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Vita biografica vs. Vita biologica. la questione dell’anthropos in Karl Löwith

Autore


Fabiana Gambardella

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. L’uomo: questo sconosciuto
  2. Per un’antropologia della vita biografica
  3. Con-dividere il mondo

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S&F_n. 08_2012

Abstract



This work focuses on Karl Löwith’s anthropology. Despite the great number of anthropological studies carried out at the beginning of 20th Century and aimed at describing human nature by means of natural science (biology, ethology, zoology), Löwith elaborates an anthropology based on the concept of biographical life. Man is not a simple living being, he is also an unnatural being that produces himself through the relationship with the other within a shared world.

 


  1. L’uomo: questo sconosciuto

La tradizione umanistica occidentale considera da sempre l’uomo come quell’incompiuto che ha da compiersi, il neotenico che si prende tempo, più tempo degli altri, per raggiungere la forma perfetta, la bellezza, l’astuzia simbolica di abitare presso il linguaggio, la soverchieria di utilizzare strumenti per allontanare sempre più da sé la muta prepotenza e ostilità del dato naturale. L’uomo è l’ente che si prende cura, un ente tuttavia che sembra stagliarsi a partire da un’abissale solitudine: originariamente è il soggetto cogitante che pone innanzi a sé l’oggetto: pietre, case, tagliacarte, la volta del cielo e perfino Altri.

Gli anni tra il 1927 e il 1929 sono prolifici di studi e pubblicazioni che hanno come tema di riferimento l’uomo, che sembrano avvicinarsi a questo mistero antico con occhi nuovi, che intendono scandagliarlo come bruto dato biologico e come aperta questione esistenziale; in Germania gli esponenti dell’antropologia filosofica formulano interpretazioni a partire dai dati delle scienze: l’uomo diviene l’asceta della vita per Max Scheler, l’essere eccentrico e insondabile per Helmuth Plessner, l’animale carente che si costituisce attraverso l’azione, per Arnold Gehlen[1].

In Essere e Tempo al contrario, Martin Heidegger, rifiutando tout court ogni forma di antropologismo e biologismo e coniando parole nuove per questa questione antica, descrive l’esserci come già da sempre nel mondo, gettato in un orizzonte temporale e da sempre con-altri: «La caratterizzazione dell’incontro con gli altri […] non finirà per muovere anch’essa dalla delimitazione e dall’isolamento dell’“io”, per tentare poi un passaggio da questo soggetto isolato agli altri?». In effetti per Heidegger gli altri «Non sono coloro che restano dopo che io mi sono tolto. Gli altri sono piuttosto quelli dai quali per lo più non ci si distingue e fra i quali, quindi, si è anche […] Il con-essere è una determinazione dell’esserci sempre-di-qualcuno […] L’Esserci proprio di ognuno è incontrato dagli altri come un con-Esserci, solo perché l’Esserci stesso ha la struttura essenziale del con-essere»[2].

  1. Per un’antropologia della vita biografica

Nel 1928 viene dato alle stampe lo scritto di abilitazione di Karl Löwith, presentato l’anno prima alla Philipps-Universität di Marburgo, intitolato Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen. Ein Beitrag zur Anthropologischen Grundlegung der ethischen Probleme[3]. Si tratta della costruzione, elaborata sempre attraverso il metodo fenomenologico, di un’antropologia che può essere considerata sotto molti punti di vista alternativa rispetto ai risultati raggiunti dalle riflessioni coeve. Nell’analisi dell’umano l’allievo di Heidegger si serve della semantica del maestro: le parole che utilizza da subito sono Esserci e Mondo, che in questo caso si piegano però alla costituzione di un’antropologia. Il dato che emerge repentino è che per accedere al significato della vita, l’autore non ritiene necessario il confronto con le scienze biologiche, né la comparazione, che di prassi l’antropologia filosofica di questi anni ritiene inevitabile, dell’uomo col resto del vivente. La costituzione di questa antropologia avviene dunque senza il ricorso alle scienze. Su questo punto Löwith è molto chiaro, per lui «è insensato voler comprendere l’umanità dell’uomo a partire dalla sua discendenza animale»[4]. Tra i termini vita e mondo viene effettuata una distinzione: la parola vita presenta diverse declinazioni: la prima di esse corrisponde al bios, vita biologica che semplicemente distingue l’animato dal non animato, e che accomuna senza differenze tutti i sistemi viventi; tale vita risulta per l’autore «neutrale»[5].

