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Netnografia, storia di un paradosso

Autore


Alex Giordano

Alex Giordano è co-direttore del Centro Studi Etnografia Digitale e docente di Società delle Reti e Societing presso lo IULM di Milano

Indice


 


  1. Intro
  2. Social Media: mezzi di comunicazione e di consumo di massa
  3. Le competenze dei consumatori
  4. La netnografia

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S&F_n. 08_2012

Abstract



Within our society consumption appears to be more and more the main carrier of the identity construction of individuals, and is gradually replacing the role played by work in the past. Therefore in contrast with classical economy theory – consumption  becomes eminently productive. At the same time (and in contrast with the classical theory of marketing) the consumer can no longer be considered as a passive container of needs to be filled at will, but must be regarded as an active social agent with specific skills. Netnography stems from the awareness of these changes and in this article the author shows the characteristics of this method, specifically designed to study cultures and communities online.

 

 


  1. Intro

L’iconografia cinematografica e massmediatica degli anni ’90 ci insegnato a considerate l’Internet come il regno della “realtà virtuale”, una realtà completamente avulsa da quella del “mondo vero”, addirittura in grado di corromperne l’essenza. Un esempio su tutti è il film The Matrix (di Andy e Larry Wachowski), nel quale si racconta appunto di Matrix, un mondo virtuale creato dalle macchine al fine di negare agli esseri umani l’accesso al mondo reale.

Secondo Nathan Jurgenson, sociologo dei nuovi media presso l’Università del Maryland, tale contrapposizione tra realtà virtuale e realtà analogica è del tutto obsoleta e scorretta; al contrario, reale e virtuale sono al tal punto interconnessi da poter parlare di un’unica “Realtà Aumentata”. Ci troviamo a vivere in un mondo, sostiene il sociologo, in cui Facebook è sempre più reale e il nostro mondo materiale sempre più digitale.

Per comprendere la correttezza e la coerenza di questa affermazione basti pensare alla penetrazione che i social media e le tecnologie digitali hanno nella nostre vite quotidiane: si pensi alla geo-localizzazione (alla base di social network come Foursquare o Facebook Places), alla visione delle strade via satellite, ai device per il riconoscimento facciale, si pensi ancora a Goolge Flu Trends, una piattaforma in grado di anticipare le “epidemie” di influenza grazie al conteggio delle query legate a termini come “influenza”, “sintomi dell’influenza”, all’impatto che Twitter ha avuto sulla Primavera Araba. Si consideri, infine, come Facebook non solo domini la nostra vita (le persone infatti usano Facebook per riprodurre e coltivare le proprie reti amicali offline), ma anche la nostra morte: il social network pullula letteralmente di pagine commemorative, in cui parenti e amici dell’estinto interagiscono sia tra di loro che col defunto (o almeno con le tracce digitali da esso lasciate).

La realtà quotidiana si configura quindi come tecnologica e organica, digitale e materiale allo stesso tempo, ed è esattamente questo che intende Jurgenson quando parla di Realtà Aumentata, la realtà effettiva in cui tutti ci troviamo immersi.

  1. Social Media: mezzi di comunicazione e di consumo di massa

L’Internet è ormai diventato un mezzo di comunicazione di massa. La sua massificazione è dovuta principalmente all’avvento del Web 2.0, il cosiddetto web sociale. Architrave del Web 2.0 sono, appunto, i social media, piattaforme online che consento un scambio comunicativo orizzontale (many-to-many), e all’interno dei quali gli utenti co-generano i contenuti di cui fruiscono (gli user generated content – Ugc). Giusto per aver un’idea della portata sociale della diffusione dei social media citiamo alcuni dati Facebook – il social network che nell’immaginario collettivo è ormai diventato il social media par excellence. Attualmente l’Italia conta circa 21.297.400 utenti Facebook, pari circa al 37% della sua popolazione complessiva e al 70% della popolazione degli utilizzatori della Rete. La popolazione Facebook risulta inoltre equamente distribuita a livello anagrafico; ecco la distribuirne dei vari range: 25-34 anni (26%), 18-24 (23%), 34-44 (20%), 45-54 (11%)[1].

Oltre che mezzo di comunicazione di massa, il Web 2.0 sta diventando sempre più un luogo di consumo di massa. Migliaia di consumatori accedono giornalmente ai social media per discutere di brand e prodotti, rispetto a cui propongono valutazioni, citriche, modifiche, miglioramenti. In Italia, ad esempio, dove gli utenti Internet abituali ammontano al 53% della popolazione, ben il 66,3% di questi (la maggioranza) dichiara di servirsi del mezzo per informarsi circa beni e servizi commerciali[2]. Questa tendenza trova poi eco in una fonte statistica prettamente digitale: Alexa.com, portale web che classifica i siti secondo il relativo volume di traffico. Relativamente alla classifica italiana troviamo, già nella top 30, siti come E-bay, Amazon e Groupon, rispettivamente collocati alla 10a, 19a e 28a posizione.

