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Pensare di più e altrimenti Platone e Aristotele, attraverso Popper. Epistemologie contemporanee e classiche a confronto

Autore


Alessandro Madruzza - Filippo Righetti

Docenti nella Scuola Secondaria di Secondo Grado

Alessandro Madruzza è Dottore di Ricerca in Filosofia e Scienze Umane presso l’Università degli Studi di Perugia Filippo Righetti è Dottore di Ricerca in Filosofia presso l’Università La Sapienza di Roma

Indice


1.Introduzione

2. Essenzialismo e intuizione intellettuale

3. Un platone antiessenzialista?

4. Un segreto parmenidismo in Aristotele?

5. Considerazioni conclusive

 

 

 

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S&F_n. 22_2019

Abstract


Thinking more and otherwise about Plato and Aristotle. A comparison between classical and contemporary epistemology

The paper contains a particular historical and philosophical interpretation, the hermeneutic possibility of revising the traditional distinction between the founders of Western thought, Plato and Aristotle, which fits within a general thematic horizon, that of the importance of epistemology for knowing and action. The inspiration for this interpretation is offered by Popper, who thought of science as «open knowledge» useful to the «open societies», thus, by the support of the same Popperian reading of the two classical authors, as well as of a careful analysis of the Platonic and Aristotelian texts centered on the theme of the epistemology, it is possible to reinterpret the traditional way of understanding Plato and Aristotle: the first, paradoxically, would be anti-metaphysical, a friend of partial thinking, of contradiction, of the inexhaustibility of scientific research; the second on the contrary, would turn out to be rigid classifier, intuitionist, deductivist tout court.

 

 

 

Le cose che non provocano la riflessione sono quelle che non suscitano impressioni contraddittorie; queste invece io le considero stimolanti.

Platone, Repubblica, 524 D

 

  1. Introduzione

Facendo riferimento all’opera Conversazione a tavola di Coleridge, Borges scriveva:

Coleridge osserva che tutti gli uomini nascono aristotelici o platonici. Gli ultimi sentono che le classi, gli ordini e i generi sono realtà; i primi, che sono generalizzazioni; per questi, il linguaggio non è altro che un approssimativo giuoco di simboli; per quelli è la mappa dell’universo. Il platonico sa che l’universo è in qualche modo un cosmo, un ordine; tale ordine, per l’aristotelico, può essere un errore o una finzione della nostra conoscenza parziale. Attraverso le latitudini e le epoche, i due antagonisti immortali cambiano di lingua e di nome[1].

 

Dicotomie di questo tipo tra i due grandi filosofi dell’antichità percorrono tuttora in sordina la cultura occidentale, assumendo forme varie e diversificate, andando a caratterizzare la storia delle interpretazioni dell’opera di questi maestri. In ambito specificamente filosofico e storico-filosofico, l’opposizione netta tra i due sistemi di pensiero è stata molte volte approfondita e reinterpretata: si sono cercate così le trame segrete che uniscono tra loro questi giganti della filosofia, avvicinandoli l’uno all’altro, evidenziando in questa maniera il significato teoretico del rapporto biografico maestro-discepolo che legava Platone a Aristotele.

In epoca contemporanea, Karl R. Popper è stato tra coloro che hanno messo in questione l’immagine tradizionale e dicotomica, in ambito epistemico, di un Aristotele empirista e di un Platone metafisico: ne La società aperta e i suoi nemici, il filosofo austriaco ha sottolineato, soprattutto, quanto l’impostazione generale del pensiero aristotelico sia debitrice dell’essenzialismo del maestro. L’essenzialismo, per Popper, rappresenta infatti il minimo comun denominatore tra Platone e Aristotele (oltreché, in generale, tra Platone e gran parte dei filosofi della tradizione occidentale), fondandosi sul ruolo privilegiato che l’intuizione intellettuale riveste nel procedimento scientifico.

All’immagine di Platone e Aristotele come pensatori che hanno elaborato paradigmi scientifici opposti di interpretazione del reale, subentra in Popper, dunque, un deciso appiattimento dell’allievo sul maestro; un debito di Aristotele verso Platone così alto, circa la concezione epistemica del mondo, che le altre differenze teoretiche non potrebbero che passare in secondo piano.

È lecito chiedersi, tuttavia, se questo tipo di immagine renda giustizia davvero al rapporto tra i due grandi sistemi filosofici. A nostro avviso, infatti, esistono nei testi alcuni spunti, non solo per mettere in questione l’interpretazione popperiana, ma anche per rovesciare la visione tradizionale, così icasticamente presentata da Borges: non più, dunque, un Platone metafisico, il cui sapere scientifico segue una traiettoria verticistico-deduttiva, opposto a un Aristotele empirista, che parrebbe contenere e rivoluzionare, in senso orizzontale o induttivo, la traiettoria del sapere platonico; piuttosto, un Platone aperto alla sperimentazione, di contro a un Aristotele rigido classificatore[2].

