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UN PROFILO DI ALEXANDER LOWEN TRA PSICOTERAPIA E FILOSOFIA

Autore


Salvatore Giammusso

Università degli Studi di Napoli Federico II

insegna Storia della Filosofia all’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Il concetto del carattere e la bioenergetica di Lowen
  2. Traversare l’Acheronte  
  3. Filosofia e psicoterapia contro le illusioni della modernità

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S&F_n. 24_2020

Abstract


A profile of Alexander Lowen between psychotherapy and philosophy

This text is a revised version of a speech, given at a conference in Naples in memory of Alexander Lowen (1910-2008) on the tenth anniversary of his death. My remarks try to answer two simple questions, namely what philosophy learns from a system of psychology of personality and psychotherapy such as the one developed by Alexander Lowen, and – turning the perspective around – what a humanistic psychology such as bioenergetics can learn from philosophy. I argue that bioenergetics encourages philosophy to rediscover vitality as a fundamental value and to look with new eyes at themes of its most ancient tradition such as the ethics of pleasure and happiness, which are Lowenian topics par excellence. On the other side, philosophy warns psychologists and psychotherapists against reductionism. Psychology and psychotherapy can learn from philosophy and humanistic culture to proceed in an “integrative” rather than reductionist way, and to stay open to the variety of possible experiences.


Il presente testo è la versione rielaborata di un discorso svolto in occasione di un convegno in memoria di Alexander Lowen (1910-2008) nel decennale della sua scomparsa. La commemorazione è stata organizzata dalla Società Italiana di Analisi Bioenergetica a Napoli (3 Ottobre 2018) presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Ringrazio la dr.ssa Patrizia Moselli e il dr. Aristide Iniotakis per l’invito a tenere la relazione di apertura.

 

 

 

 

Vorrei formulare alcune riflessioni sul rapporto tra filosofia e psicoterapia a partire dalla bioenergetica. Cercherò di rispondere a due semplici domande, ossia cosa apprenda la filosofia da un sistema di psicologia della personalità e di psicoterapia come quello sviluppato da Alexander Lowen, e – rovesciando la prospettiva – cosa possa apprendere dalla filosofia una psicologia di orientamento umanistico come appunto la bioenergetica.

 

  1. Il concetto del carattere e la bioenergetica di Lowen

Comincio con il ricordare che Alexander Lowen è stato un allievo di Wilhelm Reich, uno tra i più geniali e discussi allievi di Freud. Il lignaggio ci aiuta a inquadrare il contributo di Lowen alla psicologia della personalità e alla psicoterapia contemporanee. La bioenergetica rappresenta una variante della psicologia psicoanalitica e si distingue per alcuni tratti specifici: essa dedica una particolare attenzione alle manifestazioni corporee e agli stili comunicativi, senza per questo trascurare l’interpretazione dei sogni e lo studio del carattere, cui offre contributi innovativi.

Il concetto del carattere – un antico tema di riflessione della filosofia a partire da Aristotele e Teofrasto – giunge a Lowen nella sua forma scientifica moderna attraverso la mediazione di una densa opera reichiana degli anni Trenta, l’Analisi del carattere. Quest’ultima, a sua volta, si basa sulla teoria freudiana degli stadi nello sviluppo psicoevolutivo, ma con alcune variazioni metodologiche. Reich sposta l’attenzione dal significato dei sintomi nevrotici (i lapsus e gli atti mancati, i finti svenimenti isterici e così via) al modo complessivo in cui l’energia del paziente si struttura. Il carattere viene a indicare così il modello ricorrente di interazione corporea con il mondo circostante e include, tra l’altro, il modo di parlare, di gesticolare, di muoversi e agire, di esprimere mimicamente le emozioni. Secondo Reich i tratti caratteriali formano una “corazza”, che rappresenta il conflitto tra l’impulso all’espansione orgastica e la contrazione ansiosa, quest’ultima derivante dall’introiezione di modelli autoritari e repressivi.

