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Razza, assoggettamento e cultura in William Edward Burghardt Du Bois

Autore


Edoardo Girardi

Università di Torino

ha conseguito la laurea triennale in Filosofia all’Università di Roma - La Sapienza. Attualmente è laureando Magistrale presso l’Università di Torino.

Indice


  1. Intro
  2. La razza come oggetto sociale
  3. Il dispositivo razziale
  4. Cultura e soggettivazione
  5. Conclusioni

 

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S&F_n. 21_2019

Abstract


Race, Subjection and Culture in William Edward Burghardt Du Bois


Despite the fact that it is widely established that the concept of race doesn’t have a biological foundation, it is still discussed whether it might have a political and social meaning. A key elaboration of a possible non-biological use of this concept is the one of W. E. Du Bois, which we try to analyze in this paper. Thanks to recent theoretical formulation and reinterpretation of this author, we try to articulate Du Bois use of “race” following three axes (social ontology, subjection and subjectivation process). In conclusion we discuss a potential major critical issue in Du Bois’s argument.

  1. Intro

La figura del sociologo e filosofo William Edward Burghardt Du Bois (1868-1963) è recentemente tornata al centro del dibattito teorico sulla razza e sui problemi del post colonialismo. Nel giudizio di Anthony Appiah, Du Bois è lo studioso che ha «riflettuto più a lungo, con più impegno politico e più pubblicamente riguardo alla razza di ogni altro teorico sociale del nostro secolo», avendo colto, con innegabile anticipo sui tempi, che «il problema del ventesimo secolo [sarebbe stato] la relazione delle razze più scure con quelle più chiare»[1]. In particolare, ciò che negli scritti di questo autore attira maggiormente l’attenzione di chi si confronta con il tema razziale, è il tentativo di separare il concetto di razza da basi deterministiche e biologiche sostenendo, al contempo, la significanza del termine e la necessità di preservarlo. La mia proposta è che la lettura di Du Bois possa fornire le coordinate per esplorare almeno tre aspetti che caratterizzano una concezione di razza non essenzialista: la razza come oggetto sociale, come dispositivo di assoggettamento, e come cultura. Cercherò di isolare queste tre facce del concetto per mostrare come Du Bois le articoli in un modo coerente. Per farlo, seguendo la lettura di Du Bois fatta da Appiah, mi concentrerò su due testi di Du Bois, uno giovanile e uno della maturità: The Conservation of Races e Dusk of Dawn[2].

 

  1. La razza come oggetto sociale

Nella seconda parte del XX secolo, dopo la distruzione del nazismo e la fine della guerra, la ricerca scientifica ha messo fortemente in dubbio il concetto deterministico di “razza” elaborato sin dalla fine del Settecento. Nella pur ovvia molteplicità di analisi e di approcci, le teorie del determinismo razziale condividono l’idea che le differenze di comportamento e di cultura riscontrabili nei gruppi umani abbiano una base biologica ed ereditaria[3]. Conseguentemente ritengono che la ricerca scientifica possa rintracciare delle differenze tra gruppi umani stabili e trasmissibili, ritenute  d’altronde un’evidenza empirica – a seconda delle posizioni, differenze esclusivamente fisiche (colore della pelle, tipi di capelli, forma del cranio, ecc.), culturali, e persino psicologiche e individuali.

Oggi chi sostiene che l’utilizzo biologico del termine “razza” abbia ancora un senso ritiene che esso descriva realtà molto diverse da quelle tradizionalmente associate al concetto. Innanzitutto non è ritenuto possibile identificare caratteri fenotipici che permettano di distinguere le razze tradizionali, come invece per secoli si è tentato di fare; piuttosto, è stata rintracciata una variabilità genetica di tipo statistico tra le varie popolazioni, che può risultare utile in alcuni ambiti determinati (storia delle migrazioni, medicina)[4]. D’altra parte, tramite questa variabilità, estremamente piccola, non possono assolutamente essere spiegate differenze culturali[5]. Tra l’altro, basandosi questa versione “debole” su risultati statistici (e quindi su campioni di popolazioni molto ampi), non è possibile inferire la distanza tra individui. Ciò vuol dire che potenzialmente due individui di popolazioni diverse possono condividere una percentuale maggiore di DNA rispetto a due individui della stessa popolazione.