Prima di poter entrare nel merito dell’analitica dei testi, giustificare l’esigenza di una riflessione sull’epistemologia in generale, chiamando in ballo l’impostazione popperiana, è utile a sua volta per evidenziare la certa rilevanza filosofica del ribaltamento del paradigma classico, a cui abbiamo fatto riferimento attraverso la citazione di Borges. È proprio grazie a Popper che l’epistemologia torna a essere una questione filosofica preminente nel ‘900, ma in un modo per l’appunto greco-classico, discordante rispetto alla corrente neopositivista in cui egli si colloca: riscoprendo la lezione socratica relativa all’utilità del sapere per l’agire, ereditata anche e soprattutto da Platone, per il filosofo austriaco la riflessione sulla scienza esprime il miglior esempio di condotta individuale; essa, dunque, non costituisce un tipo di sapere neutro o specialistico, ma l’elemento culturale discriminante per la formazione di una società, nello specifico, o democratica o totalitaria.

Sul tema dell’epistemologia Popper ha introdotto un paradigma tutt’ora insuperato a cui ci ispiriamo; tuttavia, esso sfrutta, come già detto, una certa interpretazione del pensiero platonico e aristotelico, il secondo appiattito sul primo; più precisamente, appiattito sul modo classico di intendere Platone. Ma cos’è dunque la scienza per Popper? Perché criticare il modello platonico-aristotelico? Poiché quest’ultimo si colloca come origine insuperata della mentalità metafisica occidentale; risalendo ai fondatori o sistematizzatori (Platone e Aristotele) della tradizione essenzialistica e dimostrandone le implicazioni negative dal punto di vista etico-politico, Popper ripensa la scienza in modo aperto, secondo le note categorie di falsificabilità e corroborazione, contenute in nuce nel passo seguente:

la scienza non deve essere un sistema di asserzioni certe, o stabilite una volta per tutte, e non […] un sistema che avanzi costantemente verso uno stato definitivo. La nostra scienza non è conoscenza (episteme): non può mai pretendere di aver raggiunto la verità, e neppure un sostituto della verità, come la probabilità […] Sebbene non possa mai raggiungere né la verità né la probabilità, lo sforzo per ottenere la conoscenza, e la ricerca della verità, sono ancora i motivi più forti della scoperta scientifica […] Come Bacone, potremmo descrivere la nostra scienza contemporanea […] come consistente di “anticipazioni, affrettate e premature e di pregiudizi”. Ma queste congetture meravigliosamente immaginative e ardite, o anticipazioni, sono controllate accuratamente e rigorosamente da controlli sistematici. Una volta avanzata, nessuna delle nostre “anticipazioni” viene sostenuta dogmaticamente. Il nostro metodo di ricerca non è quello che consiste nel difenderle, per provare quanta ragione avessimo. Al contrario, tentiamo di rovesciarle[3].

 

Contrariamente a quanto previsto dalla concezione classica, ma in maniera analoga all’interpretazione popperiana, rintracciare nell’epistemologia aristotelica un paradigma aperto come quello appena riportato non sarà del tutto possibile. Invece, in maniera opposta a quanto rilevato dallo stesso Popper, resta pur lecito rintracciare alcuni spunti di grande modernità nell’epistemologia platonica.

 

  1. Essenzialismo e intuizione intellettuale

Ne La società aperta e i suoi nemici, Popper formula questo netto giudizio:

Fu convinzione peculiare di Platone che l’essenza delle cose sensibili può essere trovata in altre e più reali cose – nei loro progenitori o Forme. Molti dei successivi essenzialisti metodologici, per esempio Aristotele, non seguirono affatto Platone in questo, ma tutti furono d’accordo con lui nell’indicare come compito della conoscenza pura quello di scoprire l’intima natura o forma o essenza delle cose. Tutti questi essenzialisti metodologici concordarono pure con Platone nel ritenere che queste essenze possono essere scoperte e individuate con l’ausilio dell’intuizione intellettuale […]. Essi tutti chiamarono “definizione” questa descrizione dell’essenza di una cosa[4].

 

L’analisi condotta sui testi spinge dunque Popper a accomunare, contro la tradizione, i due pensatori entro la categoria di «essenzialisti», la quale si basa sul ricorso all’intuizione intellettuale, quest’ultima intesa come criterio fondante la scienza che definisce l’essere; così sintetizza ulteriormente l’autore austriaco: «Come Platone, Aristotele credeva che noi otteniamo ogni conoscenza, in ultima analisi, da una apprensione intuitiva delle essenze delle cose. “Di ogni cosa infatti c’è scienza quando si conosce la pura essenza”, scrive Aristotele»[5]. Per quanto contrasti con la visione comunemente accettata di un Aristotele amico dell’esperienza, tale interpretazione trova sostegno nei testi[6]. Ad esempio, in un passo degli Analitici secondi, di non secondaria importanza, che non sembra lasciare adito a dubbi in quanto al suo carattere conclusivo e definitorio, lo Stagirita sostiene:

il principio della dimostrazione non è una dimostrazione: di conseguenza, neppure il principio della scienza risulterà una scienza. Ed allora, se oltre alla scienza non possediamo alcun altro genere di conoscenza verace, l’intuizione dovrà essere il principio della scienza. Così […] l’intuizione risulterà il principio del principio[7].