Per figurarsi il concetto di corazza, conviene pensare ai gladiatori romani. Le loro armature non erano casuali; ogni tipo di armatura consentiva movimenti determinati ed era pensato in funzione di un certo tipo di avversari. Per esempio, i provocatores erano armati in modo leggero e non potevano sostenere scontri con i gladiatori “pesanti”; in maniera analoga i secutores erano adatti a combattere solo con i retiarii, e così via. Per Reich la corazza caratteriale funziona allo stesso modo: incanala il movimento in una direzione specifica, e in modo inconscio precostituisce le esperienze possibili e gli incastri nevrotici. Il problema è che la corazza ha un “peso”: non si può sacrificare a Venere con indosso la corazza di Marte, non fosse altro perché il movimento risulterebbe goffo e limitato. Fuor di metafora, il sintomo nevrotico strutturato nei distretti corporei difende sì dai conflitti interni ed esterni, ma è antagonista del movimento orgastico. La corazza caratteriale e il principio di piacere risultano incompatibili perché seguono principii opposti: un movimento centripetale, dalla periferia al centro dell’organismo, nel caso della contrazione nevrotica, e un movimento di espansione, dal centro verso la periferia, nell’espansione orgastica. Reich individua quindi come fine della terapia l’allentamento dei blocchi e delle contratture che impediscono al paziente di raggiungere una piena scarica orgastica, per lui sempre segno di salute psicofisica.

Ora guardiamo a Lowen. Il suo approccio alla bioenergetica ha assonanze con la teoria reichiana, ma se ne discosta sotto molti aspetti di teoria e pratica clinica. Lowen ha offerto una più accurata diversificazione delle strutture caratteriali, collegandole, da un lato, alle fasi di sviluppo evolutivo del bambino e, dall’altro lato, ai paradigmi motivazionali così come sono stati formulati nelle esperienze più avanzate della psicologia e psicoterapia umanistica a partire dagli anni Sessanta. Penso in particolare alla piramide dei bisogni secondo il modello di Abraham Maslow e anche alla teoria gestaltica di Fritz Perls. Non posso entrare nei dettagli della teoria loweniana e mi limito a sottolineare un aspetto di metodo: la descrizione dei tipi di personalità (schizoidi, orali, rigidi ecc.) non cade nell’astrazione, e riconosce nel concetto del carattere uno strumento euristico per comprendere dinamicamente l’individualità nel suo slancio verso la vita e il piacere. Questo è il punto: il fine della terapia non può consistere “soltanto” nel vivere una soddisfacente vita sessuale; i fini terapeutici di cui Lowen parla sono pensati in modo ampio: una salute vibrante, una condizione di spirito che integri sensibilità e responsabilità, memoria e desiderio consapevole, cordialità e aggressività, quest’ultima concepita in senso positivo come capacità di “andare verso” (lat.: ad-gredior) e avvicinarsi all’oggetto del bisogno.

Una considerazione di tipo storico rende meglio comprensibile la teoria loweniana. Reich si era rivolto polemicamente contro la società autoritaria; ai suoi occhi la capacità di condurre una sana vita sessuale aveva un senso politico quale reazione virile e via di liberazione dalla mentalità piccolo-borghese e patriarcale. Una generazione analitica dopo, la situazione socioculturale è molto cambiata: a partire dagli anni Sessanta i rigidi modelli di comportamento sono stati messi in seria discussione, e oggi sono diffusi stili di vita edonistici che esaltano la ricerca individuale di piaceri effimeri. Al riguardo, il sociologo Christopher Lasch ha parlato del nostro tempo come era del narcisismo, fenomeno che non ha più le caratteristiche circoscritte che gli attribuiva Freud e riguarda nel loro complesso le società industriali avanzate a partire dagli anni Ottanta. Nell’era del narcisismo l’immaginario pubblico ha toni ipersessualizzati che invitano al piacere del consumo; vi prevale un tipo di comunicazione che non ha più caratteri repressivi, ma piuttosto seduttivi e manipolativi. In questo clima semi-onirico il discorso reichiano sembra essere meno incisivo: perlomeno nella pubblica comunicazione, non c’è più un apparato repressivo cui contrapporre la propria salute sessuale. Al limite, oggi è segno di benessere psicofisico il saper tenere i piedi per terra.

