemi in gioco?

 

L.P.: Esiste un corredo genetico che porta il castoro a costruire dighe: Richard Dawkins lo definisce “il gene della diga” nel suo lavoro più importante Il gene egoista. Se costruire una diga dipende da un corredo biologico ed è definibile come parte della genetica del castoro, quindi naturale, possiamo considerare naturale un computer e, in ultima analisi, un organismo sintetico. In ultima analisi io non riesco a vedere in maniera netta la contrapposizione tra naturale e artificiale. Se poi prendiamo in esame la biologia e la biochimica che da sempre si propongono di eliminare i concetti di vitalismo e sottolineare come gli organismi viventi siano, in ultima analisi, un sistema estremamente complesso di reazioni chimiche che possiamo riprodurre in laboratorio, ci rendiamo conto che il confine tra naturale (uomo) e artificiale (reazione biochimica riprodotta in vitro) sia molto labile. La creazione di un organismo sintetico, sperimentalmente già avvenuta, annulla questo confine e, come tutte le scoperte scientifiche, apre a tantissime possibilità: innanzitutto all’idea di creare organismi sintetici più complessi. È evidente che la riproduzione sintetica di un sistema nervoso centrale richiede ancora moltissima conoscenza dal punto di vista biologico; in quest’ambito ci viene in aiuto l’ingegneria informatica con lo sviluppo dei sistemi di intelligenza artificiale che riescono a riprodurre, anche se in maniera ancora primitiva, la capacità di apprendere e agire sulla base dell’esperienza. Ragionando sullo sviluppo di organismi sintetici, dovremmo sentirci liberi di usare sistemi alternativi al nostro sistema nervoso centrale qualora ne riproducano in maniera efficace le funzioni. È ovvio che tante di queste possibilità debbano essere discusse e valutate sotto molti profili, tra cui la riflessione etica e filosofica.

 

G.G.: Chiedo scusa se sembro ripetermi: direi che la questione attiene la sempre più difficile contrapposizione con ciò che è artificiale e dunque, con ciò che è naturale, vista la nostra propensione di occidentali a procedere per diadi concettuali. Centro quindi, come al solito, su anthropos.

Sicuramente una prima e nodale traccia, al netto di ogni ricostruzione filosofico-antropologica o di storia della scienza intesa in senso lato che si potrebbero proporre, attiene le duplicazioni, e relativi artificî, cui l’uomo, quanto meno dall’evo moderno in poi se ci riferiamo alla nostra tradizione, ha messo mano, con progressione categorico-concettual-effettuale sempre più serrata, al fine di portarsi fuori dalla sua datità originaria. Un portarsi fuori che, si potrebbe dire, ha iniziato a segnare l’avviamento della radicale messa sotto esame di sé dell’uomo quale complesso e presunto composto trascendente e universale, un portarsi fuori per il tramite di simulazioni, sdoppiamenti, riproduzioni plurime, imitazioni, artificializzazioni e proliferazioni di sé sino al vero e proprio rifacimento di sé: l’artisticamente fabbricato di Dedalo quale tangibile capacità e abilità ultima bio-meccano-(auto)poietica.

E non v’è dubbio che, e qui le analisi di un autore dell’acume di Jean Baudrillard meriterebbero più attenzione, il dato scatenante questa sorta di effetto domino dal sapore e dai contenuti altamente erosivi, risieda nell’iniziale tentativo, con il Rinascimento e dal Rinascimento, di dar vita al falso del naturale, ovvero alla vera e propria falsificazione del naturale.

Ora quella che ho appena chiamato bio-meccano-(auto)-poiesi, sino alla situazione attuale, ha sempre più voluto dire – nella prassi anche – incarnazione dell’inorganico e artificializzazione dell’organico che, all’un tempo, dando forme e letteralmente vita a nuovi organici, fanno sì che l’intruso che noi sempre siamo stati per l’alterità biologica e non, continui a estrinsecarsi come esercizio cinetico e senza soluzione di continuità. Per cui l’intruso che siamo anche rispetto a noi stessi costantemente in fieri ci ha mutati e ci muta: quell’intruso che non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso. Conatus essendi di un’illimitatezza lievitante. Conatus che non è però evidentemente all’infinito ma, ogni volta, a tempo e spazio, che impatta nell’unico vero confine che, dalla raggiunta consapevolezza del suo strapotere espansivo, infine ha da tempo cercato: la medesimezza. Valicabile anch’esso, certo, ma nell’unica direzione contemplabile: l’auto-estinzione.