Questa squalifica generalizzata del fondamento biologico del concetto di “razza” ha indotto molti studiosi ad affermarne la vuotezza e ad argomentare contro il suo utilizzo. Per esempio, per Appiah:

La verità è che non ci sono razze; non c’è niente nel mondo che può fare tutto ciò che chiediamo alla razza di fare[6].

 

Similmente argomenta Naomi Zack:

se la tassonomia razzista del senso comune è considerata vera perché ha una base scientifica, e non ha una base scientifica, allora esse è irreale […] entità che non esistono non possono essere causa, effetto o oggetto in relazione a cose che esistono[7].

 

D’altra parte, vi è chi sostiene che questo concetto conservi ancora un valore prezioso per descrivere non solo varianza genetica, ma anche realtà sociali. La moderna posizione antiabolizionista ha come precursore il sociologo e filosofo W.E.B. Du Bois. Nel discorso pubblico alla Negro Academy del 1897, intitolato The Conservation of Races, egli dichiarò infatti di non essere interessato alla definizione scientifica e biologica della razza, essendo tra l’altro cosciente della difficoltà in cui essa versava. Riteneva però al contempo indubitabile che la storia avesse diviso gli esseri umani e le società in razze. Il principio differenziatore fondamentale sarebbe qualcosa di più «profondo» del colore della pelle:

una storia comune, leggi e religioni comuni, simili abitudini di pensiero e una spinta [striving] cosciente e comune verso un ideale di vita­[8].

 

In Dusk of Dawn Du Bois tornerà a chiedersi cosa rende possibile questa divisione razziale e l’identificazione di più individui con una comunità afroamericana. Non sono certo i capelli o il colore della pelle di per sé; piuttosto, le esperienze relativamente simili che si fanno in un certo contesto determinate da quei caratteri[9]. Paul C. Taylor sintetizza efficacemente con queste parole: «Essere nero da questo punto di vista consiste nell’avere l’esperienza di essere visto e trattato in un certo modo»[10].

Taylor dà inoltre un’altra preziosa indicazione riguardo alle implicazioni metafisiche della posizione di Du Bois. Se per Zack la «razza» non esiste, Du Bois ne sostiene l’esistenza, ma non come fatto fisico. Secondo Taylor, Du Bois avrebbe intuito la consistenza ontologica degli «oggetti sociali» (essendo la razza uno di essi), entità decisamente reali in quanto condizionano profondamente la vita di più soggetti, ma che non ha altro fondamento che «l’intenzionalità collettiva». Potremmo dire, ribaltando l’argomentazione di Zack, che in quanto ha effetti reali, la razza è reale. Per giustificare e ampliare la posizione che emerge dai testi di Du Bois, Taylor si richiama alle teorie di John Searle e alla sua distinzione tra due tipi di fatti: quelli «bruti», che esistono di per sé, e quelli sociali, i quali «richiedono le istituzioni umane per esistere»[11]. Ogni fatto sociale viene portato all’esistenza da regole costitutive: esse non hanno solo lo scopo di regolare ma di fondare, rendere effettivo[12]. Searle sostiene infatti che la società nasca

quando gli umani, attraverso l’intenzionalità collettiva, impongono  funzioni su fenomeni in cui la funzione non può essere svolta solamente in virtù della fisica e della chimica, ma richiede una cooperazione umana continuata nelle forme specifiche dell’identificazione, dell’accettazione e del riconoscimento di un nuovo status a cui è assegnata una funzione [corsivi miei][13].

 

Se quindi, d’accordo con gli abolizionisti, ammettiamo che la razza non è un fatto bruto, non per questo bisogna ammettere che non sia niente. In questo senso, la «razza» come vettore di differenziazione tra popolazioni esisterebbe in quanto si sono stabilite, tramite un’intenzionalità oggettiva, le regole costitutive che la rendono effettiva. Per Du Bois, si è neri perché si è visti neri e perché ci si comporta come se la razza esistesse: si tratta di un’operazione performativa collettiva[14]. Taylor, ponendosi sulla scia di queste riflessioni, rivendica dunque la necessità del termine per indicare una realtà che, qualora non fosse definita, sarebbe invisibile ma pur sempre operante – dunque, reale[15].