Questo fitto scambio di informazioni commerciali dal basso non è altro che quello che la teoria del marketing contemporaneo chiama passaparola digitale. Il passaparola digitale rappresenta un asset immateriale dotato di un concreto valore economico, sia per i consumatori che per le aziende. Da una parte infatti esso orienta e influenza gli acquisti delle persone, in quanto per l’acquirente il passaparola riduce il rischio: si tratta di un’esperienza presa a prestito gratuitamente da altri, da persone di cui ci si fida perché, a differenza dell’advertising classico, le loro esperienze sono considerate autentiche, non finalizzate alla vendita. Dall’altra, per le aziende, il continuo chiacchiericcio dei consumatori online rappresenta un bacino in cui vengono prodotte e ri-prodotte due risorse estremamente strategiche: informazione e reputazione. Le informazioni sono alla base di ogni pianificazione di business e/o di marketing, mentre la reputazione, ovvero il «sentimento pubblico generale circa un prodotto, una persona o un servizio»[3], se positiva, si traduce in un miglioramento dei risultati economici-finanziari, competitivi e sociali nel lungo periodo.

Sebbene la presenza dei consumatori online sia massiccia, allo stesso tempo le attitudini di consumo che essi esprimono non sono affatto massificate, ovvero a dire che non sono né facilmente prevedibili e nemmeno agevolmente manipolabili. È per questo motivo, dunque, che urge fare chiarezze sulla natura antropologica del consumatore contemporaneo e su quella economica delle sue competenze.

 

  1. Le competenze dei consumatori

All’interno delle nostra società il consumo appare essere sempre più il vettore principale della costruzione identitaria degli individui, che si sostituisce progressivamente al ruolo avuto in passato dal lavoro. Però, a parere di Bernard Cova (sociologo dei consumi e Guru del Marketing Tribale), ciò non significa necessariamente che «le persone siano totalmente votate a spese sfrenate ed edonistiche, né tantomeno che siano sempre e comunque interessate ad attività di co-creazione con le imprese»[4]. Vuol dire, piuttosto, che il consumo è diventato il palcoscenico principale dell’auto-affermazione personale, il luogo dell’ostensione della propria identità e dei propri valori morali. Non è un caso, prosegue Cova, che, a livello collettivo, tra i trend culturali di consumo emergenti ritroviamo quello del green (legato ai valori della sostenibilità ambientale e sociale) e del consumer empowerment (ideologia che valorizza l’autonomia del consumatore nei confronti delle imprese). A livello individuale, invece, si può constatare la tendenza sempre crescente a utilizzare il Web 2.0 come luogo pubblico dove comparare, valutare e contestare prezzi, brand, prodotti e servizi. In tal modo, per il consumatore, l’Internet diventa lo spazio privilegiato per la messa in scena della propria identità e dei propri valori.

Ecco allora che il consumo, in contrasto con la teoria economica classica, che voleva produzione e consumo come due sfere nettamente separate (l’una interna ai processi aziendali e l’altra esterna), diventa un’attività eminentemente produttiva. Allo stesso tempo (questa volta in contrasto con la teorica classica del marketing) il consumatore non può più essere considerato come un passivo contenitore di bisogni da riempire a piacimento, ma deve essere considerato come un attore sociale attivo dotato di specifiche competenze. Tali competenze sono principalmente culturali, e si declinano sia in senso materiale (in quanto volte a creare innovazione attorno alle merci), che in senso simbolico (in quanto volte a creare nuovi significati attorno alle merci). Ed è esattamente il Web 2.0 il luogo in cui, oggi, le competenze dei consumatori trovano uno spazio naturale in cui istituzionalizzarsi e capitalizzarsi.

Detto questo però sorge immediatamente un grosso problema: come è possibile infatti estrarre dalla matassa delle conversazioni online, all’interno delle quali si intrecciano senza soluzione di continuità identità, critiche, valutazioni e innovazioni, un insieme coerente di informazioni che possano risultare veramente significative e strategiche per un’azienda? Detto in altri termini, in che modo è possibile valorizzare la massa grezza delle conversazioni dei consumatori online e capitalizzarne le competenze ivi nascoste?

Ovviamente è necessario l’impiego di un metodo scientifico ad hoc e rigoroso, e questo metodo si chiama Netnografia.   