Ragion per cui se la stella polare continua a permanere quella della sopravvivenza quale effettiva e tangibile capacità e attitudine persistentiva, se si prova a gettare uno sguardo non distratto alla storia dell’evoluzione (quale semplicemente scala, gradiente di registrazione delle modificazioni e mutazioni) di questo-ente-qui quale plasticità massima e non da sempre e per sempre qual è l’uomo, viene quanto meno da costatare che i circa tremila anni di tradizione e concrescenza storico-cultural-biologica cui si conviene l’attributo occidentale, quello che s’accompagna al perimetro delle scienze coinvolte, non sono che un paragrafo di un divenire temporale decisamente più esteso. Fosse solo riferito al cosiddetto Sapiens.

Le scienze coeve, e cioè segnatamente biologia, genetica, ingegneria genetica, bio-meccanica, se avanzassero una pretesa di autonomia assoluta incorrerebbero in un ritornante errore metafisico.

Un errore che, invece, le scienze coeve stesse hanno denunciato in tutta la sua evidenza, restituendoci l’assoluta, e a tratti angosciante, variabilità dell’umano, la cui unica condizione possibile a venire è quella del suo esser senza alcuna radice ontologica stazionaria, cioè cristallizzata e/o cristallizabile una volta e per tutte. Ciò implica, allora, di considerare che la questione del chi e cosa dell’umano, del suo stesso posto nel mondo, non possa che essere sempre aperta, ridefinendosi e riproporzionandosi ogni volta che il contesto, che l’essere umano stesso modifica, lo richiede.

E rimarrebbe tale, cioè aperta e costantemente rimodulantesi, persino laddove la cibernetica e la bio-meccanica dovessero giungere a farci considerare non più così assurda, ma possibilità concreta, l’evenienza di rifondare l’agire, e quindi ripensare di nuovo l’umano, al cospetto di altre sue forme e immagini solo apparentemente inferiori, perché tecnicamente portato di una naturalizzazione dell’artificiale e di una artificializzazione del naturale.

In più a seguito degli straordinari progressi tecnologici degli ultimi anni, il rapporto tra digitale e umano è diventato sempre più imperante e le mie perplessità su come andrebbe gestita la transizione verso una sempre più pervasiva integrazione uomo-macchina nei termini tradizionali di naturale-artificiale si sono trasformate in certezze. Non c’è dubbio che dopo gli straordinari approdi in fatto di biologia molecolare e ingegneria genetica dei decenni scorsi l’Intelligenza Artificiale, o più precisamente l’apprendimento automatico (Machine Learning), costituisca ora l’autentica base di questo ulteriore e rapidissimo cambiamento. L’esposizione alle nuove forme di Intelligenza Artificiale, difatti, cambierà non solo l’esperienza degli individui nella loro interazione con oggetti e contesti sempre più tecnologici ma, anche e soprattutto, lo statuto stesso dell’umano, qualora ne ve ne sia stato e ve ne sia uno. Ragion per cui capisco bene e condivido profondamente la tua affermazione in virtù della quale “possiamo considerare naturale un computer e, in ultima analisi, un organismo sintetico”.

 

S&F: Dalle vostre ultime risposte sembra emergere con chiarezza in cosa consiste il procedere/incedere comune, nei termini di un integrato complessivo accumulatore di cui si diceva prima attraverso il quale scienza e filosofia possono realmente co-contribuire a una ridefinizione di schemi inveterati, in vista di un ripensamento complessivo dell’umano. In questa scia è possibile forse spostare un attimo il fuoco: si è parlato molto in questi mesi della possibilità di creare de novo agenti patogeni in laboratorio. Si tratta di un tema sul quale, forse, una buona strategia di divulgazione scientifica sarebbe oltremodo opportuna. Pensate che su temi così delicati e di rilevante impatto sociale, che possono essere preda di distorsioni e fraintendimenti esiziali, la scienza possa procedere in autonomia o sarebbe opportuna una collaborazione con i saperi umanistici e, in particolare, con l’etica?