La parola neutrale è rivelatoria: in un periodo di fervidi studi scientifici protesi a vivisezionare e analizzare la vita nei suoi più reconditi comparti; nel momento in cui la scienza è protesa a braccarla nelle sue variegate forme per stanarla, carpirne i misteri e soprattutto descriverne la multiformità, stabilirne e classificarne differenze – giacché non esiste la vita, ma le vite, che si presentano perfino all’occhio inesperto in infinite espressioni –; in un periodo in cui la parola vita non sta più a designare il semplice vitale, inteso come generica energia che si dispiega in tutto ciò che è, l’autore, completamente controcorrente, ci parla della vita biologica come neutrale. Ma la parola rinvia a una referenza. Neutrale rispetto a che? «Nel senso dell’indeterminatezza personale del semplice essere vivente»[6]. Ciò vuol dire che la vita presenta un valore aggiunto e diviene degna di un’attenzione analitica, solo laddove emerge e si costituisce nella determinatezza di una persona. Si tratta di un giudizio di valore, e la vita biologica essendo neutrale è indifferente al valore, che si costituisce invece esclusivamente nell’ambito del personale. Solo la persona rinvia al valore, e infatti la vita assume tutta la sua dignità quando diventa “vita biografica”, che corrisponde in Löwith alla seconda accezione della parola vita. Essa è «la vita declinata alla prima persona singolare, la vita di volta in volta propria dell’uomo»[7].

Il riferimento alla persona è importante e rinvia allo Scheler de La posizione dell’uomo nel cosmo, citato peraltro dall’autore all’interno del saggio[8]. È evidente che, come per il fondatore dell’antropologia filosofica, il valore della vita risiede nella protensione tutta umana al trascendimento della vita medesima, intesa come bios. La costituzione ontologica dell’umano è per Löwith ‘ambigua’. Egli riconosce questo fondo anonimo impersonale da cui l’ex-sistenza umana trae se stessa, ma afferma anche che questo stesso modo originario di essere vitale è in fondo già da sempre predeterminato antropologicamente. Per cui i fondamenti della vita umana risultano allo stesso tempo naturali e denaturati: «Senza dubbio l’uomo viene al mondo, al pari di un animale, come essere vivente, impersonalmente anonimo; d’altra parte, il modo e la maniera del suo esserci vitale è predeterminato, dall’inizio alla fine, antropologicamente»[9].

Il punto non starebbe nello stabilire il primato ontico dello spirituale rispetto al naturale o viceversa, ma nel cercare di analizzare la loro «problematica unità nell’uomo»[10]. L’umano è caratterizzato infatti proprio da una duplicità ontologica che fa di lui un ente né naturale, né spirituale, bensì in-naturale, laddove questo termine rimanda a un esserci che è allo stesso tempo dentro e fuori la natura, sorgente da essa ma da essa sporgente. Il concetto di innaturalità dell’uomo evoca la prima legge antropologica delineata da Plessner ne I gradi dell’organico, cioè quella dell’artificialità naturale: il vivente uomo è artificiale per natura, unico ente che necessita di un complemento in-naturale per realizzarsi, impostogli dalla sua stessa forma vitale[11]. L’eccentricità è proprio questo stare contemporaneamente sia dentro la natura e la costrittività delle sue leggi, sia fuori, nello spazio aperto del valore e della storia.

  1. Con-dividere il mondo

La parola mondo al contrario possiede un’unica accezione: essa ha sempre un significato umano, antropologico; fedele a Heidegger, l’esserci descritto da Löwith è sempre essere nel mondo, e questo mondo si dispiega in origine sempre e solo in una modalità relazionale: il mondo è il mondo del con e l’essere nel mondo si costituisce fin dal principio come con-essere. In che cosa allora la riflessione di Löwith differisce dalla sezione di Essere e tempo dedicata per l’appunto al Mitsein? Nel capitolo quarto dell’opera, dopo aver sviscerato la struttura dell’esserci come essere nel mondo e avere descritto la mondità del mondo, lo studioso di Meßkirch passa a scandagliare la dimensione del con. Egli afferma che le strutture dell’esserci cooriginarie all’essere nel mondo sono il Con-essere e il con-esserci. Per Heidegger come non si dà un soggetto senza mondo, così non risulta possibile un io isolato senza gli altri[12]. La riflessione di Löwith pone in discussione questi stessi postulati iniziali; per l’allievo di Heidegger la dimensione del con è addirittura più originaria dell’essere presso il mondo, dato che il mondo è prima di tutto la vita umana nella sua dimensione relazionale. La struttura della cura si costituisce originariamente come ‘cura degli altri’: l’avere cura precede dunque il prendersi cura dell’ente utilizzabile. Il discrimine fondamentale tra le due analisi ha probabilmente una rilevanza etica più che teoretica: nell’analitica esistenziale il Con costituisce sì la dimensione originaria dell’esserci, ma è tuttavia e per lo più il suo sfondo deiettivo improprio, non-autentico. È vero che l’aver cura degli altri presenta in Heidegger due diverse e antitetiche declinazioni, una delle quali ha una valenza positiva: se la prima consiste nel “sollevare” gli altri dalla cura, intromettendosi al loro posto e stabilendo perciò su di essi un tacito dominio, all’estremo opposto si trova invece un avere cura che «presuppone gli altri nel loro poter essere esistentivo, non già per sottrarre loro la “Cura”, ma per inserirli autenticamente in essa»[13].

