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Filosofare alla fine dei tempi. Riflessioni agambeniane

Autore


Alessandra Scotti

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Intro
  2. Apocalissi e tempo messianico: ho nyn kairós
  3. Chronos e kairós
  4. Sperren
  5. Lettera/Spirito
  6. Cosa (non) fare?

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S&F_n. 08_2012

Abstract



This work focuses on the apocalyptic nature of Giorgio Agamben's philosophical works. The dialogue with Agamben is full of references to St. Paul's letters, Kafka's literary works and Benjamin's messianism. This work tries to define the criteria of the kairological time, considered as a section of the chronological time which deactivates the discretionary mechanism, along the same lines as St. Paul's lessons, which reformulate the distinction between Jews / non-Jews. In this diacritic strategy lies the secret of any future philosophy, that is profanation, meant as the abolition of any sacred limit and the return to a human use.


1. Intro

Sovente la filosofia di Agamben sʼinterroga sul lascito che la storia della filosofia ha tramandato a quella odierna e in che direzione guardi la filosofia futura, su quale sia il suo compito. Ne Lʼimmanenza assoluta, comparso su «Aut Aut»[1] nel 1996, Agamben nota che gli ultimi testi pubblicati da Foucault e Deleuze prima di morire hanno come loro fulcro il concetto di vita. Lungi dal costituire una banale coincidenza seppure testamentaria, dal momento che entrambi i testi hanno qualcosa dellʼordine di un testamento, o un segno dellʼintima affinità tra i due filosofi, essa rappresenta per Agamben «il lascito che concerne inequivocabilmente la filosofia che viene»[2]. Essa, se vorrà raccoglierlo, dovrà guardare nella direzione verso cui il gesto ultimo dei filosofi indicava. La filosofia alla fine dei tempi deve allora confrontarsi con ciò che ha costituito per secoli il rimosso e il perturbante della tradizione filosofica: la dimensione del vivente, il bìos, la nuda vita. Si tratta di tematiche che Agamben non abbandona mai e attraversano tutto lʼarco della sua produzione filosofica, declinate soprattutto nelle loro interazioni col diritto, nelle forme di bio-diritto quale esercizio di potere sulla vita stessa. Tuttavia la filosofia impiega un tempo a finire, e il messianico costituisce il typos di un pensiero crepuscolare allʼinizio della fine. Parafrasando Manganelli possiamo affermare che la filosofia è già finita e noi non ce ne accorgiamo, perché questa stessa fine «genera una sorta di tempo, in cui dimoriamo, che ce ne preclude lʼesperienza»[3]. Dichiarare la fine della filosofia non vuol dire dichiararne la resa, ma riconoscere che un certo tipo di esercizio filosofico, unicamente centrato su se stesso quasi masturbatorio, è divenuto vetusto e inservibile. Solo mediante un ripensamento di ciò che la filosofia ha sempre negato, considerato come spurio e privo di valore, ovvero il corpo, la vita, la materia, la filosofia può augurare a se stessa un avvenire. Il confronto con le lettere paoline e, da ultimo, le Tesi di Benjamin, quali due testi sommi della tradizione messianica, è teso, dunque, a far emergere la struttura temporale del tempo messianico, come tempo dellʼattesa, disteso tra il chronos e lʼéschaton. Questo non coincide con la fine dei tempi, né col tempo cronologico profano, ma è «porzione del tempo profano»[4] che lo lavora e lo trasforma dal di dentro. La cesura fra i due tempi squarcia il chronos introducendo un eccesso della divisione, banalmente un resto, che è il da pensare. Se è vero che il compito politico e filosofico delle generazioni future sarà la profanazione[5] e che essa vuol dire «aprire la possibilità di una forma speciale di negligenza, che ignora la separazione o, piuttosto, ne fa un uso particolare»[6], la filosofia che verrà necessiterà di un metodo diacritico capace di rimodulare alcuni antichi paradigmi oppositivi, umano e divino, vita biologica e vita della mente, immanenza e trascendenza, individuando quel resto, quella zona di indiscernibilità che è nientʼaltro che ciò che resiste a ogni separazione.