 

Più concorde con la visione tradizionale pare invece l’interpretazione popperiana in relazione a Platone: egli è considerato per l’appunto «amico delle idee», cioè difensore del carattere intuitivo della conoscenza[8]. Fra i molti testi che si potrebbero citare a sostegno di questa tesi, spicca il famoso passo del Fedro in cui si descrivono le anime che, al seguito del corteo degli dei, «procedono per l’ascesa fino a raggiungere la sommità della volta del cielo» e, là giunte, «contemplano le cose che stanno al di fuori del cielo», vale a dire «l’essere che realmente è, senza colore, privo di figura e non visibile, e che può essere contemplato solo dalla guida dell’anima, ossia dall’intelletto, e intorno a cui verte la conoscenza vera»[9]. Platone insiste sul carattere non sensibile di questa intuizione, poiché non si tratta, come egli ricorda, di un vedere empirico, ma rimanda evidentemente a quella che nella Repubblica è una forma di visione più autentica, dal punto di vista del sapere scientifico, vale a dire la conoscenza noetica, che corrisponde all’ultimo grado della ben nota linea della conoscenza[10]. È interessante la concezione epistemologica qui presentata da Platone, chiaramente esplicitata dall’uso dei lemmi τελευτή e τελευτώ: «Il ragionamento procede verso il termine e, senza far uso in nessun modo di alcuna cosa sensibile, ma solo delle Idee stesse con se stesse e per se stesse, termina nelle Idee»[11].

Nella nostra analisi partiremo proprio dal contestare il carattere monolitico di questa interpretazione, scoprendo un Platone singolarmente affine al Popper filosofo della scienza aperta, per cui lo stesso sapere scientifico pare non «terminare».

 

  1. Un Platone antiessenzialista?

L’opera di Platone non si presenta come un tutt’uno, ma come un intreccio di motivi teoretici molto complesso. Già i platonici dell’antichità avevano ben presente questo fatto, come dimostra il tentativo stesso dei commentatori (a partire dal I secolo a.C.) di fornire un’immagine che rendesse chiara come poliphonia quella che a un osservatore esterno poteva sembrare una semplice polidoxia[12]. Se è incontestabile l’esistenza di un Platone essenzialista che emerge, per esempio, in Fedro, 247 B-C e Repubblica, VI, 511 B-C, abbiamo, come vedremo, sufficienti evidenze testuali per ipotizzare l’esistenza di un Platone antiessenzialista, anzi paradossalmente vicino (mutatis mutandis) a quello spirito scientifico di cui invece sarebbe, per Popper, il nemico assoluto.

Questa alternativa immagine di Platone viene suggerita, ad esempio, da una lettura attenta di alcuni passi del Sofista. Quest’opera[13] risulta particolarmente interessante per la concezione ontologica in essa contenuta, la quale, a ben guardare, si interseca inevitabilmente, sia con la delineazione di un metodo scientifico, certamente definito «dialettico», in continuità con quanto sancito nelle opere precedenti, ma che con il concetto di intuizione intellettuale non ha più molto in comune; sia con il tema del non essere, che nel dialogo viene riabilitato in senso contrario al parmenidismo o, meglio ancora, al primo platonismo, e che dispiega notevoli implicazioni filosofiche. Del resto, è noto come gli interlocutori critici del protagonista, lo Straniero, siano proprio quegli «amici delle idee»[14], rappresentanti dell’intuizionismo cui facevamo riferimento in senso critico.

La certa concezione dell’essere può essere riassunta paradigmaticamente dalle parole dello Straniero:

Ebbene, dico che ciò che possiede anche una qualsiasi potenza, o che per natura sia predisposto a produrre un’altra cosa qualunque, o a subire anche una piccolissima azione da parte della cosa più insignificante, anche se soltanto per una volta, tutto ciò realmente è. Infatti, propongo una definizione: gli enti non sono altro che potenza (δύναμις)[15].

 

Lo Straniero, più avanti, continua su questa stessa linea, alludendo a una strana commistione tra pensare e agire, rispetto alla quale il non essere, così come viene reinterpretato da Platone, sembra svolgere, lo vedremo, una funzione essenziale in chiave trascendentale. Sembra profilarsi qui una differente concezione del conoscere o del pensare, la cui essenza pare consistere nell’operatività, proceduralità dello stesso, entrando inevitabilmente in conflitto con il tradizionale paradigma platonico del pensare come vedere, intuire. Mantenendo come idolo polemico gli «amici delle idee», lo Straniero afferma animatamente:

Se il conoscere sarà un fare, ne consegue necessariamente che ciò che viene conosciuto subisca. Allora, secondo questo ragionamento, l’essere, che è conosciuto dall’atto conoscitivo, in quanto conosciuto in tanto si muove, per il fatto di subire un’azione; cosa che noi affermiamo che non può avvenire di una realtà in quiete […]. E poi, per Zeus? Ci lasceremo forse persuadere che, davvero, movimento, vita, anima e intelligenza non sono presenti nell’ente nella sua totalità, e che esso non vive né pensa, ma, venerabile e santo, senza intelligenza sia immobile, fermo?[16]

 

Che cosa intende precisamente lo Straniero introducendo la suggestione del conoscere ovvero dell’agire? Lo si può comprendere se l’analisi rimonta al principio del dialogo. Come è noto, in quest’opera il centro della discussione è costituito dalla ricerca volta a «scoprire che cosa è mai il sofista»[17] e a tal fine lo Straniero eleate propone di utilizzare un metodo dialettico, introdotto per la prima volta da Platone nel Fedro (265 C-D), qui soltanto applicato; quel particolare metodo composto da un atto di «riconduzione (συναγωγή) dell’oggetto cercato a un più ampio punto di partenza, ossia a un altro oggetto di cui il primo certamente partecipa, per procedere solo successivamente alla sua progressiva delimitazione (διαίρεσις), fino a giungere a raccogliere quell’insieme di determinazioni verbali che ne costituiscono il λόγος definitorio»[18].