 

  1. Il dispositivo razziale

La razza può essere dunque considerata un fatto sociale: senza intenzione collettiva, ovvero senza una relazione, un determinato contesto sociale, un individuo non può avere uno status razziale. Si tratta di una distinzione ontologica fondamentale, che connota però ancora poveramente il concetto: non sappiamo quali siano le sue condizioni di esistenza né il suo funzionamento. Prendiamo in considerazione il caso che è al centro delle analisi di Du Bois (che lega sempre la riflessione esperienziale e di vissuto alla riflessione concettuale), la “razza afro-americana”, la razza di cui si sente parte, e confrontiamone le caratteristiche con tre «fatti» presentati da Searle: il denaro-moneta, il convegno, il dottore[16].

Una prima divisione macroscopica è che, mentre i primi due concetti riguardano, rispettivamente, un oggetto e una situazione, la razza (così come il dottore) funzionalizza, qualifica dei soggetti, collettivamente e individualmente. Possiamo dire dunque che, con l’identificazione di un dottore o di un nero, non si crei solo un “oggetto” ma anche un “soggetto”. Ciò che differenzia il “soggetto-medico” dal “soggetto-nero” è la modalità della loro formazione.

Du Bois scrive che ciò che rende nero è

l’eredità sociale della schiavitù; la discriminazione e gli insulti[17];

 

ancora,

nero è chi vive nella condizione di segregazione propria dei neri[18].

 

È chiaro che in questo caso il soggetto razzializzato subisce passivamente la definizione della propria soggettività sociale. A differenza di quanto accade con il medico, questo soggetto socialmente funzionalizzato non ha alcuna parte nell’intenzionalità collettiva che determina le regole del funzionamento della propria soggettività: il rapporto sociale che le definisce è un rapporto diseguale di potere, in cui i neri non hanno agency. In altri termini, una collettività impone un’identità, una forma di soggettività a un’altra – sei un negro, sei uno schiavo, è giusto che tu viva così e così.

È chiaro che qui non si tratta solo di regole di senso, ma del fatto che esse sostengono pratiche che si rifanno al senso attribuito a questi soggetti, le quali a loro volta rafforzano, approfondiscono, dinamizzano il significato sociale.

Può essere utile, per comprendere questo meccanismo sociale, utilizzare una categoria elaborata da Michel Foucault e sviluppata poi da Giorgio Agamben: quella di dispositivo.

Per Agamben, un dispositivo è una rete che si stabilisce tra elementi eterogenei («prassi, saperi, misure, istituzioni») avente una funzione strategica di governo, ossia con lo scopo di

gestire, governare, controllare e orientare in un senso che si pretende utile i comportamenti, i gesti e i pensieri degli uomini[19].

 

In questo senso, continua il filosofo italiano, il dispositivo svolge un’attività economica nel senso originario greco, ossia un’attività di amministrazione e di governo degli esseri umani; ma più in particolare,

il termine dispositivo nomina ciò in cui e attraverso cui si svolge una pura attività di governo senza fondamento nell’essere. Per questo i dispositivi devono sempre implicare un processo di soggettivazione; devono, cioè, produrre il loro soggetto[20].

 

Le parole di Agamben sembrano completare quelle di Searle: si crea, tramite una rete di vincoli multipli, un fatto sociale slegato dal fatto bruto. Aggiunge due elementi però all’analisi: 1) contemporaneamente, si crea una soggettività (poiché altrimenti non potrebbe darsi un governo); 2) questo processo di creazione della soggettività è un assoggettamento, in quanto è subito dal soggetto che si produce[21].

Se essere nero in America per Du Bois vuol dire fare esperienza dell’eredità sociale della schiavitù, possiamo ritenere che il pensatore abbia intuito la derivazione dell’identità razziale afroamericana dal funzionamento di un dispositivo di assoggettamento bianco. Al processo di razzializzazione concorrono pratiche e relazioni sociali che hanno uno specchio nell’elaborazione teorica e scientifica, come l’esasperazione e il pervertimento della «lotta del più adatto» darwiniana in lotta per la razza migliore[22]. Nel momento in cui un soggetto è preso nella trama del dispositivo razziale, perde i suoi connotati per vedersene imposti altri insieme a doveri, modi di pensare ecc.