Il con origina la domanda sul Chi: chi sono questi altri di cui si ha cura? In Heidegger il Chi sembra in ultima analisi rimandare al Si: «Il Chi non è questo o quello, non è se stesso, non è qualcuno e non è la somma di tutti. Il “Chi” è il neutro, il Si»[14]. Questa modalità di essere con dilegua gli altri nella loro determinatezza: nella quotidianità, che si sostanzia in un’immedesimazione deiettiva col mondo, il Si esercita la sua tirannia impedendo all’esserci il realizzarsi della sua possibilità più autentica, della sua responsabilità più concreta. La conseguenza di questo essere con è che «ognuno è gli altri, nessuno è se stesso»[15]. Solo nella situazione emotiva dell’angoscia si schiude per l’esserci la possibilità di una decisione autentica; l’autenticità costituisce una dimensione a cui l’esserci accede attraverso uno strappo all’interno del suo sfondo deiettivo; nell’angoscia l’ente intramondano perde la sua significatività: se mondo e con-essere sono cooriginari, ciò vuol dire che nell’angoscia è la relazione stessa e dunque l’altro che diviene insignificante: «Il “mondo” non può più offrirci nulla, e lo stesso il con-Esserci degli altri»[16]. Ma è proprio in questa situazione di isolamento ontologico che l’esserci si apre alla sua più alta possibilità. Heidegger è molto chiaro su questo punto, ed è proprio su questo punto che si consuma il distacco con l’allievo: l’esserci difatti «solo a partire da se stesso può essere ciò che è: cioè come isolato e nell’isolamento»[17]. È solo in questa situazione di solitudine, di spaesamento, che l’esserci può acquisire la libertà di scegliere e possedere se stesso. La decisione, la scelta per una vita autentica si consuma sempre e solo nello spazio chiuso e circoscritto dell’angoscia, che è stato d’animo individuale per eccellenza, sentire che non si fa dialogo, incomunicabile e incondivisibile.

Löwith utilizza la lingua di Heidegger contro Heidegger e nel suo scritto si rivolge direttamente al maestro, proprio in relazione al concetto di Cura, e precisamente alla sua accezione più positiva, cioè alla cura dell’altro intesa come un lasciar essere l’altro. In realtà per Löwith l’aver cura dell’altro, interpretato da Heidegger come un lasciar essere l’altro, «pretende assolutamente l’altro come suo e, nel momento in cui a lui stesso la libertà, gli toglie proprio la sua libertà originaria, privando al contempo se stesso “di un libero rapporto con l’altro”»[18]. Secondo Löwith questo rilascio non solo non viene in aiuto all’altro, ma preclude la possibilità di un’autentica relazione. Anche in questo caso si pone la domanda sul Chi sia l’altro. Esso si configura come Tu, si declina sempre alla seconda persona. In questa accezione il Tu non è un semplice precipitato del medesimo, ma ciò che mi determina a ogni istante come Io. Solo il Tu, non qualsiasi altro, è autenticamente mio simile, e la sola comunicazione autentica si da a “quattr’occhi”, tra due, laddove il singolo esce fuori di sé, ma non come dinnanzi a uno specchio, al cospetto della sua medesima immagine duplicata, bensì come «uno di due»[19]. Qui si costituisce per Löwith il concetto ontologico di essere-con. Il Tu, la seconda persona, si distanzia profondamente dall’Egli: in base alla logica formale si tratta in entrambi i casi di non-io, ma mentre la terza persona troverebbe il suo fondamento in una percezione oggettiva, il Tu è nella sfera del «comune agire attraverso il reciproco influsso»[20]. L’io e il tu si determinano reciprocamente nel discorso che è parlare responsabile, cioè parlare che genera una risposta; solo tra io e tu può aver luogo l’equità che si sostanzia nel domandare e rispondere. L’altro va interpellato sempre come Tu, mai come altro io, monade solipsistica, né come oggetto di un soggetto, nel qual caso gli si impedirebbe la possibilità dialogica: «Chi rivolge la parola ad un altro in questo modo, non solo non si aspetta di vedersi chiedere ragione […] bensì implicitamente impedisce una risposta che gli corrisponda»[21]. Il Tu non è dunque il tu di un io, ma un “Tu stesso”. La critica di Löwith al Mitsein di Heidegger sta proprio nel fatto che per l’esserci il mondo del con risulta esistentivamente insignificante. Smarrito entro la pubblicità del Si, l’uno non è mai autenticamente insieme all’altro. Löwith coglie pienamente la valenza positiva dell’isolamento rispetto alla deiezione nel mondo del Si dell’analitica esistenziale; e in riferimento a Essere e tempo afferma infatti: «La prima persona si riprende dallo smarrimento del “si”, non perché si lasci determinare come “prima persona” (io) attraverso una pari “seconda persona” (tu), ma perché strappa se stessa alla pubblicità generale attraverso un radicale isolamento su se stessa, contrapponendosi in tal modo, in quanto io, al si»[22]. Ecco perché Löwith, come e diversamente da Scheler, costruisce la sua antropologia sul concetto di persona: trae questo concetto dall’etimologia della parola stessa: persona come maschera, che giunge a se stessa attraverso la realizzazione di un ruolo. Di fatto ogni ruolo implica una relazione, la presenza di un Tu al quale rivolgersi e dal quale attendere una risposta. È qui che il concetto di persona di Löwith prende le distanze da quello di Scheler: per il secondo infatti la persona rimane l’io singolo, la questione dell’originarietà ontologica del con non viene affrontata. Tale mondo del con si caratterizza semplicemente come la somma matematica dei tanti io presenti gli uni accanto agli altri. Non è presente in Scheler la questione della co-determinazione reciproca dell’io e del tu. Il suo punto di partenza resta l’io sono, che «non subisce una critica sostanziale, ma viene soltanto integrato oggettualmente attraverso il riconoscimento di altri io, i quali, però, come tali devono restargli necessariamente altrui e le cui possibili concatenazioni vengono mostrate successivamente»[23].