Nell’applicazione di questo metodo spicca il carattere ipotetico della ricerca, che si svolge per tentativi, quasi, parafrasando Popper, per «congetture e confutazioni». In effetti, equiparata da Platone a una sorta di caccia[19], la ricerca della definizione del sofista risulta effettivamente un’indagine laboriosa, sottintendendo elementi apparentemente atipici rispetto al conoscere platonico tradizionale, quali il procedere per tentativi (ben 7) e errori, la scelta di elementi utili e la convenzionalità di tali scelte. Tutti questi elementi svolgono un ruolo di supporto metodologico-trascendentale, certamente essenziale ai fini dell’ottenimento di una definizione scientifico-conclusiva; perciò, essi lasciano alla dialettica così intesa un carattere non del tutto terminale, come lo era per la teoria della linea in Repubblica, ma procedurale, se è vero che lo Straniero 1) insiste, fin dal principio del dialogo, sulla necessità dell’accordo convenzionale:

Per ora, infatti, tu ed io, per quanto riguarda il sofista abbiamo in comune soltanto il nome, mentre la cosa a cui diamo questo nome, forse, l’abbiamo in noi stessi, ciascuno per conto proprio. Bisogna, invece, su ogni argomento, mettersi d’accordo sulla cosa stessa con delle spiegazioni, piuttosto che sul nome stesso senza spiegazione[20].

 

In relazione a ciò, lo Straniero, rilevando l’emergere di un punto focale nell’intreccio delle divisioni, che risulta particolarmente rivelatore dell’autentica natura del sofista, 2) sottolinea l’esigenza della scelta condivisa:

E allora cerchiamo di non trovarci, per pigrizia, in questa situazione nella nostra ricerca, ma riprendiamo, innanzitutto, una sola definizione tra quelle espresse sul sofista. C’è una cosa, infatti, che mi è parsa indicarlo in maniera del tutto adeguata […] abbiamo detto, se non erro, che egli è esperto nell’arte di contraddire[21].

 

Soprattutto, è importante sottolineare il valore metodologico-trascendentale di ciò che è parziale, fallibile, a suo modo errato, poiché non conclusivo, se è vero che 3) quell’elemento su cui deve esservi comune accordo, e che quindi deve essere scelto, viene individuato in una definizione preparatoria e quindi erronea, la quinta, ma decisiva ai fini della formulazione della settima definizione, quest’ultima intesa davvero dallo straniero come il che cosa del sofista[22].

Proprio la questione ontologica relativa al «che cosa», tuttavia, fa problema nell’opera platonica analizzata, per due ragioni interconnesse: a) gli aspetti da noi rimarcati sollevano la questione classica del legame problematico tra esigenza linguistico-definitoria, in tal caso da parte della dialettica, e Essere; b) di conseguenza, alla luce della realtà del non essere (forse il concetto filosofico più scottante del dialogo), la realtà terminale del che cosa, pare derivare più da un “fare” scientifico intessuto, per l’appunto, di “non essere” (negazioni, contraddizioni, tentativi fallibili), che da un finale squadernarsi, quasi un Deus ex machina, dell’essere come esso realmente è. Nel metodo, tra l’altro, non solo il momento della διαίρεσις è ipotetico, ma sembra che anche il momento apparentemente intuitivo della συναγωγή non abbia il carattere di un atto immediato; non c’è, a tal proposito, alcuna evidenza testuale che rinvii alla celebre dottrina della reminiscenza o a altre formulazioni di tipo intuizionistico[23].

Senza accorgersene, dunque, Platone utilizza un metodo che fa della negazione un asse portante del ragionamento, estendendo implicitamente all’ambito epistemico la centralità ontologica del diverso e della contraddizione, che innegabilmente trova analogie affascinanti con la prospettiva popperiana. In altre parole, il metodo platonico sembra aprire la via a un pieno dispiegamento del potenziale euristico del ragionamento e della ricerca, che troverà realizzazione a partire dall’applicazione del metodo galileiano.

 

  1. Un segreto parmenidismo in Aristotele?

In seguito all’esaurirsi della spiritualità filosofico-scolastica, nella modernità, il pensiero scientifico si sviluppa alla luce del sacrificio della tradizione epistemologica aristotelica, aspramente criticata poiché riconosciuta intrinsecamente metafisica. In effetti, essendo caratterizzata da un approccio metodologico sillogistico-deduttivo, essa include un vizio metafisico, in cui è possibile individuare una segreta sfumatura parmenidea.

Perché intendiamo caratterizzare tale critica nei termini di parmenidismo? La questione riguarda di nuovo la commistione tra i due piani incontrata nel Sofista, linguistico-definitorio e ontologico. Se nel dialogo platonico, il problema del non essere non veniva trattato entro il contesto logico-linguistico, e è tale mancata trattazione a essere problematica e tuttavia il paradigma del fare scientifico, proprio nel Sofista, anche e soprattutto nella sua indubbia declinazione in ambito definitorio, apre a prospettive interessanti, quasi anticipatrici del senso epistemologico moderno – in Aristotele, invece, la questione è affrontata e risolta nettamente: il saldo legame che viene istituito dallo Stagirita tra le due dimensioni, tra essere e linguaggio, costituisce un problema assai più marcato, poiché tale impostazione, seppur non negando il divenire e la diversità come oggetto del linguaggio e della scienza, li subordina sempre a qualcosa di definitivo e unitario[24], mai veramente alternativo a ciò che è. Quest’ultimo è detto una volta per tutte quando viene detto dalla scienza: quasi alla maniera parmenidea, il non essere – ovvero la diversità da ciò che è, incluso ciò che diviene – non può e non deve sussistere nel discorso scientifico. Tuttavia, questo aspetto risulta incongruente con la prospettiva contemporanea di ricerca, intesa, sul modello popperiano, come progresso continuo che sfrutta proprio l’errore, la contraddizione; in altre parole, ciò che non è ancora o che deve ancora esser detto.