 

  1. Cultura e soggettivazione

Rileggendo Du Bois con lenti contemporanee possiamo dunque ipotizzare che la “razza” nella storia americana ha funzionato come un dispositivo estremamente pervasivo ed efficace, non solo come organizzatore di rapporti sociali ma anche di identità. Dal momento che, sostiene Taylor, esso è tutt’oggi funzionante, seppur in forme diverse, rifiutare di riconoscere la divisione sociale per razze in un contesto in cui tale dispositivo è tutt’ora operante, potrebbe essere estremamente controproducente[23]. Questa riflessione sul pensiero di Du Bois mostra in primo luogo il valore che il concetto di «razza» ha nelle scienze sociali, nella storia e in generale nelle discipline che si occupano di «oggetti sociali», e secondariamente il suo portato di segregazione sociale e di oppressione.

Ma il concetto di razza che Du Bois elabora ha anche un’altra faccia. Non è solo espressione del legame oppressivo che lega una comunità dominante a una dominata e assoggettata. Du Bois non auspica l’estinzione della divisione razziale, ed è un sostenitore della preservazione della differenza nera, non certo per volontà di mantenere i rapporti sociali che hanno prodotto la razza, ma poiché essa indica una realtà che eccede tali rapporti. Non ci fosse questa eccedenza, la razza sarebbe difesa solo come mezzo di analisi. Per Du Bois, invece, identifica e significa una comunità reale non solo per chi la governa ma anche per chi vi partecipa. La razza riguarda

simili abitudini di pensiero e una spinta cosciente e comune verso un ideale di vita­[24].

 

La differenza tra razze riguarda i «messaggi» originali che ognuna ha da esprimere e che andrebbero difesi promuovendo la cultura razziale. In altre parole, Du Bois si sente «nero», e pensa inoltre che la «razza nera» abbia un suo modo unico di esprimersi, dei suoi messaggi, un ideale di vita che tiene insieme tutti i suoi partecipanti.

La razza, nell’ottica di Du Bois, non ha solo un valore oppressivo ma anche uno propositivo: è ciò che muove attivamente la storia. Con una posizione che sembrerebbe in controtendenza con quanto detto sin ora, si sta insomma parlando di cultura e identità razziali. Con un doppio movimento, pur riconoscendo la dipendenza della realtà sociale della razza afroamericana dal processo di assoggettamento dispiegato dalla cultura e dalle istituzioni politiche bianche, Du Bois riconosce al contempo il carattere culturale reale della razza, che ha prodotto la propria arte, i propri stili di vita e di socialità che, sintetizzando, chiama «messaggio». Tutto ciò ovviamente ha poco a che fare con il governo della razza dominante, o meglio non ne deriva direttamente: si tratta di una elaborazione collettiva dei soggetti oppressi.

Queste conclusioni problematizzano il funzionamento del dispositivo, mettendone in luce un lato che non emerge nel testo di Agamben che ma è invece centrale nell’omonimo testo di Gilles Deleuze[25]. Il filosofo francese sostiene che nell’organizzazione finalizzata dei dispositivi si diano delle vie di fuga, delle possibilità per la creatività dell’assoggettato, e definisce queste vie le «linee di soggettivazione»:

una linea di soggettivazione è un processo, una produzione di soggettività all’interno di un dispositivo: essa deve farsi, nella misura in cui il dispositivo lo lascia e lo rende possibile. È una linea di fuga [… Il sé] è un processo di individuazione che si esercita su gruppi o su persone e si sottrae ai rapporti di forza stabiliti come pure ai saperi costituiti: una sorta di plusvalore[26].

 

Questo doppio movimento di assoggettamento-soggettivazione è immediatamente evidente se risaliamo alle origini del vincolo tra gli afroamericani – come d’altronde fa lo stesso Du Bois – e lo schiavismo. Nonostante le condizioni di vita dure e servili e il controllo da parte dei padroni, gli schiavi crearono una cultura originale che fondeva elementi molto diversi (tradizioni di varie popolazioni africane, lingua e monoteismo anglosassone, elementi della vita quotidiana) in un ricchissimo repertorio di racconti, riti religiosi, forme musicali[27]. In questo caso il dispositivo non solo non impedisce la soggettivazione, ma paradossalmente ne costituisce il terreno. Non nel senso che la favorisca, ovviamente, e tuttavia delinea il campo all’interno del quale essa è possibile, fornisce gli elementi da rielaborare e sfruttare creativamente. La vita dei campi, la sudditanza e l’emarginazione rispetto ai bianchi, lo sfogo dopo il lavoro, l’organizzazione sociale: tutto fornisce il contesto materiale in cui si sviluppa la cultura degli schiavi, e al contempo niente di tutto ciò basta per spiegarla[28]: la razza eccede il proprio dispositivo.