 

  1. Traversare l’Acheronte

Giusto in questo contesto il discorso loweniano dimostra la sua attualità. Lowen mette in guardia dalle illusioni narcisistiche e fa valere un più estensivo principio del piacere, inteso come vitalità e creatività. Un particolare significato assume qui il concetto del grounding, il processo di radicamento, che è anche una delle più importanti acquisizioni della sua metodologia terapeutica. Si tratta di imparare (o reimparare) a stare con i piedi per terra. Si può notare l’innovazione anche sotto l’aspetto clinico: Lowen ha messo il paziente in piedi, a contatto con il “qui e ora”, con la terra, con la dimensione adulta, con il principio di realtà, in opposizione alle illusioni e alle proiezioni narcisistiche. Nel suo approccio il lettino analitico conserva un ruolo rilevante, ma – rispetto alla psicoanalisi classica – è reso vibrante dagli esercizi sui distretti corporei. Il lavoro dinamico del corpo nel setting analitico è ora la via maestra all’inconscio. Seguendo il filo conduttore offerto dal respiro e dal movimento, il paziente “scende agli inferi” sotto la guida del terapeuta; e così egli attraversa metaforicamente l’Acheronte, che per gli antichi era il fiume del dolore. Anche per la bioenergetica vale dunque il verso di Virgilio tanto caro a Freud: Si flectere nequeo superos, Acheronta movebo (se non posso piegare gli dei superni, muoverò l’Acheronte). Ma in bioenergetica recuperare le parti scisse non è mai un’operazione intellettualistica. Tocca appunto tuffarsi e attraversare l’Acheronte. In fin dei conti, è questo il viaggio che si compie in terapia.

Va inquadrata in questo contesto quell’affermazione di Lowen secondo cui l’unica via di uscita è quella che va verso il basso («the only way out is the way down»). In breve, Lowen vuole dire che la via maestra per risolvere la conflittualità nevrotica sta nel recuperare le parti scisse, che occorre “rimembrare”; ma per intendere a pieno il senso della sua affermazione, occorre innanzitutto prestare attenzione ai riferimenti che l’espressione inglese sottende. Si tratta di una variazione di un principio che troviamo già attestato nel terzo atto del Macbeth di Shakespeare. Alla fine della quarta scena Macbeth dice:

A tal punto sono avanzato nel sangue

che, non dovessi continuare nel guado,

il tornare mi sarebbe tanto penoso

quanto il procedere

 

(“I am in blood

Stepped in so far that, should I wade no more,

Returning were as tedious as go o'er”.)

 

Il che fa pensare a quello che dice Virgilio per sostenere il cammino di Dante, inorridito dalle fiere che si trovano nella selva oscura:

“A te convien tenere altro vïaggio”,

rispuose, poi che lagrimar mi vide,

“se vuo’ campar d’esto loco selvaggio” (I, 91-93)

 

Il senso è chiaro. Se si vuole uscire da una situazione di orrore e insicurezza, occorre attraversarla. Anche Macbeth sta affondando in un fiume di sangue e di sofferenze tragiche; e comprende che ha raggiunto un punto di non ritorno, il punto in cui ormai i due percorsi si equivalgono: quello per compiere il cammino che ha intrapreso, e quello per tornare al punto di partenza. Tanto vale andare avanti, meglio investire le energie disponibili nel tentativo di attraversare il fiume piuttosto che tornare indietro o, peggio, rimanere nel guado. Ecco perché a partire da questo luogo letterario un modo di dire si è poi largamente diffuso nella poesia inglese moderna e anche nel linguaggio ordinario: l’unica via di uscita è la via che passa attraverso (“the only way out is through”).

