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Crisi ecologica e Capitale fossile: abbozzo di una genealogia economica del Global Warming

Autore


Ciro Incoronato

Duke University, North Carolina - Università degli Studi di Napoli Federico II

dottore di ricerca in Scienze Filosofiche e svolge attualmente attività di ricerca presso la Duke University, North Carolina

Indice


  1. Introduzione
  2. Oltre l’Antropocene: il Capitale fossile
  3. Il Capitale e il riscaldamento globale

 

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S&F_n. 21_2019

Abstract


Ecological Crisis and fossil Capital: Outline of an economic Genealogy of Global Warming


Several authors, over the last few years, have tried to highlight the impact that the human species has had on nature. The concept of Anthropocene, from this perspective, has been used in different theoretical and political contexts, to highlight specific problems related to this historical phenomenon. In my paper, I will argue that global ecological risk is closely connected, ab origine, with capitalist development. To reach this goal, I will analyze Andreas Malm’s conception of Fossil Capital, which considers the relationship between Man and Nature in a way that deserves to be analyzed from different points of view.

  1. Introduzione

Riscaldamento globale, disastri naturali, green economy, inquinamento: queste keywords sono entrate a far parte, nel corso degli ultimi anni, del nostro gergo quotidiano. Tant’è vero che tutti o quasi, dai gazzettieri agli intellettuali, dai leader politici ai guru spirituali, dagli scienziati agli scrittori, dagli operai ai grandi industriali, intervengono con veemenza sulla questione ecologica, immaginando scenari apocalittici o proponendo soluzioni alquanto discutibili. Lo stesso Papa Francesco, nella sua enciclica Laudato si’, ha preso in esame questa problematica, presentando il degrado ambientale come la cifra della crisi generale, religiosa e morale anzitutto, che investe l’umanità intera. Nelle prime battute della sua enciclica, Papa Francesco lascia chiaramente intendere che la causa di tutti i mali è l’abbandono dell’Assoluto, la rinuncia a modellarsi a immagine e somiglianza di Dio:

l’ambiente naturale è pieno di ferite prodotte dal nostro comportamento irresponsabile. Anche l’ambiente sociale ha le sue ferite. Ma tutte sono causate in fondo […] dall’idea che non esistano verità indiscutibili che guidino la nostra vita, per cui la libertà umana non ha limiti[1].

 

Gli uomini hanno messo da parte le verità eterne, dimenticando che la natura è una e indivisibile, nella misura in cui «include l’ambiente, la vita, la sessualità, la famiglia, le relazioni sociali, e altri aspetti»[2]. Sulla base del ragionamento del Papa, la legge che regola la natura è la stessa che presiede alla vita morale delle comunità umane, perché Dio ha creato un universo – ma forse sarebbe meglio dire “cosmo” – all’interno del quale la persona umana deve svilupparsi senza mai porsi come il signore incondizionato dell’essente, cioè senza mai mettere in discussione, in alcun modo, quanto stabilito direttamente dalla volontà divina. Si tratta di una prospettiva teologica neo-giusnaturalistica, nella misura in cui «uno stretto rapporto di continuità se non di identità lega qui lex aeterna, lex naturalis e lex humana»[3]. Ciò che emerge dall’enciclica papale si presenta come teoreticamente riconducibile a una prospettiva metafisica nella quale essere liberi significa agire in sintonia con quella

ragione naturale che regge l’universo, regola a cui tutte le nature devono adeguarsi, strada maestra per il raggiungimento del bonum universi che è il fine a cui tutta la realtà tende in una provvidenzialità naturale in cui teismo e naturalismo coincidono[4].

 

La crisi ecologica non sarebbe altro che il risultato della tracotanza ontologica di anthropos, che, mettendo in discussione l’esistenza di istanze a lui superiori, decide di non prendersi più cura della Natura, vista come un complesso di enti da sfruttare per soddisfare, grazie all’ausilio della tecnologia, determinati bisogni materiali. Quella del Papa è una delle tante narrazioni filosofiche attraverso cui si cerca di esplorare le peculiarità fondamentali di un fenomeno vasto quale l’attuale situazione ecologica del pianeta Terra, chiamando in causa il dominio tecno-scientifico esercitato dall’uomo sulla Natura. Narrazioni che, spesso e volentieri, affondano le radici in un pregiudizio tecnofobico di fondo e rimandano, per motivi differenti, alla disamina heideggeriana dell’epoca della tecnica completamente dispiegata.