In effetti, malgrado la reticenza di Löwith rispetto al confronto con le scienze, lo studioso sembra anticipare gli esiti della biologia contemporanea, laddove essa sostiene che l’io sarebbe una proprietà emergente dalla relazione; nella fattispecie l’epistemologia biologica di Humberto Maturana e Francisco Varela, sottolinea quanto l’ipseità, l’autocoscienza, non sia un fenomeno biologico, ma sociale e linguistico, non direttamente ascrivibile al substrato biologico, sebbene da esso dipendente: «le funzioni umane più elevate non avvengono nel cervello: il linguaggio, il pensiero astratto, l’amore […] non dipendono dal sistema nervoso come reticolo neuronale, ma sono fenomeni socio-storici[24]». Esse infatti, pur essendo potenzialità di una certa struttura corporea, emergono solo in quel mondo del “con” all’interno del quale l’esserci è. Lungi dall’essere il fatto originario allora, l’autocoscienza si staglierebbe soltanto a partire da un orizzonte di condivisione, dallo spazio comune dell’essere gli uni-con-gli-altri.


[1] M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, tr. it. Franco Angeli, Milano 2000; H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2006; A. Gehlen, L’uomo. la sua natura e il suo posto nel mondo, tr. it. Mimesis, Milano 2010.

[2] M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. Longanesi, Milano 1988, cap. IV, § 26, p. 153 e p 156.

[3] K. Löwith, L’individuo nel ruolo del co-uomo, tr. it. Guida, Napoli 2007.

[4] Ibid., p. 90.

[5] Ibid., p. 88.

[6] Ibid.

[7] Ibid.

[8] Cfr. p. 89, n. 5.

[9] Ibid., p. 88.

[10] Ibid., pp. 88-89. In effetti il problema della descrizione dell’umano a partire dalla sua integrità “psico-fisica”, è il problema di fondo che permea l’antropologia filosofica del Novecento: «L’uomo “in sé e per sé” non esiste come corpo (se con corpo si intende lo strato oggettivato delle scienze naturali), non come anima e flusso di coscienza […] ma come unità vitale psicofisicamente indifferente, o neutrale»; e ancora: «Si trattava di stabilire il legame tra natura e spirito e la posizione dell’uomo da una nuova prospettiva», cfr. H. Plessner, op. cit., p. 55 e p. 29.

[11] Ibid., p. 332.

[12] M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., cap. IV, p. 148 e p. 151.

[13] Ibid., § 26, p. 158.

[14] Ibid., § 27, p. 163.

[15] Ibid., p. 164.

[16] Ibid., § 40, p. 235.

[17] Ibid., p. 236.

[18] K. Löwith, l’individuo nel ruolo del co-uomo, cit., p. 156.

[19] Ibid., p. 130.

[20] Ibid., p. 179.

[21] Ibid., p. 186.

[22] Ibid., p. 154.

[23] Ibid., p. 206.

[24] H. Maturana, Autocoscienza e realtà, tr. it. Cortina, Milano 1997, p. 96.

 

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