Su questa falsariga anche il gestaltista Fritz Perls usava le stesse parole in un contesto psicoterapeutico. Per lui l’unica opzione sensata è completare il ciclo della Gestalt che va dal bisogno alla soddisfazione del bisogno; e questo perché le regressioni nevrotiche richiedono uno sforzo non inferiore a quello necessario per passare attraverso tutto il ciclo. Più sano allora ritornare con consapevolezza là dove esso si è interrotto e portarlo a compimento.

Lowen si appropria di questo principio interpretandolo in chiave bioenergetica. Per traversare l’Acheronte, la via da seguire è quella che va verso il basso e si immedesima nel sentire del corpo. Occorre riapprendere a essere corpo, e non solo a disporre del corpo come strumento per realizzare fini socialmente riconosciuti. In un certo senso, questo è un po’ come recuperare l’innocenza perduta, l’innocenza dei bambini, che sono pienamente presso il proprio sentire. Senonché, raggiungere da adulti questa condizione non è facile: è un passaggio che richiede coraggio e investimento energetico, e non è privo di difficoltà e rischi. Ma si compie quando si realizza che re-gredire, ritornare alla riva confortante e nota delle difese nevrotiche, richiede un costo troppo alto: la perdita della gioia e del piacere di vivere. Allora ci si lascia andare alla corrente e si traversa.

Ci si chiederà quale sia l’esito di questo percorso. Per rimanere nella metafora precedente, diremo che l’Acheronte è percorso da correnti profonde, per cui chi lo attraversa non può prevedere con esattezza dove approderà. In termini generali (e meno figurati), il lavoro nel setting bioenergetico si risolve in una maggiore integrazione della personalità. Dare voce alle emozioni congelate nel corpo produce anche un’espansione dello “spirito”, ossia un movimento di apertura del respiro che si accompagna a una diversa disponibilità alla dimensione transpersonale e al buon umore, simboleggiato dal riso. Esprit, insomma. Ma riappropriarsi della propria storia personale consente anche l’espansione verso l’esterno, verso la realtà sociale. L’immedesimarsi con il sentire corporeo, the way down, conduce a una “sana” aggressività: così l’individuo si libera dall’immobilismo nevrotico e va verso la soddisfazione dei bisogni. A provare una formula di insieme, potremmo dire che raggiungere l’altra riva dell’Acheronte significa maturare una nuova e più profonda consapevolezza della vita, che riguarda al tempo stesso emozioni e ruoli sociali, bisogni e aspirazioni.

 

  1. Filosofia e psicoterapia contro le illusioni della modernità

Se ora riflettiamo sugli odierni stili di vita narcisistici, comprendiamo subito che la via individuata da Lowen rappresenta un antidoto efficace contro l’illusione. Mentre i mezzi di comunicazione di massa diffondono modelli che procurano piaceri effimeri e superficiali, la bioenergetica insegna a stare con i piedi per terra, ossia a radicarsi fisicamente e mentalmente nel nutrimento e nel respiro (la madre e il padre archetipici) e a investire nella qualità di quello che viviamo e sperimentiamo. Se per Reich la potenza orgastica era il contrario della contrazione ansiosa, per Lowen il grounding diventa l’antagonista del narcisismo. In altri termini: più si è immedesimati nella realtà della vita e meno si è disponibili alle tentazioni narcisistiche. In questa prospettiva, la salute psicofisica è una funzione del contatto con il corpo.

Si consideri inoltre che l’opera loweniana va oltre il campo della psicologia e della psicoterapia, e coinvolge altri saperi e la stessa dinamica sociale. Non ho dubbi che scienze sociali come la pedagogia e la sociologia o anche discipline mediche come la pediatria e la psichiatria possano trarre insegnamenti dalla bioenergetica, a partire dal concetto del carattere, che in Lowen non è più solo qualcosa di naturale e immutabile, ma può evolvere in senso positivo come capacità di relazione e di autorelazione. Non mi sorprenderei affatto di trovare proposte pedagogiche e anche pratiche sociali basate sul riconoscimento dei bisogni/diritti secondo il modello bioenergetico. Ma queste sono considerazioni che andranno svolte in altra sede.