  1. Apocalissi e tempo messianico: ho nyn kairós

Cosa intendere per vita messianica? Qual è la struttura del tempo messianico? E soprattutto cosʼè che fa di Paolo un interlocutore attuale? Sono questi gli interrogativi a cui proviamo a dare risposta a partire dalla premessa agambeniana che il tempo messianico si mostra quale «paradigma del tempo storico»[7] offrendo la possibilità di esperire quello che Paolo chiama ho nyn kairós, il «tempo di ora». La parola messia deriva dal latino ecclesiastico messīa, che è dal greco messías e questo ancora dal lontano ebraico māshíah, ovvero “unto”, consacrato a Dio per mezzo dellʼunzione sacra. Il tempo messianico, che è chiaramente il tempo della venuta del messia, non vale come tempo dell’apocalissi. Nel commento alla lettera ai romani Agamben opera una chiara distinzione fra tempo messianico e escatologico, tra lʼapostolo, il profeta e lʼapocalittico. Lʼannuncio del profeta riguarda sempre un tempo a venire, orientato dallʼéschaton, quello dellʼapocalittico è sospeso a contemplare la fine dei tempi, situandosi nellʼultimo dei giorni. Lʼapostolo, diversamente, «parla solo a partire dalla venuta del messia»[8], è tutto immerso nel presente e quel che lo interessa «non è lʼultimo giorno, non è lʼistante in cui il tempo finisce, ma il tempo che si contrae e comincia a finire (ho kairós synestaménos estin: I Cor. 7, 29) - o, se volete, il tempo che resta tra il tempo e la sua fine»[9]. Lʼescatologia non è il messianismo, il tempo messianico è come una corda tesa tra un già e un non ancora: la resurrezione da un lato, che è lʼevento messianico katʼexochen e la parousia dallʼaltro, ovvero la seconda venuta di Cristo alla fine dei tempi. Esso non è esterno al tempo profano, quello che Paolo chiama chronos, ma neanche interno, tantomeno coincide con lʼeone futuro, è, piuttosto, ciò che eccede costitutivamente i due tempi. Si tratta di qualcosa che riusciamo a rappresentarci con molta difficoltà che, anche se ne abbiamo esperienza, sfugge a ogni immagine. Agamben prova a risolvere tale aporia servendosi del concetto di “tempo operativo” che si deve al linguista Gustave Guillaume. Guillaume nota che la tripartizione dei tempi verbali (passato, presente, futuro) non tiene conto del tempo performativo del pensiero, ovvero del tempo che la mente impiega per realizzare una immagine-tempo. A tal proposito Guillaume parla di cronogenesi che restituisce il processo di formazione dellʼimmagine-tempo nel suo stato potenziale, in fieri e compiuto. Secondo Agamben il paradigma del tempo operativo è funzionale alla spiegazione della natura del tempo messianico: esso è il tempo che il tempo impiega per volgersi in rappresentazione, concetto, segno grafico. Merleau-Ponty leggendo Bergson affermava qualcosa, per certi versi, di simile: la durata è non coincidenza con se stessi, creazione, eterogeneità e il mio pensiero su di essa è sempre un attimo prima o un attimo dopo. La vita messianica è, allora, vita «vissuta nel differimento»[10]; ecco perché, come scrive Kafka nei suoi Quaderni in ottavo, «il messia verrà solo quando non ci sarà più bisogno di lui, non arriverà che il giorno dopo il suo arrivo, verrà non lʼultimo giorno, ma lʼultimissimo»[11].