 

  1. Oltre l’Antropocene: il Capitale fossile

Negli ultimi anni, si è andato progressivamente affermando nella letteratura scientifica e filosofica un “nuovo” concetto, quello di Antropocene, che intende fornire una spiegazione profonda del famigerato climate change:

il termine Antropocene suggerisce che la Terra ha ormai superato la propria naturale epoca geologica, il presente stato interglaciale chiamato Olocene. Le attività umane sono diventate così pervasive e profonde che possono rivaleggiare con le grandi forze della Natura e stanno spingendo il nostro Pianeta verso una terra incognita planetaria[5].

 

Per Antropocene, dunque, si intende un’era geologica iniziata alla fine del diciottesimo secolo, quasi contemporaneamente – come spesso sottolineato da un’ampia letteratura in materia – all’invenzione del motore a vapore da parte di James Watt. Più precisamente:

Si potrebbe dire che l’Antropocene abbia avuto inizio nella seconda parte del diciottesimo secolo, quando le analisi dell’aria intrappolata nel ghiaccio polare hanno cominciato a mostrare una crescita globale di concentrazioni di anidride carbonica e metano. Questa data coincide inoltre con la progettazione del motore a vapore dovuta a James Watt nel 1784[6].

 

Questa cronologia, diventata virale col passare del tempo, chiama in causa tre elementi essenziali: un preciso momento storico (la fine del diciottesimo secolo), una determinata invenzione tecnologica (il motore a vapore a opera di James Watt) e un aspetto scientificamente misurabile (l’incremento delle emissioni di anidride carbonica e metano). L’Antropocene, insomma, sarebbe quell’era in cui l’uomo diventa la principale forza geologica, in grado di trasformare radicalmente la Terra attraverso la progettazione e l’utilizzo di tecnologie che richiedono il massiccio impiego di combustibili fossili. Alcuni autori si spingono oltre, arrivando addirittura a considerare l’invenzione del motore a vapore come un evento apocalittico:

La fine del mondo si è già verificata. Noi possiamo essere straordinariamente precisi circa la data della fine del mondo: aprile 1784, quando James Watt ha brevettato il motore a vapore, atto che ha contributo a creare depositi di carbone nella crosta terrestre, trasformando l’umanità in una forza geologica su scala planetaria[7].

 

Come sottolineato dallo studioso svedese Andreas Malm, questo concetto di Antropocene può essere messo in discussione da diverse angolazioni. Anzitutto, va rilevato che in quel periodo – nella seconda metà dell’Ottocento – le emissioni di anidride carbonica dovute alla deforestazione erano certamente più influenti di quelle derivanti dalla combustione di carburanti fossili. In secondo luogo, Malm sottolinea che diversi scienziati – ad esempio, Raupach and Canadell – spiegano in modo causale e deterministico il rapporto tra anthropos e gli stessi carburanti fossili, nella misura in cui ritengono che

l’essenziale catalizzatore nonché la ragione principale per la combustione di carburanti fossili su larga scala sia l’addomesticamento del fuoco avvenuto circa mezzo milione di anni fa ad opera di una particolare specie di primati[8].

 

Non mancano, altresì, quelli che, sulle orme di Karen Pinkus, sono del parere che il nostro presente, geologicamente parlando, inizia circa novecentomila anni fa, quando Homo erectus scopre, per così dire, il fuoco, compiendo il fatidico primo passo.

Secondo Malm, per superare questa nuova filosofia della storia che si serve del fuoco come unico principio esplicativo del divenire e dell’attuale crisi ecologica, occorre concentrarsi sulle condizioni economiche in senso lato che hanno permesso alla fine dell’Ottocento una vera e propria sinergia tra carburanti fossili e motore a vapore. A tal fine, lo studioso svedese introduce il concetto di “economia fossile”, ovvero

un’economia di crescita autosufficiente basata sul consumo crescente dei combustibili fossili, e quindi capace di generare un aumento costante delle emissioni di anidride carbonica[9].

 

Flirtando con Marx, Malm cerca di presentare una vera e propria disamina del contesto storico che ha agevolato l’accumulazione originaria del capitale fossile. Dal suo punto di vista, per accumulazione originaria del capitale fossile bisogna intendere quel processo

attraverso il quale il Capitale viene investito nella produzione di carburanti fossili mentre al tempo stesso cerca di dissolvere il legame tra i produttori diretti e la terra, recintando la natura per trasformarla in proprietà privata, esautorando agricoltori, cacciatori, pastori, pescatori e altri fino a quel momento indipendenti dal mercato, contribuendo alla creazione e all’espansione dei rapporti di proprietà capitalistici[10].

 

Malm cerca di andare oltre la concezione marxiana della cosiddetta “accumulazione originaria”, di quell’evento rivoluzionario e violento in virtù del quale

il grande signore feudale, in aperta guerra contro la monarchia e il parlamento, generò un proletariato senza dubbio più grande allontanando violentemente i contadini dal suolo sul quale essi avevano un identico titolo giuridico feudale, e usurpando le loro terre comuni[11].