Mi limito per il momento al campo della filosofia, che senza dubbio può entrare in rapporto produttivo con le riflessioni e le esperienze maturate sul terreno della bioenergetica. Un rapporto indiretto già c’è, poiché è stata la filosofia a preparare il terreno per una rinnovata attenzione alla dimensione corporea della vita. Possiamo richiamarci alla fenomenologia, al vitalismo di Bergson e soprattutto a Nietzsche. È lui che già a fine Ottocento ha posto il problema di un rivolgimento della cultura occidentale tale da spostare il baricentro della vita dalle idee, dai valori e dalle norme astratte alla corporeità. «Vi è più ragione nel tuo corpo – leggiamo nello Zarathustra – che non nella tua migliore saggezza». Nietzsche allude a una filosofia della corporeità: in base a essa la saggezza e le altre virtù non derivano da principii atemporali, ma da un logos profondo, dalla intrinseca ragionevolezza del vissuto corporeo. Nietzsche oppone la corporeità all’astrattezza della cultura accademica e alle illusioni, incluso quelle religiose. Per lui occorre “essere fedeli alla terra” secondo lo spirito di Dioniso, il dio che sa danzare. Fatte le dovute distinzioni, anche Lowen crede senz’altro alla saggezza del corpo, e lavora perché il paziente la scopra (o la riscopra). Si noti che l’orientamento di Lowen verso una terapia della corporeità non è affatto isolato: in questo senso procedono la psicologia e la psicoterapia a indirizzo umanistico (così, tra le altre, la teoria della tendenza organismica in Carl Rogers e la teoria della Gestalt in Fritz Perls).

Ora, se è vero che la filosofia della corporeità a partire da Nietzsche ha aperto la strada per molti indirizzi della psicologia e psicoterapia contemporanea, è pur vero che essa rappresenta una componente minoritaria nel dibattito filosofico contemporaneo. In Europa oggi prevale la filosofia analitica di stampo anglosassone, che lavora soprattutto alla chiarificazione degli usi linguistici. (Per inciso, anche questo è di interesse per la psicoterapia, visto che in fin dei conti terapeuta e paziente sono due persone che in buona misura parlano tra di loro in una stanza). Senonché, terapie a mediazione corporea come la bioenergetica loweniana offrono sollecitazioni che possono ravvivare la fenomenologia della corporeità. Dalla bioenergetica si ricava l’idea secondo cui il corpo che si muove è il depositario di un sapere e di una saggezza più profonda di quella che può avere un corpo poco mobile. Il che poi è in piena sintonia con quello che dice Aristotele: ossia che il primo indizio della vita è il movimento.

Ne derivano una serie di compiti per la filosofia. In primo luogo, un compito critico: decostruire i saperi “oggettivi”, le rappresentazioni sociali e le comunicazioni di massa che ambiscono a esercitare dominio sui corpi e a negarne o controllarne i bisogni. Questo prelude a una nuova etica vitalistica, che insista su virtù specifiche: la generosità quale slancio di apertura verso la vita in genere, la veracità, l’autenticità, la congruenza. Sono tutte virtù che richiedono lo sforzo consapevole di andare oltre il “si dice”, “si pensa”, “si usa”, e insomma oltre le mezze verità di cui si alimenta la pubblica opinione, per approdare a quella verità che è sempre nuova poiché è guadagnata nel movimento verso i propri bisogni in un determinato contesto di vita. La bioenergetica spinge dunque la filosofia a riscoprire la vitalità come valore fondamentale e a guardare con nuovi occhi a temi della sua tradizione più antica come appunto l’etica del piacere e della felicità, che sono poi argomenti loweniani per eccellenza.