  1. Chronos e kairós

In Che cosʼè il contemporaneo? Agamben afferma che appartiene veramente al suo tempo «colui che non coincide perfettamente con esso»[12], ma proprio in ragione di questo scarto e differimento è capace più degli altri di afferrarlo concettualmente. Così Nietzsche nelle sue Unzeitgemässe Betrachtungen [considerazioni intempestive] prendeva posizione in merito a un problema vissuto come di cocente attualità: lʼipertrofia della malattia storica. Questa mancata coincidenza e sbavatura definisce, secondo Agamben, la struttura temporale che lega il singolo al proprio tempo, per cui «la contemporaneità è quella relazione col tempo che aderisce ad esso mediante una sfasatura e un anacronismo»[13]. Contemporaneo è colui che salda i due secoli, il saeculum che è il tempo della vita, e quello della storia universale. Essere contemporanei significa, in ultima analisi, presentarsi «puntuali a un appuntamento che si può solo mancare»[14]; chi è stato in grado di pensare il proprio tempo ha potuto farlo solo a patto di un possesso a distanza, di una sostanziale discontinuità. In tal senso nessuno è stato più contemporaneo di Paolo, il “tempo di ora” (ho nyn kairόs) è vicino ma indeterminato[15] e ricapitola a sé ogni istante, dal momento che «tutte le cose si ricapitolano nel messia, tanto quelle celesti che quelle terrene (anakephalaiósasthai ta panta en tō christō, ta epi tois ouranoís kai ta epi tēs gēs en autó[16]. Si tratta di un celebre passo della lettera agli efesini ricco di strascichi ermeneutici, dalla teoria dellʼapocatastasi di Origene a quella dellʼeterno ritorno nietzscheano, in cui Paolo afferma che nel tempo messianico si dà una «ricapitolazione sommaria»[17] intesa anche come giudizio sommario. Ogni istante messianico è eterno nella sua contingenza; per restituire questo paradosso temporale Agamben ricorre a un esempio: la fotografia. Tutto ciò che è fotografato è chiamato a comparire nel giorno del giudizio, come nel Boulevard du Temple di Daguerre dove lʼobiettivo fotografico si fissa sul gesto più umile e insignificante, caricandolo del peso di unʼintera vita[18]. Ciò che la fotografia, in quanto cifra dellʼapokatastasis, ripete meccanicamente infinite volte è lʼunico, lʼogni volta unico istante nella sua più pura contingenza che è chiamato a una ricapitolazione. Il fotografo di talento coglie tale «kairόs del desiderio»[19], per usare le parole di Barthes ne La camera chiara, la singolare natura ontologica della fotografia che è una e molte, memoria e avvenire, come il tempo messianico. «Per questo – scrive Agamben – la rappresentazione comune che vede il tempo messianico come orientato unicamente verso il futuro è falsa.[…] Ricapitolazione, anakephalaíōsis, significa per Paolo, al contrario, che ho nyn kairόs è una contrazione di passato e presente, che, nellʼistanza decisiva, è innanzitutto col passato che dobbiamo regolare i conti»[20]. Il Corpus Hippocraticum fa dono della più bella definizione mai data di cosa sia il tempo cairologico: «il chronos è ciò in cui vi è kairόs e il kairόs è ciò in cui vi è poco chronos [chronos esti en ho kairós kai kairós esti en hō ou pollos chronos[21]. Il kairόs, dunque, non è un altro tempo ma è come unʼapertura di senso nel chronos, un suo slargamento semantico o, per usare lʼimmagine di Agamben, una sua contrazione.

  1. Sperren

Fino a qualche anno fa cʼera unʼusanza tipografica piuttosto diffusa che consisteva nel porre in rilevanza alcuni termini scrivendoli alternando una lettera e uno spazio bianco come se si volesse sillabare con accorta prudenza la parola in questione. Il cosiddetto spazieggiato, divenuto ormai desueto e soppiantato dallʼimpiego del corsivo, sottolinea il vuoto, legge la parola e il suo riverbero. Lo spazio bianco unisce ciò che separa, inaugurando una nuova strategia diacritica. Nellʼincipit folgorante della Lettera ai Romani (Paulos doulos christoú Iēsou, klētós apóstolos aphōrisménos eis euaggélion theoú) che Agamben analizza minuziosamente ne Il tempo che resta, compare il termine aphōrisménos, participio passato di aphorízō, letteralmente “separato”, tradotto infatti da Girolamo col latino segregatus. Perché Paolo si dice “separato”? Da chi o da cosa? Questo termine pone un problema ermeneutico non da poco, dal momento che Paolo predica lʼuniversalismo e la fine di ogni separazione tra ebrei e pagani e che in un altro passo delle sue lettere, Ef. 2, 14-15, si legge: «il messia ha distrutto il muro della separazione». In primo luogo bisogna intendere lʼaggettivo “separato” come un richiamo biografico: «Aphōrisménos non è altro che la traduzione greca del termine ebraico paruš, cioè fariseo»[22]. Paolo era un fariseo, un separato. I farisei costituivano una setta interna al giudaismo che divenne classe dominante in Palestina intorno alla fine del I secolo a. C.; essi, pur essendo laici, praticavano lʼosservanza di regole della purezza sacerdotale distinguendosi così dalla massa incolta e inosservante. La Torah per i farisei non è solo quella scritta, ma è anche lʼinsieme delle consuetudines da rispettare per proteggersi da ogni contatto impuro. Lʼaggettivo aphōrisménos è da intendersi allora in senso parodico, Paolo è un separato alla seconda, separato dalle separazioni. Il muro che lʼannuncio messianico fa cadere è nientʼaltro che la siepe dietro la quale si proteggono i farisei, la porta custodita dal guardiano nellʼapologo kafkiano Davanti alla legge. Lʼetimologia del termine greco nómos, legge, insegna che il sostantivo nómos deriva dal verbo nemō, cioè dividere, attribuire delle parti; il principio legislativo trova dunque la propria fondazione nellʼatto divisorio, nello stabilire dei confini, in primis ciò che è interno alla legge da ciò che non lo è. Nello specifico la legge messianica è attraversata da un unico grande spartiacque: la separazione tra ebrei/non ebrei. In che modo allora Paolo, allʼinterno della prospettiva messianica, rende inoperanti le distinzioni nomistiche? Paolo opera secondo un metodo diacritico del tutto peculiare, realmente contemporaneo, potremmo dire ibridativo, in cui il taglio divisore allo stesso tempo separa e unisce, proprio come lo spazio bianco tra le lettere, creando un resto, una zona dʼindiscernibilità. Ad esempio la distinzione paolina tra carne/soffio-spirito (sarx/pneuma) non combacia perfettamente con quella ebrei/non ebrei, non coincide, ma al tempo stesso non ne è estranea: taglia la divisione in due. «La circoncisione è nulla e il prepuzio è nulla»[23], e non basta allʼesercizio della fede messianica.