Ponendo la questione in questi termini, Du Bois risolve la differenza razziale in differenza culturale (in senso forte), e apre la via alle riflessioni multiculturali. The Conservation of Races venne scritto in polemica con parte del movimento di emancipazione afroamericano che aveva come fine l’estinzione della differenza tra neri e bianchi[29]. Du Bois invece sostenne lo sviluppo autonomo della cultura nera, e nella sua argomentazione coglie uno dei punti messi a fuoco da Lévi-Strauss più di cinquant’anni dopo nel saggio Razza e cultura[30]: la dinamica storica ha alla propria base il confronto di culture diverse, che concorrono con le proprie peculiarità allo sviluppo interculturale. Il soggetto storico non è dunque uno solo e il progresso non è un progresso lineare: nelle parole di Du Bois,

la storia del mondo non è la storia degli individui né degli stati, ma delle razze[31].

 

Eliminare la differenza tra bianchi e neri voleva dire per Du Bois impoverire enormemente questa dinamica, proprio perché gli afroamericani avevano sviluppato, nella loro condizione di segregazione, una soggettività culturale originale, e dunque privare gli individui neri degli «elementi sistemici» che organizzano la loro forma di vita, «corrispondenti alla maniera particolare scelta da ogni civiltà per esprimere e soddisfare l’insieme delle aspirazioni», quello che Lévi-Strauss definisce il pattern culturale[32].

In quest’ottica, la razza non identifica solo uno squilibrio di potere nei rapporti sociali, ma anche una differenza reale e positiva di ideali e modi di vita, che ha (almeno nell’ottica di Du Bois e Lévi-Strauss) tutte le buone ragioni per essere preservata, seppur derivante da una storia di sfruttamento. Conservare il concetto di razza, in Du Bois, possiede un suo valore – come riconosce Taylor – perché permette di identificare e resistere all’oppressione razzista[33], ma anche perché significa una differenza culturale e un’identità che prospettano uno sviluppo proprio e originale.

 

  1. Conclusioni

Abbiamo visto, muovendoci sulla scia di Appiah tra The Conservation of Races e Dusk of Dawn, la complessità della struttura concettuale della «razza» nel pensiero di W. E. Du Bois. Innanzitutto, egli ne riconosce la natura non fisica e non essenzialista. Individua inoltre, a partire dalla propria identità afroamericana, due significati apparentemente divergenti: da un lato l’eredità di assoggettamento che si porta dietro e che ancora opera nella sua realtà quotidiana; dall’altro la differenza culturale che il dispositivo razziale ha contribuito a creare e a cui l’autore, in un’ottica multiculturalista, non vuole rinunciare. Per esprimere quest’ambiguità con le parole dell’autore, il nero è

nato con un velo, e dotato di una seconda vista in questo mondo americano[34].

 

Ora, se questa profonda unione tra cultura e subordinazione è una caratteristica storica afroamericana, l’analisi di Du Bois coglie un meccanismo profondo del confronto tra culture in epoca coloniale. In Dusk of Dawn, Du Bois parla del legame che unisce gli africani e che si estende «attraverso l’Asia gialla fino ai mari del sud»: l’eredità della schiavitù. Riconosce cioè che il dispositivo razziale occidentale dispiegato nel colonialismo non ha solo aggredito e asservito un soggetto preesistente, ma – foucaultianamente – ha formato un soggetto nuovo, con caratteristiche comuni dovute a questa forma di assoggettamento. Questo soggetto, ci dice Lévi-Strauss, è sempre più occidentalizzato, non per scelta ma per assenza di alternative, in un mondo che non era mai stato così omogeneo[35].