Dopo aver già indicato nel secondo paragrafo, attraverso il supporto di alcuni passi emblematici, l’esito intuizionistico della scienza aristotelica, cerchiamo di ricostruire brevemente i passaggi che conducono a questo impasse, sottolineando innanzitutto come sia determinante il rapporto tra Metafisica e Logica in Aristotele.

È parmenidea la nota premessa di Metafisica, «l’essere si dice in molteplici significati»[25]. Lo è in quanto è altrettanto parmenidea la giustificazione di tale assunto filosofico: l’essere detto non può esser detto altrimenti, contraddittoriamente da ciò che è, ma detto «sempre in riferimento a un’unità e a una realtà determinata»[26].

Infatti, la questione della verità dell’essere viene risolta da Aristotele mediante due principi esposti sempre in Metafisica, i quali chiariscono il senso per cui l’essere è certamente polisemico, ma analogo e non contraddittorio[27]: da una parte, sostiene il filosofo, la verità non può che stare nel pensiero o nel discorso, non nell’essere o nella cosa[28], poiché la questione stessa della verità emerge unicamente in ambito linguistico-proposizionale, non ancora in ambito concettuale o categoriale (generi, specie, sostanze prime o seconde non alludono al problema della verità).

Trasposto nell’ambito delle opere, il problema ontologico di Metafisica è dunque un problema anche logico, da rintracciare nell’Organon, tanto che Aristotele avverte gli studenti del Liceo a proposito di una necessaria preparazione logica, preliminare rispetto allo studio dell’ontologia[29]. In particolar modo, il problema della verità, oltre che sorgere nella sezione intitolata Sull’interpretazione, si intensifica per l’appunto negli Analitici primi e Analitici secondi, essendo implicata l’altra questione scottante, relativa al linguaggio specifico della scienza: il sillogismo di tipo deduttivo rappresenta appieno, secondo lo Stagirita, il linguaggio della stessa; ciò, tuttavia, testimonia un notevole freno per il progresso scientifico, a causa della portata filosofica del secondo criterio, che ora deve essere introdotto.

Il secondo principio aristotelico avverte infatti che la misura della verità resta l’essere o la cosa, non il pensiero o il discorso[30], poiché lo statuto ontologico dell’ente, se deve essere detto, non può essere, per l’appunto, definito diversamente da ciò che è già, in quanto il linguaggio dice univocamente l’esser già, non il non essere. Perciò, il problema, dall’Organon rimbalza di nuovo a Metafisica: secondo la nota teoria ontologica della sostanza come forma o atto, l’Essere precede o sta prima della Potenza; l’essere è anche prima del linguaggio che lo dice e ne costituisce la norma immutabile. Da questo punto di vista, si può dire che il rapporto tra linguaggio e essere è lo stesso che intercorre tra potenza e atto. Il linguaggio è dunque un qualcosa di potenziale che diviene attuale grazie all’essere che esso raffigura. In altre parole, il pensiero che dovrebbe fare/costituire l’essere come vero, non è in Aristotele che una potenza, orientata dall’esser già della forma o della sostanza, ossia dall’essere così e non altrimenti dell’essere stesso.

L’essere aristotelico, in rapporto alla prospettiva incontrata nel Sofista, rappresenta la causa del fare; non è invece il «fare» la causa (logico-definitoria) dell’essere[31]. Perciò, pur non essendo esclusa da Aristotele la realtà del divenire, quest’ultima non risulta in alcun modo assimilabile alla dynamis introdotta dallo Straniero, poiché, anche se viene detta «potenza», viene concepita come totalmente subordinata alla stabilità dell’essere (e successiva a esso in senso ontologico, per quanto non sempre cronologico). In qualche modo, il divenire aristotelico rischia di essere tutto ciò che è (e che dunque può e deve essere detto com’è) e che non può essere altrimenti da ciò che è già (e da come è stato detto scientificamente).

Non è un caso se la scienza che dice l’essere non possa quindi costituirsi come una vera e propria dimensione autonoma: appiattita su una sudditanza rispetto alla pretesa di un’intuizione immediata dell’essere, la scienza aristotelica non mette a frutto, in maniera piena, il potenziale euristico del ragionamento e della ricerca (anche empirica); la scienza aristotelica sottopone il particolare all’universale[32], dispiegandosi secondo uno schema logico deduttivistico, a sua volta basato sulla pretesa conoscenza dei principi primi universali. Come anticipato, ciò obbliga Aristotele a una soluzione problematica, di tipo intuizionistico: se il sillogismo scientifico o dimostrativo consiste in «premesse vere, prime, immediate, più note della conclusione, anteriori a essa e causa di essa»[33], come ottenere tali assiomi se non per via intuitiva, essendo l’induzione e la deduzione incapaci di tale risultato? La prima, infatti, può realizzare un universale per lo più; la seconda, innescare, al fine di trovare un fondamento, un infinito processo di ricerca di proposizioni sempre più generali.

