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Considerazioni sull’infosfera. S&F_ a colloquio con Luciano Floridi

Autore


Luciano Floridi - Cristian Fuschetto

Luciano Floridi - University of Oxford Cristian Fuschetto - Università degli Studi di Napoli Federico II

Luciano Floridi insegna Filosofia ed Etica dell’Informazione all’università di Oxford, dove dirige il Digital Ethics Lab, ed è Chairman del Data Ethics Group dell’Alan Turing Institute, l’istituto britannico per la data science. Con la Quarta rivoluzione ha vinto il Walter J. Ong Award for Career Achievement in Scholarship 2016

Indice


1.Introduzione

2. Perché il telefono “ci capisce”

3. Cosa significa 4.0?  

4. Tutto è bit

5. L’intelligenza dei luoghi

6. Il narcisismo perduto e la riscoperta dell’altro

7. Stop alla retorica della rete

 

 

 

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S&F_n. 22_2019

Abstract


Infosphere: a new way to look at fundamental questions about humanity

New developments in the field of communication and information technology (ICT) will profoundly reshape the answers to questions of deep interest for humanity and philosophy. Who are we and what kind of relationship we establish among us? The boundaries between real life and virtual life tend to evanish. We are progressively becoming part of a global “infosphere”. This candid interview with professor Floridi try to shed some light on these issues, by considering the philosophical framework developed by the “infosphere philosopher”.

 

 

 

  1. Introduzione

Il mondo è informazione, anzi: «tutto ciò che è reale è informazionale, tutto ciò che è informazionale è reale». Se si arriva a parafrasare il celebre passaggio della Fenomenologia dello Spirito di Hegel le ipotesi sono due: o chi lo fa si prende un po’ troppo sul serio o la situazione è davvero critica. Nonostante il suo curriculum, è ordinario di Filosofia dell’Informazione all’Università di Oxford e direttore dell’Ethics Group dell’Alan Turing Institute, l’istituto britannico che si occupa di Data Science, Luciano Floridi non è il tipo di intellettuale incline alla militanza teoretica. Più sobriamente preferisce far parlare i fatti e sono appunto i fatti a dirci che stiamo vivendo un momento di mutamenti profondi, quei passaggi in cui alla domanda “chi siamo” viene il sospetto di non saper più la risposta. Quindi ben venga anche un Hegel.

 

  1. Perché il telefono ci capisce

Quali sono i fatti? Qualche esempio: oggi c’è in media più potere computazionale in un automobile di quanto ne disponesse la Nasa nel 1969 per inviare gli astronauti sulla Luna; nel 2015 i dispositivi connessi a internet erano 25 miliardi e si calcola che nel 2020 raddoppieranno; assistiamo a una crescita esponenziale dell’Internet of Things, tanto che la comunicazione tra esseri umani già rappresenta una piccola parte di un fenomeno che avviene in misura crescente tra soggetti non umani; negli ultimi 5 anni sono stati prodotti più dati di quanti ne abbia accumulati l’umanità in tutta la sua storia; per una fetta crescente della popolazione dei paesi avanzati non ha più senso distinguere tra vita trascorsa online e offline, gli uomini vivono sempre più reciprocamente connessi in un unico ambiente fatto di dati condivisi con altri agenti informazionali, umani o artificiali che siano non fa differenza purché vi sia un’intelligenza in grado di processare quei dati. Pensate a “Siri”, al fatto che digitiamo un numero semplicemente pronunciandolo: Siri “ci capisce”. Ecco, quest’esperienza ormai banale testimonia che noi e il telefono condividiamo lo stesso ambiente perché siamo fatti della stessa pasta: informazione. 

 

  1. Cosa significa 4.0?

«Meno cose, più servizi» sintetizza il filosofo di Oxford. «Nel mondo della produzione si sta apprezzando un notevole cambiamento: già da un po’ la Rolls Royce fa il suo profitto non sulla vendita dei motori ma dal servizio che i motori richiedono. Ogni oggetto prodotto, anche quello tradizionalmente più stupido come un qualsiasi oggetto meccanico, assorbe oggi una quantità di intelligenza crescente, è questo il suo valore aggiunto. Il baricentro dell’industria e del lavoro si sposta così verso il design, ovvero verso l’arte di organizzare questa enorme mole di cose intelligenti in modo da valorizzarne funzionalità e la capacità di parlare tra loro, di capirsi. Chi troverà il modo di far parlare meglio tra loro tutte le cose che verranno fuori dalle fabbriche conquisterà il mondo, per dir così».

 

  1. Tutto è bit

C’è un aspetto della rivoluzione in corso che difficilmente può essere sovrastimato, per la prima volta nella storia dell’uomo gli strumenti sono della stessa natura degli oggetti su cui intervengono. Un software, un algoritmo, un database sono fatti della stessa sostanza delle informazioni che devono processare. Per riparare un programma serve un altro programma, per riparare un motore di un auto servono strumenti diversi dal motore vero e proprio così come per seminare un campo occorrono trattori. «Nel mondo fatto di dati c’è identità tra mezzi e risorse, tra strumenti e materia. È un po’ come se avessimo tubi e pompe di ghiaccio per far passare l’acqua. Si tratta sempre di H2O. Ecco, da un punto di vista fisico è impossibile distinguere i dati dai programmi contenuti nell’hard disk, si tratta solo di bit. Se apro un pc o un iPad tutto quello che trovo è un’enorme quantità di 0 e 1. Questo aumenta in modo enorme il nostro potenziale manipolativo e per questo il design diventa fondamentale».