La riflessione sulla subordinazione che comporta il dispositivo razziale portò Du Bois a cogliere il legame tra le lotte per i diritti civili degli afroamericani e i nodi problematici del post-colonialismo[36]. Al contempo, il caso della cultura afroamericana mostra che anche in un rapporto di subordinazione e di straniamento culturale si dà la possibilità per una soggettivazione collettiva. È il caso in cui il potere ha prodotto un’eccedenza, un di più rispetto a quello che voleva produrre, ed è proprio a partire da questo di più che nasce la cultura. Il potere dei bianchi americani ha creato il campo all’interno del quale i neri si sono mossi, ma in questo campo c’erano vie di fuga per affermare la propria diversità e il proprio modello di progresso. Il valore del concetto di razza in quest’ottica è non solo di tipo epistemologico ma anche politico: riconoscere razze diverse vuol dire riconoscere esigenze diverse, rivendicazioni particolari e un terreno per possibilità di sviluppo diverse da quelle della civiltà bianca americana.

Non si può però tacere una grande problematicità del pensiero di Du Bois. In The Conservation of Races le razze, per quanto vengano storicizzate, sembrano avere un carattere di fissità che rischia di «far funzionare la cultura come la natura»[37], ancorando l’identità a una base invariante. In questo senso la sua analisi potrebbe aprire a quello che Balibar definisce come «neorazzismo»:

Il razzismo attuale si iscrive nel quadro di un razzismo senza razze […] un razzismo che ha per tema non l’eredità biologica, ma l’irriducibilità delle differenze culturali; un razzismo che, a prima vista, non postula la superiorità di alcuni gruppi o popoli rispetto agli altri, ma solo […] l’incompatibilità degli stili di vita e tradizioni[38].

 

Il problema è il permanere metastorico delle razze. Du Bois presenta le razze come fatti storici e fisse nella loro identità: sostiene siano otto, pensa il loro sviluppo in modo lineare e individuale, ritiene che ciascuna abbia il proprio “messaggio” particolare da esprimere impegnandosi nel proprio cammino spirituale. In quest’ottica, sono state colte delle assonanze con il cammino dello spirito nella Fenomenologia di Hegel[39]. Il dinamismo storico che Du Bois pensa è al contempo multiculturale e interno a ciascuna cultura, è effetto della tensione che essa ha verso la propria espressione compiuta.

Il multiculturalismo di Levi-Strauss marca invece il dinamismo esterno dello sviluppo di ciascuna cultura:

È chiaro che il concetto di cultura non va inteso in maniera statica […] essa è funzione non tanto dell’isolamento dei gruppi quanto delle relazioni che li uniscono[40].

 

Il progresso, secondo l’antropologo francese, per quanto diverso a seconda delle culture, non è un cammino lineare di uno spirito verso l’autocoscienza; ha luogo invece un movimento costante di avvicinamenti e allontanamenti, di ibridazioni tra forme di vita al contempo diverse e simili, che si modellano reciprocamente fino a divenire potenzialmente irriconoscibili rispetto a stadi precedenti. Nessuna cultura per Lévi-Strauss è pura e identica a se stessa; il suo cammino non è dato quindi da una explicatio del proprio «messaggio» ma dalla continua trasformazione delle proprie istituzioni. Assumendo questa prospettiva, la diversità culturale – fondamentale per la «sopravvivenza dell’umanità»[41] – non va tanto preservata, quanto stimolata: il problema non è il mescolarsi tra culture, inevitabile per la dinamica storica che Lévi-Strauss concepisce, ma permettere che si sviluppino e convivano forme di vita differenti[42].


[1] A. Appiah, In my father’s house: Africa in the philosophy of culture, Oxford University Press, New York 1993, p. 119. Le traduzioni, se non diversamente indicato, sono mie.

[2] Ibid., cap. 14.

[3] Cfr. M. Harris, The Rise of Anthropological Theory, Columbia University Press, New York  1968, p. 81: «Secondo la dottrina del razzismo scientifico, le differenze e somiglianze socioculturali tra popolazioni umane sono variabili dipendenti da comportamenti e attitudini ereditarie».

[4] Cfr. L.L. Cavalli-Sforza, Geni popoli e lingue, Adelphi, Milano 1996, in particolare sull’impossibilità di usare caratteri fenotipici per la distinzione razziale, pp. 31-35.

[5] Cfr. A. Appiah, op. cit., p. 119.