D'altra parte, anche la psicologia e la psicoterapia contemporanea (non solo quella bioenergetica) possono trarre vantaggio da un rapporto con la tradizione filosofica. Mi rendo conto che questo discorso va in controtendenza rispetto all’orientamento attuale degli psicologi, che cercano di essere assimilati il più possibile ai medici (anche sotto l’aspetto professionale e corporativo). Non va dimenticato, del resto, che oggi è possibile (e non solo in Italia) laurearsi in psicologia senza aver mai neanche sfogliato una pagina di un testo filosofico. E, tuttavia, resto convinto che per psicologi e psicoterapeuti il sapere umanistico sia indispensabile. Non ho dubbi che meditare sulle relazioni famigliari nelle tragedie (e nelle commedie) antiche e moderne sia molto più formativo che conoscere il meccanismo secondo cui funziona la pompa del sodio-potassio o etichettare i tratti di personalità secondo le astratte indicazioni del DSM-IV, V o il numero che poi sarà. Dalla filosofia e dalla tradizione umanistica in genere – prima di ogni opzione teoretica e metodologica – viene soprattutto l’ammonimento a considerare la complessità del reale, e a guardare con sospetto a tutte le forme di riduzionismo, non fosse altro per il fatto che queste posizioni tendono in maniera più o meno consapevole a ricondurre i diversi aspetti della vita e della cultura a una sola dimensione. I saperi psicologici e psicoterapeutici possono apprendere dalla filosofia e dalla cultura umanistica a procedere in modo “integrativo” più che riduzionistico, e a rimanere aperti alla varietà delle esperienze possibili.

Vorrei aggiungere che trovo più che giustificata l’esigenza di una psicologia a orientamento filosofico. Essa dovrebbe riallacciarsi alla fenomenologia, alla tradizione ermeneutica e all’antropologia novecentesca, e integrare i contributi delle psicologie e psicoterapie umanistiche, nonché delle psicoterapie a mediazione corporea come appunto la bioenergetica loweniana.

Nel campo della psicologia della personalità e dell’esperienza clinica un tale approccio – più che ricorrere al metodo esplicativo-causale – saprà rimanere aderente alla qualità dei vissuti così come vengono sperimentati nella vita quotidiana e nel processo terapeutico.

Credo che per questa via si possa ristabilire una circolarità virtuosa tra filosofia e saperi psicologici, aperta anche all’esperienza interculturale.

Mi avvio alla conclusione ricordando che Lowen ha offerto un contributo in questo senso, come si può vedere dal modo in cui ha affrontato il delicato tema della spiritualità. Nella sua concezione la spiritualità è connessa alla grazia e all’armonia del corpo che respira pienamente.

Questi sono concetti che la filosofia greca classica condivide con il pensiero orientale, specie con il taoismo, cui del resto Lowen si riallaccia in modo esplicito. Lowen ha richiamato l’attenzione sulla centralità del corpo nell’esperienza spirituale, cosa che il misticismo di ogni epoca, anche quello cristiano (basti pensare all’esicasmo ortodosso), ha sempre tenuto presente.

Penso che in questo campo la filosofia contemporanea potrà profittare dell’impulso che proviene dalla bioenergetica per svolgere una critica nei confronti dell’intellettualismo moderno.

Sappiamo infatti che a partire da Cartesio si è affermata una concezione dualistica che tratta l’essere umano come l’unione di due sostanze diverse, un pensiero che risiede in una coscienza extracorporea e una corporeità ridotta a materia estesa e retta da principii meccanici.

La concezione dualistica dell’essere umano ha dato forma alle scienze e alla cultura moderna, e ancora oggi produce una serie di conseguenze negative: tra le altre cose, fa ritenere “scientifici” solo quei saperi che trattino il corpo come una macchina; e fa ritenere “spirituali” solo pratiche che escludano la corporeità. La bioenergetica di Lowen propone invece un’idea diversa: è “spirituale” il corpo che sia libero da blocchi, che abbia cioè ripristinato l’armonia e l’eleganza naturale del movimento.

L’idea è produttiva: ci consente di riscoprire la tradizione europea prima dell’avvento dello spiritualismo religioso e dello scientismo moderno e, al tempo stesso, di gettare un ponte verso il pensiero e le arti dell’Estremo Oriente. A questo compito la teoria bioenergetica ha offerto un contributo che una psicologia filosofica dovrà riconoscere.

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