Per riassumere attraverso le parole emblematiche di Aristotele, il filosofo scienziato non è certo il dialettico platonico incontrato nel Sofista, che tenta di costruire delle definizioni plausibili dell’essere, che si lascia istruire dai propri errori, ma è colui che, paradossalmente secondo una traiettoria tradizionalmente platonico-verticistica, conosce già (intuisce) i principi primi e da essi tutto desume, senza mai cadere in errore:

Colui che, in qualsiasi genere di cose, possiede la conoscenza più elevata, deve essere in grado di dire quali sono i principi più sicuri dell’oggetto di cui fa indagine; di conseguenza, anche colui che possiede la conoscenza degli esseri in quanto esseri, deve poter dire quali sono i principi più sicuri di tutti gli esseri. Costui è il filosofo. E il principio più sicuro di tutti è quello intorno al quale è impossibile cadere in errore […]. Questo principio deve essere il principio più noto (infatti, tutti cadono in errore circa le cose che non sono note) e deve essere un principio non ipotetico. Infatti quel principio che di necessità deve possedere colui che voglia conoscere qualsivoglia cosa non può essere una pura ipotesi, e ciò che necessariamente deve conoscere chi voglia conoscere qualsivoglia cosa deve già essere posseduto prima che apprenda qualsiasi cosa[34].

 

Il passo scelto è molto significativo poiché illustra come il filosofo scienziato, nell’apprendere qualsivoglia cosa, non può lasciarsi istruire dall’errore. Ad esempio, non può considerare come rilevante quell’elemento particolare che nega l’universale: se quest’ultimo rappresenta il fondamento scientifico di ciò che è, imparare da ciò che non si conosce risulta un atteggiamento infondato. Dunque, l’approccio metodologico-linguistico, scelto da Aristotele per il dominio scientifico, pare limitare drasticamente l’atteggiamento antiplatonico (in senso tradizionale) dello stesso aristotelismo, il quale vorrebbe intendere come sostanze metafisiche, con buona approssimazione, le sole cose sensibili.

Ritornando infine all’Organon, il limite denunciato risulta maggiormente evidente, se traduciamo in chiave ontologico-metafisica lo schema logico, che i medievali chiamarono quadrato degli opposti, rintracciabile in Sull’interpretazione, in particolar modo se si esamina da vicino la dinamica significativa che coinvolge le proposizioni universali affermative – a questo punto è chiaro che esse corrispondono alle leggi scientifiche – particolari affermative e particolari negative, le quali rispecchiano, sul piano linguistico, la costatazione empirica e particolare dell’Essere.

La traiettoria che non costituisce alcun problema e da cui il filosofo scienziato aristotelico si lascerebbe istruire è quella sub-alterna: parafrasando i famosi esempi di Popper, se «tutti i cigni sono bianchi», allora «alcuni cigni sono bianchi»; a ben guardare, è proprio tale linearità logica che costituisce il tratto antimoderno dell’epistemologia aristotelica: oltre al problema della mancata fondatezza dei principi universali della scienza, sussiste il rapporto problematico tra universale affermativa e particolare negativa, il quale, secondo logica, risulta sempre contraddittorio, ma che, proprio a causa di come è strutturato il metodo scientifico aristotelico, risulta essere sempre contraddittorio anche per il pensiero scientifico; di rimando, anche per la concezione metafisico-ontologica del mondo.

Pare dunque che lo scienziato aristotelico guardi all’eccezione, che può essere riscontrata empiricamente, senza alcun interesse, ma solo come contraddizione di ciò che è universalmente noto e da cui tutto è possibile desumere. Così intesa, quali possibilità ha la scienza di progredire?

 

  1. Considerazioni conclusive

Gadamer, come è noto, sostiene che il nostro rapporto con il passato è assimilabile a un dialogo che si configura come una vera e propria fusione di orizzonti tra i testi e la nostra sensibilità di lettori attuali. Potenzialità sempre nuove di opere lette oramai da generazioni di interpreti possono emergere in un incontro fecondo, in cui ha il suo peso la storia degli effetti (e dunque delle letture e riletture rimaste impresse nella tradizione). Incontrare Platone e Aristotele, rileggendoli alla luce di Popper e oltre Popper, ci ha consentito, parafrasando l’altro grande ermeneuta Ricœur, di pensare di più e altrimenti questi importanti autori. Ne è emerso un quadro rovesciato rispetto alla tradizionale visione di un Platone verticista e fissista, e di un Aristotele paladino dell’esperienza; non solo, è stato anche possibile rintracciare spunti che mettono in questione la rilettura popperiana, forse troppo semplicistica, dei due maestri della filosofia antica come intuizionisti tout court.

Mentre la rilettura di Aristotele ci ha permesso di confermare il suo fondamentale intuizionismo, che preclude qualsiasi possibilità euristica all’eccezione, al diverso, al divenire, alcuni passaggi delle opere platoniche hanno consentito di evidenziare una paradossale vicinanza alle posizioni epistemologiche popperiane (e quindi contemporanee): nel Sofista, per quanto Platone non abbia seguito questa strada fino in fondo, il diverso e la contraddizione diventano l’asse portante del ragionamento definitorio, anticipando quell’autonomia del ragionamento scientifico che procede per ipotesi, errori e confutazioni, senza pretendere di vedersi squadernare la definitività dell’essere in una intuizione conclusiva.