Per esprimere la relazione che sussiste tra la legge e il messianico Agamben compie uno studio del verbo katargéō che deriva dallʼaggettivo argós, cioè non in opera, inattivo (a privativa + ergos). Si tratta anche qui di un topos della produzione agambeniana sviluppato a partire da unʼinterpretazione di un passo del libro IX della Metafisica di Aristotele. Lʼessere umano è lʼunico fra gli esseri viventi che può distaccarsi dal patrimonio comportamentale ricevuto in dotazione e esercitare la propria potenza astenendosene dallʼuso, ovvero può non fare, può la propria impotenza. In Bartleby La formula della creazione il copista newyorkese è il simbolo di questo “poter non fare”: «il “preferirei di no” è la restitutio in integrum della possibilità, che la mantiene in bilico tra lʼaccadere e il non accadere, tra il poter essere e il poter non essere. Esso è il ricordo di ciò che non è stato»[24]. Ma ciò che colpisce maggiormente dello studio etimologico del verbo katargéō è che esso viene tradotto da Lutero col tedesco Aufheben. Non è questo il luogo per indagare il peso che il suddetto verbo ha esercitato nella storia della filosofia da Hegel in poi, basti notare che Aufheben, nella doppia accezione di abolire e conservare a un tempo, illumina la questione della legge messianica di luce nuova: essa per effetto della katargesis è insieme sospesa e compiuta, come la legge che vige nello stato di eccezione. La legge paolina opera come un taglio di Apelle[25] e attraverso la “divisione della divisione” recupera lo scarto esistente tra ebrei/non ebrei, nella legge/fuori dalla legge.

  1. Lettera/Spirito

I farisei sono gli uomini della lettera, gli esegeti delle sacre scritture, i filologi accorti, i fanatici del candore, della purezza adamantina. Nel vangelo di Matteo Gesù si rivolge a essi con queste parole:

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite lʼesterno del bicchiere e del piatto mentre allʼinterno sono pieni di rapina e dʼintemperanza. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi allʼesterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume[26].

