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Psecodrammi

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Paolo Amodio

Università degli Studi di Napoli Federico II

Editor in chief

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S&F_n. 02_2009


Dal punto di vista chimico l’atmosfera terrestre è un assurdità. Mentre le atmosfere di tutti gli altri pianeti conosciuti sono vicinissime a uno stato di equilibrio chimico – cioè alla morte – quella della Terra è caratterizzata da un «anomalo disequilibrio» tra gas riducenti (metano e idrogeno) e gas ossidanti (ossigeno e anidride carbonica), in modo da mantenere costante una miscela altamente reattiva come quella tra metano e ossigeno. Il trucco di quest’apparente assurdità sta nella vita:  l’ossigeno molecolare è infatti il sottoprodotto del metabolismo di diverse specie biologiche. È la vita, insomma, che da alcuni miliardi di anni mantiene l’atmosfera terrestre ben lontana dall’equilibrio chimico. Piuttosto che essere un pianeta ospitale nei confronti della vita, si potrebbe allora dire che la Terra è un «pianeta vivente». Sintetizzato nella suggestiva metafora di Gaia, questo è infatti l’assunto di gran parte dell’ambientalismo contemporaneo.

Ambientalismo che, stimolato dai dati sempre più allarmanti relativi all’aumento dell’erosione della biodiversità e inoltre esasperato dall’irritante debolezza con cui gli attori sociali e i decisori politici fingono di reagire a un esorbitante inquinamento atmosferico (è il caso di segnalare che la conferenza di Copenaghen si è appena conclusa con un nulla di fatto, rinviando ulteriormente gli obiettivi di riduzione di CO2 al 2020), non trova altra risposta alla crisi ambientale che puntare tutto sull’assolutezza dell’elemento naturale contro la nefasta interferenza dell’elemento antropico. L’ambiente, in moltissime correnti del pensiero ecologista, ha finito così per assumere il ruolo di una totalità – la Natura – da opporre a un’altra totalità – l’Uomo, quasi si trattasse di due sistemi chiusi. Sebbene non ci sia alcun dubbio che la specie umana, da sola, è ormai in grado di alterare in modo definitivo equilibri sanciti da milioni di anni di evoluzione biogeochimica, e che quindi l’agente umano rappresenta un’eccezione nell’eccezione rappresentata da Gaia, lo schema di chi vuol continuare a pensare in termini oppositivi il rapporto tra l’uomo e la terra pare destinato a fallire. Possiamo forse continuare a pensare l’uomo ora come custode (nel bene) ora come devastatore (nel male) di un qualcosa comunque concepito come una costante alterità (l’ambiente)? Possiamo continuare a immaginare un ambientalismo fondato su un’ontologia pre-darwiniana? 

Che tale impostazione abbia ormai il fiato corto ce lo suggerisce anche una disciplina come l’epidemiologia, poco frequentata dalla filosofia eppure come poche altre al liminare tra le humanities e le hard sciences. La crisi ambientale è innanzitutto una crisi che investe la salute dell’uomo e del suo territorio ed è proprio nei mille reticoli che connettono uomo, ambiente e territorio che una scienza osservazionale come quella epidemiologica può forse risultare più utile di altre al fine di scompaginare schemi concettuali resi inattuali da nuove idee di natura, di ambiente, di uomo e, last but not least, di rischio.

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