  1. 4. La netnografia

Il termine netnografia è un neologismo che combina tra loro le parole Internet e Etnografia. La netnografia quindi è un metodo di ricerca qualitativo di matrice etnografica che consente al ricercatore di immergesi nelle conversazioni online dei consumatori ed estrarne informazioni significative. Tramite l’impiego di tecniche di osservazione naturalistiche (ovvero dirette e non intrusive), la netnografia riesce ad arrivare al cuore dei contesti emozionali, sociali e culturali all’interno dei quali gli utenti producono e riproducono le loro esperienze di consumo, portando così alla luce tutta una serie di insight commerciali di rilevo, utili a orientare le strategie di business e di marketing delle aziende.

Come si è detto, infatti, con l’avvento del Web 2.0, l’Internet è diventato sia un mezzo di comunicazione di massa che di “consumo di massa”: migliaia di consumatori accedono giornalmente ai social media per discutere di una vasta gamma di brand e prodotti, rispetto a cui propongono valutazioni, citriche, modifiche d’uso, miglioramenti e innovazioni. Ecco allora che per le aziende diviene cruciale agganciare tale user-driven innovation ai propri processi produttivi e di costruzione dell’immagine del Brand.

Perciò, grazie alla sua capacità sistematica di ricostruire gli ambienti e le culture di consumo online, la netnografia aiuta le aziende a tradurre, in maniera scientifica, le conversazioni dei consumatori in asset strategici come Brand Reputation, Product Innovation, Communication Design, Customer Satisfaction

Sociologicamente la netnografia può essere definita come “un’etnografia adattata alla complessità del mondo sociale contemporaneo”, ovvero un metodo di ricerca di derivazione antropologica in grado di fornire una via d’accesso privilegiata alla comprensione della «vita al tempo della cultura tecnologicamente mediata»[5]. Essa si caratterizza per essere un metodo ibrido e flessibile, che attraverso l’uso combinato e “promiscuo” di varie tecniche di ricerca (osservazione diretta delle interazioni online, interviste faccia a faccia, via mail o chatroom, survey, ecc.) cerca di addivenire a una conoscenza integrata della realtà al di qua e al di là dello schermo.

Il termine netnografia è stato coniato dal sociologo e marketer Robert Kozintes, il quale sviluppa questo metodo all’interno dei domini teorici del Marketing Tribale e della Consumer Culture Theory[6]. Germinando nel brodo di coltura degli studi di consumo, la netnografia si configura dunque come un metodo di ricerca qualitativa precipuo allo studio della cultura di consumo online, sia per finalità sociologiche che di marketing. In particolare si dimostra molto funzionale al social media marketing, ovvero a quella tecnica di marketing che monitora e capitalizza le informazioni prodotte dalle interazioni comunicative degli utenti della Rete all’interno dei social media.

Negli ultimi anni la materia è stata portata avanti con continuità dal Centro Studi di Etnografia Digitale, nato in seno a un progetto accademico che ha visto collaborare diverse università internazionali, co-diretto da Adam Ardvisson e dal sottoscritto e che vede nel suo organico ricercatori di primissimo rilievo sia sul campo dell’implementazione di piattaforme software che dal punto di vista dell’analisi interpretativa.

In termini di ricerche di mercato qualitative possiamo dire che il valore aggiunto della netnografia è quello di mettere in esistenza un enorme Focus Group 2.0. Rispetto ai Focus Group tradizionali, quello 2.0 presenta due vantaggi fondamentali:

1) Fornisce dati qualitativi naturalistici e non distorti, in quanto spontaneamente generati dai consumatori;

2) Consente una quantificazione dei dati qualitativi, cioè a dire permette di monitorali, tracciarli, mapparli e visualizzarli così da far emergere, in maniera oggettiva, le connessioni culturali sottostanti.   

È precisamente la natura unbiased e quantitativa dei dati qualitativi estratti attraverso il metodo netnografico, che consente la traduzione scientifica e rigorosa delle conversazioni dei consumatori online in Advertising Design, Communication Design, Product Design, Trend Watching, Cool Haunting e Brand Reputation.

Come la teoria e la pratica del marketing sanno bene, il consumatore postmoderno è una creatura imprevedibile, consuma tutto, senza un’apparente logica di fondo: al mattino va da McDonald’s e la sera, altrettanto pacificamente, mangia nella trattoria calabrese sotto casa; il sabato sera va a ballare al Plastic e la domenica lo ritroviamo al concerto dei Korn; si veste nei mercatini dell’usato che esplora a passo di costose Converse All Stars. Il suo atteggiamento ondivago e onnivoro si deve principalmente al fatto che il consumo postmoderno, a differenza di quello moderno, si configura come una pratica atta a distinguersi dalla massa, e non a conformarvicisi. Tuttavia tale condizione non deve far pensare che il consumatore postmoderno si sia tramutato in un essere egoista ed edonista. Infatti il consumatore postmoderno è per definizione riflessivo, ovvero pienamente consapevole dell’impatto sociale e ambientale che i suoi acquisti hanno sul Pianeta. Ecco dunque che per quest’ultimo non è tanto importante cosa consumare, ma come lo si fa. Ed è per questo che egli è alla continua ricerca di quei frame di giustificazione che gli permettano di spiegare i suoi acquisti, di renderli legittimi ai suoi occhi e a quelli degli altri.