[6] Ibid., p. 134.

[7] Cfr. N. Zack, Philosophy of Science and Race, Routledge, New York 2002, p. 2 e 4.

[8] W.E.B. Du Bois, The conservation of races, in R. Bernasconi - T.L. Lott (eds.), The Idea of Race, Hackett Publishing Company, Indianapolis 2000, p. 111.

[9] Cfr. W.E.B. Du Bois, Dusk of Dawn (1940), Oxford University Press, New York 2007, p. 153.

[10] Cfr. P.C. Taylor, Appiah’s uncompleted Argument: W.E.B. Du Bois and the Reality of Races, in «Social theory and practice», 26, 1, 2000, p. 109.

[11] Cfr. J.R. Searle, La costruzione della realtà sociale (1995), tr. it. Edizioni Comunità, Milano 1996, p. 7.

[12] Ibid., p. 37.

[13] Ibid., p. 50.

[14] Ibid., pp. 65-67.

[15] Cfr. P.C. Taylor, op. cit., p. 111: «[La decisione di dichiararsi privo di identità razziale (raceless)] lascia al suo posto la rete delle pratiche contestate al loro posto, pronte a circoscrivere le opportunità di vita e a dar forma alle esperienze di milioni di persone».

[16] Cfr. J.R. Searle, op. cit., p. 92.

[17] Cfr. W.E.  Du Bois, Dusk of Dawn, cit., p. 59.

[18] Ibid., p. 153. Letteralmente, Du Bois sostiene che sia nero chi deve to ride a Jim Crow, espressione idiomatica con riferimento allo stereotipo dello schiavo nero (popolarmente chiamato Jim Crow) e usata appunto per riferirsi alla condizione di segregazione delle comunità afroamericane.

[19] Cfr. G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Milano 2006, p. 20.

[20] Ibid., p. 19.

[21] Ibid., p. 29.

[22] Cfr. W.E.B. Du Bois, Dusk of dawn, cit., p. 49.

[23] Cfr. P.C. Taylor, op. cit., p. 113.

[24] Cfr. W.E.B. Du Bois, The conservation of races, cit., p. 110.

[25] G. Deleuze Che cos’è un dispositivo, tr. it. Cronopio, Napoli 2007.

[26] Ibid., p. 17.

[27] Si veda, su questo, J.W. Blassingame, The slave Community, Oxford University Press, New York 1972, in particolare il cap. 2.

[28] Ibid., pp. 41-42.

[29] Cfr. W.J. Moses, The Conservation of Races and its Context: Idealism, Conservatism and Hero Worship, in «The Massachusetts Review», 34, 2, 1993, pp. 275-277.

[30] Cfr. C. Lévi-Strauss, Razza e cultura, in Razza e storia-Razza e cultura, Einaudi, Torino 2002.

[31] Cfr. W.E.B. Du Bois, The conservation of Races, cit., p. 110.

[32] Cfr. Lévi-Strauss, op. cit., p. 43.

[33] Cfr. P.C. Taylor, op. cit., p. 111.

[34] Cfr. E.W. Du Bois, The Souls of Black Folk (1903), Fawcett, Greenwich 1961, p. 16.

[35] Cfr. C. Lévi-Strauss, op. cit. pp. 29-30.

[36] Cfr. S. Mezzadra, Questioni di sguardi: Du Bois e Fanon in Fanon postcoloniale, Ombre Corte, Verona 2013, p. 193.

[37] Cfr. E. Balibar-I. Wallerstein, Razza nazione classe: le identità ambigue, tr. it. Edizioni associate, Roma 1990, p. 41.

[38] Ibid., p. 36.

[39] Cfr. W. Siemerling, W.E.B. Du Bois, Hegel, and the Staging of Alterity, in «Callaloo», 24, 1, 2001.

[40] C. Lévi-Strauss, op. cit., p. 9.

[41] Ibid., p. 47.

[42] Ibid., p. 49: «Quel che va salvato è la diversità, non il contenuto storico che ciascuna epoca le ha conferito e che nessuno può perpetuare al di là di essa. Bisognerà “ascoltare la crescita del grano”, incoraggiare le possibilità segrete, risvegliare tutte le vocazioni a vivere insieme che la storia tiene in serbo».

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