 

La recinzione delle terre comuni e l’espropriazione dei piccoli contadini vengono intesi da Marx come il punto di partenza tragico della storia del sistema di produzione capitalistico, che si prefigge una vera e propria proletarizzazione della “massa del popolo”: in questo modo, i contadini inglesi, che in precedenza erano i possessori diretti dei mezzi di produzione, vengono trasformati in mercenari, costretti a vendere sul mercato la propria forza lavoro. Tuttavia, secondo Malm, sin dagli albori, il sistema capitalistico punta anche allo sfruttamento intensivo delle risorse energetiche presenti nei terreni sottratti ai contadini e ai grandi possedimenti ecclesiastici. Per essere ancora più precisi, osserva Malm, bisogna partire dal cosiddetto “balzo in avanti elisabettiano”.

John Nef, nel suo Rise of the British Coal Industry, propone una particolare interpretazione della carenza di legno che si abbatte su Inghilterra, Galles e Scozia, considerandola come il punto di partenza di un’economia proto-fossile, dal momento che per sopperire alla mancanza di materiale combustibile, viene sin da subito utilizzato il carbone. A dire il vero, le argomentazioni dello storico statunitense tendono ad accentuare gli effetti di una crisi per niente ampia: solo in alcune zone, ad esempio nella città di Londra, la “crisis fuel” produce evidenti ripercussioni socio-economiche. Perché vi possa essere un’economia fossile, devono essere soddisfatte determinate condizioni strutturali e giuridiche. Malm, infatti, sottolinea che le origini del cosiddetto “balzo in avanti elisabettiano” devono essere ricercate altrove, precisamente nel fatto che nel 1566 la Corona decide di privatizzare le risorse minerarie, eccezion fatta per oro e argento: in questo modo, i giacimenti di carbone diventano, da un giorno all’altro, proprietà privata.

L’effetto immediato di questo provvedimento si rivela devastante: comincia una sorta di caccia ai terreni ricchi di carbone; una volta individuati, si cerca di spodestare gli occupanti, privandoli di ogni diritto. Il passaggio dal legno al carbone rende, insomma, ancora più violenta l’espropriazione delle terre comuni, gettando, nel contempo, le basi per una trasformazione strutturale del sistema di produzione capitalistico, vale a dire, la nascita della cosiddetta “fossil economy”. In altre parole: il balzo in avanti elisabettiano, consistente nell’espropriazione delle risorse minerarie presenti nelle terre comuni, crea le condizioni storico-economiche per la futura ascesa dell’economia fossile e per l’ulteriore sviluppo-consolidamento di quelle relazioni sociali capitalistiche che a fine ‘700 rendono poi possibile il trionfo del motore a vapore.

Quest’ultimo, infatti, secondo Malm, prende il sopravvento per il fatto che il capitalista decide di servirsene per incrementare l’estrazione di plusvalore dalla forza lavoro. Per dirla diversamente: l’invenzione di Watt, che del resto dà la stura alle incredibili potenzialità dell’economia fossile, viene preferita ad altre soluzioni tecnologiche perché consente al capitalista di prevalere nella lotta di classe contro il proletariato.

 

  1. Il Capitale e il riscaldamento globale

L’interpretazione “materialistica” della causa fondamentale dei cambiamenti climatici – la fossil economy – e del connesso trionfo del motore a vapore potrebbe essere considerato come il punto di partenza per l’analisi di determinate questioni ecologiche e filosofiche di stringente attualità.

Anzitutto, Malm sottolinea il ruolo che il Capitale e le relazioni sociali capitalistiche, sin dagli albori, ricoprono nella modificazione dell’ambiente; non chiama in causa quanto avvenuto all’epoca dell’Homo erectus, vale a dire, l’addomesticamento del fuoco, ma cerca di proporre un’interpretazione che si basa su una rielaborazione del concetto marxiano di accumulazione originaria. Il filosofo svedese, dunque, parte da un evento storico circoscritto, facendo emergere l’enorme impatto ambientale prodotto nel tempo dal sistema di produzione capitalistico.

Mettendo da parte il conflitto linguistico-teoretico tra i sostenitori dell’Antropocene e quelli del Capitalocene, ciò che interessa maggiormente è la contestualizzazione del problema ecologico, cioè il tentativo di portare alla luce il modo in cui il Capitale, quale fenomeno storicamente determinato, abbia un legame diretto, intimo, con il cambiamento climatico e il degrado ambientale. Da questo punto di vista, si potrebbe osservare che il Capitale, ab origine, si trova a vivere un rapporto, a dir poco, conflittuale, col mondo naturale. Basti pensare come nel passaggio dal sistema di produzione feudale a quello capitalistico si modifichi progressivamente la relazione che l’uomo intrattiene con il tempo.