Il frame che funge perfettamente a questo scopo è quello dell’autenticità, in quanto cornice di senso che media tra le opposte istanze di individualismo e comunitarismo, che convivono nella mente del medesimo consumatore. Da una parte, infatti, l’esperienza di consumo autentica può essere intesa come esperienza originale, che distingue dagli altri; dall’altra l’esperienza di consumo autentica può essere intesa come originaria, ovvero che lega agli altri, alla natura, al territorio, alle tradizioni – si pensi a un gruppo di ex-compagni di scuola che festeggia la rimpatriata in un agriturismo in mezzo alla montagne. A ogni modo, sia che si configuri come originale che come originaria, l’esperienza di consumo autentica è sempre, paradossalmente, quella de-commercializzata.   

Quanto detto sin’ora ci fa capire subito che l’autenticità non è qualcosa di intrinseco agli oggetti, né tanto meno di qualcosa di universale. Al contrario, come affermano Alice Marwick e Danah Boyd[7], l’autenticità è sempre qualcosa di contestuale: l’autenticità è un artefatto culturale socialmente costruito, che si definisce come tale solo se messo in contrapposizione con qualcos’altro, qualcosa di in-autentico. Gli amanti del Nesquik, ad esempio, considerano il prodotto come “autentico” in quanto indelebilmente connesso ai loro ricordi infantili, e, viceversa, denigrano lo Sprint in quanto surrogato fasullo, e dunque inautentico. Alla stessa maniera, però, gli amanti dello Sprint saranno portati a celebrare il prodotto come vero e unico simbolo della loro infanzia perduta, etichettando invece il Nesquik come inautentico, in quanto “troppo commerciale”.

A questo punto però si pone un serio problema di marketing: come si fa ad assegnare a un brand un’aurea di autenticità che sia però in sintonia con gli ideali di autenticità dei consumatori? Infatti, cercare di costruire l’autenticità del prodotto è esattamente una di quelle pratiche commerciali che i consumatori percepiscono come in-autentica. Curiosamente la cosa è più semplice di quanto non si pensi: basta agganciare il brand a un immaginario che già gli stessi consumatori reputano autentico, cioè a dire: basta andare a scavare in quei giacimenti di autenticità già “presenti in natura”. Ed è esattamente qui che la netnografia interviene e mostra il suo valore aggiunto, in quanto metodo specificatamente atto a catturare insight culturali all’interno delle tribù di consumo online, ovvero conversazioni autentiche generate in luoghi naturali.

E questo è quello che fanno le marche. E appena cominceranno enti, politici, istituzioni a interrogarsi sulle possibilità di estrarre senso dai “big data”, dalla rete di informazioni che avvolge il mondo?


[1] http://www.socialbakers.com/facebook-statistics/italy/last-3-months.

[2] A tal proposito si veda il County Report 2011 della Open Society Foundations http://www.etnografiadigitale.it/2012/01/mapping-digital-mediai-in-italy-una-ricerca-di-gianpietro-mazzoleni-sergio-splendore-e-giulio-vigevani/.

[3] A. Hearn, Structuring feeling: Web 2.0, online ranking and rating, and the digital reputation economy, in «Ephemera. Theory & Politics in Organization», 3, 2010, p. 422.

[4] A. Carù e B. Cova, Marketing e competenze dei consumatori. L'approccio al mercato nel dopo-crisi, Egea, Milano 2011, p. XIII.

[5] R. V. Kozinets, Netnography. Doing Ethnographic Research Online, Sage, London 2010, pp. 3-4.

[6] Un filone sociologico legato agli studi culturali sui consumi nato negli Stati Uniti negli anni ’80. Per un approfondimento si veda E. J. Arnould e C. J Thompson, Consumer Culture Theory: Twenty Years of Research, in «Journal of Consumer Research», 31, 2010, pp. 868-882.

[7] Cfr. A. Marwick e D. Boyd, I Tweet Honestly, I Tweet Passionately: Twitter Users, Context Collapse, and the Imagined Audience, in «New Media & Society», 7, 2010, pp. 1-20.

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