 

L.P.: Creare agenti patogeni in laboratorio non è solo possibile, ma anche facile. Pertanto, è fondamentale valutare la problematica etica che è la sola barriera contro questa possibilità.

 

G.G.: Sarò altrettanto lapidario: sì, ma a patto che, come accennavo in precedenza, non si assuma l’etica e, indi, la filosofia della morale come la necessaria buona coscienza dispensatrice di bollini verdi e rossi rispetto a ciò che è lecito o illecito. La distinzione buono/cattivo – se proprio volessimo riferirci alla coppia distintiva che definisce il perimetro della sfera della morale – oltre a essere ogni volta storicamente determinata è, anche situazionale. Se devo pensare a un’etica, penso sempre a un’etica della situazione. E questo, spesso, diventa difficile da divulgare senza cedere alla tentazione delle trappole mediatiche delle solite e volgari accuse di relativismo etico.

 

L.P.: Condivido assolutamente il concetto di etica situazionale: qualsiasi scoperta scientifica, dall’energia atomica ai cibi geneticamente modificati, vivono delle valutazioni etiche condizionate da storia e geografia.

 

S&F: In definitiva, ritenete che l’apporto che le scienze biologiche forniscono alla riflessione filosofica e, di rimando, che la riflessione filosofica fornisce al progresso della ricerca in ambito biologico debba essere visto in termini di mero confronto o si può immaginare qualcosa di più strutturato, una vera e propria forma di interdipendenza?

 

L.P.: Da secoli per me è impossibile scindere qualsiasi forma di studio filosofico da una conoscenza scientifica dell’argomento: basti pensare che fisici teorici, come Stephen Hawking, hanno nel loro lavoro scientifico implicazioni filosofiche importantissime. Il medesimo discorso vale per la biologia e lo studio dell’uomo: è impossibile fare ragionamenti sulla natura umana senza conoscerla al meglio delle nostre possibilità. Allo stesso modo, la progettazione di sperimentazioni rilevanti sulla natura umano deve essere guidata da riflessioni filosofiche per un’interpretazione significativa dei risultati.

 

G.G.: Temo di aver risposto in maniera sin troppo ampia in apertura… Se c’è un rilievo vero e condivisibile mosso ai filosofi, almeno da Socrate in poi, è quello di parlare troppo… ah sì, e anche di sposare, spesso, Santippe storicamente riaggiornantesi…

 

S&F: “Fondare (o rifondare) un Lògos flessibile e polifunzionale” e strutturare “un linguaggio comune come base di confronto che esca sia dai gerghi del linguaggio scientifico sia da alcune complessità del linguaggio filosofico” costituiscono lo scaffolding euristico per l’edificazione di una nuova alleanza che non sia solo giustappositiva ma indichi una ritrovata e/o nuova intimità scientifico-filosofica. Se, infatti, i progressi registratisi, soprattutto nell’ambito delle scienze biologiche, sono stati tali “da ridefinire molte delle nozioni precedenti, talvolta in maniera controintuitiva” e la filosofia si propone di apprendere “il proprio tempo col pensiero”, è opportuno guardare a quest’ultima nei termini di un cimento, all’un tempo perenne (mosso dall’imperativo di “non far cadere le domande nell’oblio”) e situato, per la fabbricazione di nuove categorie funzionali alla perimetrazione degli scenari inediti che le scienze coeve stanno tracciando. Da questo punto di vista, forse, ancor più della ricerca di un massimo comune divisore, l’obiettivo da perseguire per questo terzo millennio è localizzabile in un “integrato complessivo accumulatore”, in cui il movimento scienza-filosofia si dispieghi attraverso il crescere e concrescere di problemi, plessi tematici, trasformazioni reciproche, ibridazioni.

Ringraziamo il Professor Giannini e il Professor Pastore per questo proficuo confronto, nell’attesa di appuntamenti futuri.

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