Nelle società precapitalistiche il tempo dell’uomo è il tempo della natura, da cui dipende la buona riuscita del raccolto e di tante altre attività riconducibili all’economia contadina. Il lavoratore salariato, al contrario, non dipende più dall’alternarsi delle stagioni o dalle condizioni meteorologiche, ma deve rispettare determinati standard di produttività. Ragion per cui la giornata lavorativa non è più modellata da fenomeni naturali che si ripetono ciclicamente, ma da precisi ritmi produttivi stabiliti da colui che possiede i mezzi di produzione, cioè dal capitalista, che interviene nel processo produttivo gestendo e pianificando scientificamente il tempo di lavoro.

Anthropos viene estratto, tirato fuori, dal mondo naturale, nella misura in cui il Capitale cerca di ridurre al minimo l’influenza che la natura stessa può avere, in modalità differenti, sul mondo umano. Questa contrapposizione Capitale-Natura viene accentuata non soltanto dall’emergere della cosiddetta economia fossile, ma anche dallo sviluppo e dall’impiego massiccio di tecnologie – ad esempio, il motore a vapore – che hanno reso molto più intenso lo sfruttamento delle risorse naturali e il degrado ambientale.

Analizzare le origini storiche del global warming significa, pertanto, porre le basi per una vera e propria genealogia del rapporto tra Capitale, Scienza e Tecnica, rapporto che non può essere letto servendosi dell’ormai desueto schema ermeneutico e deterministico “struttura-sovrastruttura”.

Capitale, scienza e tecnica possono essere visti, piuttosto, come i tre termini di una relazione dialettica, la cui comprensione rappresenta il punto di partenza per un’adeguata problematizzazione della crisi ecologica. Ma, per raggiungere questo obiettivo, occorre, innanzitutto, confrontarsi con quelle interpretazioni della storia della scienza e della tecnica tendenti a sottovalutare il contesto storico-economico all’interno del quale determinati progressi tecnico-scientifici si sono prodotti.

Si pensi, da questo punto di vista, ai testi eccezionali di Alexandre Koyrè, che, nel presentare in maniera magistrale le peculiarità fondamentali della Rivoluzione Scientifica, non prendono quasi mai in considerazione il ruolo che il Capitale ricopre nel processo di matematizzazione della natura, vero e proprio punto di partenza della visione del mondo meccanicistica. Come messo in risalto da Lewis Mumford,

Gli uomini cominciarono a diventare potenti nella misura in cui trascurarono il mondo reale fatto di grano e lana, cibo e vestiti, e si concentrarono sulla rappresentazione puramente quantitativa e simbolica del mondo stesso: pensare in termini di mero peso e numero, rendere la quantità non solo un’indicazione del valore ma il criterio del valore – quello fu il contributo del capitalismo alla Weltanschauung meccanicistica[12].

 

Il riconoscimento dell’interazione tra il sistema di produzione capitalistico e il progresso tecnico-scientifico può costituire il volano per una riconsiderazione complessiva del problema ecologico, che richiede un approccio metodologicamente rigoroso, in grado di prendere le distanze dalle mode del momento e dalle polemiche tra i sostenitori di teorie differenti, tra autori che sembrano interessati a quale sia l’etichetta più cool da utilizzare per definire l’impatto di determinate attività umane sull’ambiente naturale, piuttosto che alla conoscenza delle condizioni storiche in senso lato che hanno via via trasformato anthropos nella forza geologica par excellence.


[1] Papa Francesco, Lett. enc. Laudato si’, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015, p. 7.

[2] Ibid.

[3] G. Lissa, Anti-ontologismo e Fondazione etica in Pietro Piovani, Giannini Editore, Napoli 2001, pp. 192-193.

[4] P. Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna, Laterza, Bari 1961, p. 92.

[5] W Steffen, P. Crutzen, J. McNeill, The Anthropocene: Are Humans Now Overwhelming the Great Forces of Nature?, in «Ambio», 36, 2007, p. 614.

[6] P. Crutzen, Genealogy of Mankind, in «Nature», 415, 2002, p. 23.

[7] T. Morton, Hyperobjects: Philosophy and Ecology after the End of the World, University of Minnesota press, Minneapolis 2013, p. 7.

[8] A. Malm, Fossil Capital. The Rise of Steam Power and the Roots of Global Warming, Verso, London-New York 2016, p. 30.

[9] Ibid., p. 11.

[10] Ibid., p. 320.

[11] K. Marx, Il Capitale, tr. it. Newton, Roma 2015, (vers. E-book) pp. 8306-8307.

[12] L. Mumford, Technics and Civilization, Harcourt, Brace and Company, New York 1934, p. 25.

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