Uno sguardo più attento all’impianto ontologico (o, piuttosto, henologico) del pensiero platonico dovrebbe farci avvertiti di queste segrete assonanze. Sembra infatti che sullo sfondo delle complesse e spesso ambigue dottrine del Sofista, si possa trovare una concezione del fondamento, mai esplicitamente espressa da Platone, ma implicita in tutte le sue opere: alludiamo alle dottrine non scritte, discusse dallo stesso Aristotele in Metafisica e oggetto di tanti studi nel Novecento[35]. Seppur di difficile decifrazione, tale sfondo teoretico potrebbe essere vicino (assai più dell’impianto aristotelico) alla non definitività della scienza contemporanea: la stessa trascendenza del fondamento, che è «al di sopra dell’essere»[36], che chiama a sé il pensiero tenendolo contemporaneamente a distanza, può garantire la non definitività della costruzione del sapere scientifico, rappresentando un esito estremamente vicino alla sensibilità contemporanea.

 


[1] G.L. Borges, Altre inquisizioni (1960), in Id., Tutte le opere, a cura di D. Porzio, tr. it. Mondadori, Milano 1984, vol. I, p. 1018.

[2] Premettiamo che in questa sede si tratterà soltanto di fornire alcune provocazioni a partire dai testi, senza alcuna pretesa di completezza e senza la possibilità di discutere la lunghissima serie di interpretazioni a cui ha dato luogo, nella storia, l’opera dei due grandi maestri del pensiero antico.

[3] K. R. Popper, Logica della scoperta scientifica (1934), tr. it. Einaudi, Torino 1970, pp. 308-309.

[4] K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici. I. Platone totalitario (1945), tr. it. Armando Editore, Roma 1973, p. 56.

[5] K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici. II. Hegel e Marx falsi profeti (1945), tr. it. Armando Editore, Roma 1974, p. 20.

[6] La bibliografia sulla concezione della scienza in Aristotele è molto vasta. Si vedano le utili indicazioni bibliografiche in E. Berti, Guida a Aristotele: logica, fisica, cosmologia, psicologia, biologia, metafisica, etica, politica, poetica, retorica, Laterza, Roma-Bari 2007. Inoltre, si rimanda anche ai seguenti testi che richiamano l’argomento in maniera specifica: J.J. Sanguineti, Scienza aristotelica e scienza moderna, Armando Editore, Roma 1992. W.A. Wallace, Aristotele e la filosofia della scienza, in S.L. Brock (a cura di), L'attualità di Aristotele, Armando Editore, Roma 2000, pp. 53-72. F. Fronterotta, La scienza e le cause a partire dalla Metafisica di Aristotele, Bibliopolis, Napoli 2010.

[7] Aristotele, Analitici secondi, in Organon, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 2003, p. 403 (libro II, 19, 100B, 10-17).

[8] Tra le tante opere che trattano il tema del rapporto tra filosofia e scienza in Platone, menzioniamo lo scritto di R. Chiaradonna, Il platonismo e le scienze, Carocci Editore, Roma 2012, oltre a quella di U. Curi, Il mantello e la scarpa. Filosofia e scienza tra Platone e Einstein, Il Poligrafo, Padova 1998.

[9] Platone, Fedro, in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2014, p. 556 (247 B-C).

[10] Cfr. Platone, Repubblica, in Id., op. cit., pp. 1236-1237 (VI, 511 B-C).

[11] Ibid.

[12] Per un approfondimento di un tema così vasto, si rimanda ai lavori recenti di Baltussen, Donini e Ferrari: H. Baltussen, From Polemic to Exegesis: the Ancient Philosophical Commentary, in «Poetics Today», XXVIII, 2, 2007, pp. 247-281; P. L. Donini, Testi e commenti, manuali e insegnamento: la forma sistematica e i metodi della filosofia in età postellenistica, in M. Bonazzi (a cura di), Commentary and Tradition. Aristotelianism, Platonism, and Post-Hellenistic Philosophy, De Gruyter, Berlin 2011, pp. 211-281; F. Ferrari, La Nascita del platonismo, in M. Borriello, A.M. Vitale (a cura di), Princeps philosophorum. Platone nell’Occidente tardo antico, medievale e umanistico, Città Nuova, Roma 2016, pp. 13-31. Si ringrazia la Prof.ssa Loredana Cardullo per le utilissime indicazioni bibliografiche.

[13] Quest’opera è stata oggetto di varie interpretazioni nel corso della storia. A tal proposito, quali utili strumenti di ricerca, si vedano le bibliografie contenute in A. De Petris, Del vero e del falso nel Sofista di Platone, Olschki, Firenze 2005. M. Migliori, Il Sofista di Platone. Valore e limiti dell’ontologia, Morcelliana, Brescia 2018; G. Movia, Apparenze essere e verità: commentario storico-filosofico al Sofista di Platone, Vita e Pensiero, Milano 1994.

[14] Cfr. Platone, Sofista, in Tutti gli scritti, cit., p. 291 (248).

[15] Ibid., p. 291 (247 D-E).

[16] Ibid., p. 292 (248 D-E, 249 A).

[17] Ibid., p. 268 (221 C).

[18] F. Fronterotta, Introduzione, in Platone, Sofista, a cura di F. Fronterotta, BUR, Milano 2008, p. 35.