 

  1. L’intelligenza dei luoghi

In questo scenario titanico non possiamo far altro che assistere al crepuscolo delle piccole imprese? Non proprio, perché se è vero che la digitalizzazione e robotizzazione dei processi produttivi riguarda (per ora) le grandi realtà è vero anche che la natura ubiquitaria della rete non cancella il genius loci, semmai lo esalta. Passiamo dal mondo dell’industria a quello dei servizi. La connessione always on e il telelavoro hanno senz’altro smantellato in pochi anni il concetto stesso di ufficio, la banda larga restringe distanze e fa transitare scrivanie, archivi, sale riunioni e segreterie verso ambienti immateriali a portata di click, ma le cassandre dello sradicamento digitale soffrono della medesima miopia dei nostalgici. «Assistiamo a un riassestamento – riflette Floridi, che pure con i big del digitale ci lavora: è stato consulente di Google – ed è sbagliato pensare che siamo in nuovo momento industriale. Il digitale ha nella sua natura la disseminazione e la diffusione ma restano comunque e ben saldi altri criteri che favoriscono l’agglomerazione: l’humus intellettuale, i saperi artigiani, l’intelligenza imprenditoriale sono forze centripete. Di Silicon Valley ce n’è una e basta così, non si può clonare. Lo stesso vale anche per tutti quei piccoli distretti sparsi per l’Italia baciati da una radicata ecologia dell’intelligenza, penso a chi lavora il cuoio, chi produce tessile per non parlare delle imprese agricole. L’Italia è famosa per la sua modularità, che non è necessariamente frammentazione. La formazione digitale può far esplodere le competenze locali a patto di rispettarle. I mezzi devono seguire il fine».

 

  1. Il narcisismo perduto e la riscoperta dell’altro

La trasformazione del mondo del lavoro è solo un aspetto di un cambiamento ben più radicale. Ne La quarta rivoluzione, Floridi chiama “Infosfera” l’involucro di dati che quotidianamente abitiamo e individua in Turing l’autore del quarto mortale colpo inferto al narcisismo dell’uomo dopo le bastonate di Galileo, Darwin e Freud. Alle illusioni geocentriche (non siamo al centro dell’Universo), antropocentriche (non siamo separati dal regno animale) e razionaliste (il subconscio ci inchioda al fatto che non siamo trasparenti nemmeno ai noi stessi) oggi facciamo i conti con la mazzata assestata all’uomo dal teorico delle “macchine pensanti”: non siamo gli unici attori nemmeno nel regno della logica. Quest’anno, per esempio, il dispositivo messo a punto dal team del professor Ken Forbus alla Nortwestern University ha superato meglio dell’americano medio il test di Raven, quello per misurare il quoziente intellettivo. «Fino a poco tempo fa era rimasta una centralità almeno nel mondo delle informazioni, noi eravamo quelli che sanno parcheggiare, giocare a scacchi e cucinare. Oggi queste cose le sanno fare macchine dotate di intelligenza artificiale. Quanto più ci comprendiamo come soggetti fatti di informazione, quanto più ci è evidente che l’intelligenza non è una nostra esclusiva, tanto più ci sentiamo lontani dal centro dell’universo. Siamo granelli di sabbia su una spiaggia», dice quasi tra sé e sé Luciano Floridi.

S’intravede all’orizzonte l’inquietante volto di un nuovo nichilismo in salsa digitale? A differenza di tanti filosofi della tecnica nostrani invasati da “cupio dissolvi”, Floridi è ottimista. «Sentirsi periferici, perdere il senso di unicità può avere effetti positivi. C’è una cosa buona che possiamo recuperare, e cioè che il senso della vita ce lo può dare soltanto l’altra persona. Io non mi posso prendere in braccio da solo come sognava di fare il Barone di Münchhausen. Detto in una battuta, il mondo informazionale ci fa riscoprire l’altruismo e la quarta rivoluzione potrebbe renderci meno egocentrici».

 

  1. Stop alla retorica della rete

Il pensiero va immediatamente ai social network e qualcosa non torna. Faceboock e compagnia bella viaggiano grazie alla benzina del narcisismo, la stragrande maggioranza delle piattaforme social sono egotismo puro alimentato dalla semantica del selfie. «Non è così – corregge Floridi – almeno non è detto che così debba essere. I social network sono architettati intorno alle logiche della pubblicità e la pubblicità ha un solo scopo: farci credere di essere unici, sempre al centro della festa. Sui social media non comunichiamo, ma facciamo broadcasting, chi c’è c’è, chi ci ascolta ci ascolta. I social network potrebbero reinventarsi su altre logiche, meno gattini più comunicazione». Lo stesso vale anche per i partiti della rete, dove della potenza del digitale rimbomba solo retorica. «Da quello che accade in Italia, i cosiddetti partiti della rete mostrano un notevole grado di incompetenza, a proposito di internet traspare un dilettantismo che nemmeno uno studente ai primi anni di università. Non ci sono idee e si costruisce una visione pressoché magica della rete, come se la forza del numero e della connettività potesse di per sé risolvere i problemi. Poi, come sempre, la realtà presenta il conto».

 

 

 

 

 

 

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