[19] Cfr. Platone, Sofista, in Id. Tutti gli scritti, cit., p. 265.

[20] Ibid. Il traduttore, Claudio Mazzarella, traduce «logoi» con «spiegazioni», riconoscendo però che si tratta di una parola polisemica (si veda la nota 11 al testo); forse potrebbe essere più adatto tradurre con «discorsi», «discussioni» (si veda, ad esempio, la traduzione di Fronterotta in Platone, Sofista, cit., p. 207).

[21] Platone, Sofista, in Tutti gli scritti, cit., p. 278 (232 B).

[22] Cfr. ibid., p. 310 (268 C-D).

[23] Interrogandosi su tale problema, Fronterotta scrive: «bisognerebbe chiedersi inoltre quale sia il carattere epistemico di questa procedura di “riconduzione” o “raccolta”, se si tratti di un atto intuitivo o comunque immediato, come pare abbastanza plausibile, e se, in tal caso, sia da porre in relazione con quell’improvviso recupero della conoscenza delle idee previsto nel quadro della dottrina della reminiscenza o, più ancora, con l’ascesa al principio anipotetico che, alla conclusione del libro VI della Repubblica, nell’ambito della cosiddetta teoria della linea divisa, pare associata all’immediata visione delle idee intellegibili da parte del filosofo dialettico. Benché si tratti di un’ipotesi di un certo fascino, è bene tenere presente che, nel Sofista, non compare nessuna menzione di queste dottrine» (F. Fronterotta, op. cit., p. 53, nota 26). Il critico è dunque costretto a puntualizzare che, per quanto la nostra sensibilità di lettori attuali di Platone ci porti subito a pensare ai ben noti testi sull’intuizione intellettuale o sulla reminiscenza, dobbiamo ammettere che, stando al testo, non vi sono accenni in tal senso.

[24] A tal proposito si legge in Metafisica: «anche i contrari delle nozioni su menzionate – come: il diverso, il dissimile e l’ineguale e tutti gli altri che derivano da queste, oppure dal molteplice e dall’uno – rientrano nell’ambito di indagine della scienza di cui abbiamo detto. Fra queste va inclusa anche la contrarietà, perché la contrarietà è una certa differenza e la differenza è una diversità» (Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1993, pp. 135-137, IV 2, 1004a, 10-20). Tuttavia, precisa Aristotele, «non solo compete a un’unica scienza lo studio delle cose che si dicono in un unico senso, ma anche lo studio delle cose che si dicono in diversi sensi, però in riferimento a un’unica natura: infatti anche queste, in certo qual modo, si dicono in un unico senso» (ibid., p. 133, IV 2, 1003b, 10-15).

[25] Ibid., p. 131 (IV 2, 1003a, 32).

[26] Ibid. Oppure, «anche se l’uno si dice in molti sensi, tutti i diversi sensi si dicono in riferimento al senso originario» (Ibid., p. 141, IV 2, 1005a, 5-6).

[27] A testimonianza dello stretto legame tra metafisica e logica, i due principi possono essere riassunti dall’esempio riportato nell’Organon, nel libro delle Categorie: «in effetti, se l’uomo sussiste, risulta vero il discorso con cui affermiamo che l’uomo sussiste. E la conversione è certo possibile, dal momento che, se il discorso con cui affermiamo che l’uomo sussiste è vero, l’uomo sussiste. D’altro canto, il discorso vero non può in alcun modo causare la realtà del proprio contenuto, mentre il contenuto si presenta in certo modo come causa della realtà vera del discorso. In tal caso il discorso si dice vero oppure falso, per il fatto che il contenuto è oppure non è» (Aristotele, Organon, cit., p. 49, Categorie, 12, 14b, 15-21,).

[28] Cfr. Aristotele, Metafisica, cit., p. 281 (VI, 4, 1027b, 25ss).

[29] Riferendosi agli studenti del Liceo, Aristotele avverte che, al fine di comprendere la filosofia prima, «occorre […] una preliminare conoscenza delle cose dette negli Analitici, e non che le ricerchino mentre ascoltano queste lezioni» (Ibid., p. 143, IV 2, 1005b, 4).

[30] Cfr. Ibid., p. 429 (IX, 10, 1051b, 5 sgg.).

[31] Si veda il par. 2 dell’articolo.

[32] «Ora, (1) il primo di questi caratteri – il conoscere ogni cosa – deve necessariamente appartenere soprattutto a chi possiede la scienza dell’universale: costui, infatti, sa, sotto un certo rispetto, tutte le cose <particolari, in quanto queste sono> soggette <all’universale>. […] (3) E le più esatte fra le scienze sono soprattutto quelle che vertono intorno ai primi principi: infatti, le scienze che presuppongono un minor numero di principi sono più esatte di quelle che presuppongono, altresì, l’aggiunta di <ulteriori principi>, come ad esempio l’aritmetica rispetto alla geometria» (Aristotele, Metafisica, cit., p. 9, A 2, 982a, 20-25).

[33] Aristotele, Organon, cit., p. 280 (Analitici secondi, I, 2, 71b, 20-25).

[34] Aristotele, Metafisica, cit., p. 143 (IV 2, 1005b, 5-18).

[35] Si veda ad esempio, G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle «Dottrine non scritte», Bompiani, Milano 2010.

[36] Cfr. Platone, Repubblica, cit., p. 1235 (VI, 509b).

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