La fede del fariseo si risolve nellʼesercizio del rituale, è votata tutta allʼesteriorità e non allʼinteriorità, alla lettera non allo spirito. La distinzione tra fede, ma anche morale come vedremo, esteriore/interiore trova la sua fondazione nelle parole dellʼ ex fariseo Paolo: «non si è giudei manifesti nella carne, e la circoncisione non è quella manifesta nella carne: si è giudei nel segreto, e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito non nella lettera»[27]. La dicotomia paolina spirito/lettera è così feconda e longeva che nel terzo capitolo della Kritik der praktischen Vernunft leggiamo che la legge morale «non deve [soll] soddisfare meramente la lettera della legge, senza contenere il suo spirito […] mera ipocrisia senza consistenza alcuna»[28]. Il riferimento kantiano ai farisei è evidente, sono infatti loro a essere tacciati di ipocrisia nel Vangelo. Il termine ipocrisia che ricorre ossessivamente e di cui oggi si fa un largo uso e abuso, additata come la più esecrabile fra le condotte umane rinvia, etimologicamente, alla dimensione dellʼactio. Lʼhypocrites, in greco, è lʼattore che calca la scena e dissimula, si cela dietro una maschera, finge di ignorare qualcosa di cui in realtà è a conoscenza. Ma la dimensione dell’attorialità non esaurisce il ventaglio semantico della parola in questione. Lʼipocrisia è apparentata con un termine assai caro al lessico kantiano: il verbo greco krino, che vuol dire separo, distinguo, giudico, da cui Kritik, critica per lʼappunto. Anche lʼetimo della parola giudizio in tedesco (Ur-teil, Teil è parte, sezione) rinvia a unʼattività di discernimento. Se krino denota la matrice giudicativa del termine, il prefisso hypo indica uno “stare sotto” al giudizio, una sua messa in sospensione, una falla nel meccanismo. Lʼipocrita è colui che per ignavia, o perché riposa nello Shabbath del creatore, si astiene dal giudizio. In Kant lʼopposizione tra lettera e spirito si riflette in quella tra moralità estrinseca, o legalità, e intrinseca, che costituirebbe la vera morale. Il problema kantiano si articola intorno allʼindividuazione di una volontà che non sia determinata come volontà di piacere, tra la voluptas e la voluntas corre solo una consonante; così come tra il rigore del formalismo kantiano e ogni forma di epicureismo. Si tratta allora, per Kant, di capire come la volontà possa determinare se stessa in piena autonomia, senza fare riferimento ad altro. Nelle alture gelide della morale kantiana non cʼè spazio né per i sentimenti né per le passioni, che attecchiscono come un cancro della ragione, solo uno fra essi viene preso in considerazione da Kant e adoperato come leva archimedea della sua morale: il sentimento del rispetto. Il filosofo di Königsberg deve concederci qualcosa, dacché siamo creature di rango inferiore, e anche se votati verso la santità essa rimarrà sempre un ideale regolativo e nulla più, quello che si può sperare e non quello che si deve fare. Data la nostra fallibilità non possiamo immaginare di entrare in possesso della santità spontaneamente, ma solo mediante il sacrificio, la costrizione, lʼautocoazione. Il rispetto, questo «giogo dolce»[29], in particolar modo nella sua forma di rispetto per la legge, costituisce lʼunico principio soggettivo che riveste qualità di movente, «il rispetto per la legge morale – si legge nella Critica della Ragion Pratica – è il movente morale unico e indubitabile»[30]. Esso finisce col coincidere con la moralità stessa, la formula “il dovere per il dovere” non esprime altro che questa tautologia morale. Che cosa cʼentri Kant con Paolo e il tempo messianico lo spiega molto bene Agamben in Homo sacer quando parla di “vigenza senza significato” ricordando ancora una volta la leggenda kafkiana narrata nel duomo, simbolo di una legge che si esprime nel punto di massima auto trasparenza, che non comanda nientʼaltro che se stessa, non prescrive più nulla, è puro bando. «La porta aperta – davanti alla quale si trova il contadino – lo include escludendolo e lo esclude includendolo. E questo è (…) la radice prima di ogni legge»[31]. Non cʼè un dentro della legge e non cʼè un fuori. Così il prete del Processo rivelando che «il tribunale non vuole nulla da te. Ti accoglie quando vieni, ti lascia andare quando te ne vai»[32] manifesta la struttura originaria del nómos in quanto tale. Lʼespressione “vigenza senza significato” è da attribuire a Scholem che, in una lettera indirizzata a Benjamin del settembre 1934, definisce la relazione con la legge nei romanzi di Kafka, e in particolare nel Processo, come «nulla della rivelazione»[33], intendendo cioè che essa determina «uno stadio in cui la rivelazione appare priva di significato,e, tuttavia, afferma ancora se stessa, poiché vige, ma non significa»[34]. Questa prescrizione che non descrive più nulla costituisce, secondo Agamben, il bando, lʼorigine e lʼessenza di ogni legge sovrana. «È in Kant – afferma in Homo sacer – che la forma pura della legge come “vigenza senza significato” appare per la prima volta nella modernità»[35]. Dal momento che la volontà kantiana astrae da ogni motivo materiale determinante lʼazione non rimane che la forma vuota di una legislazione universale; e una volontà che abbia come forma solo se stessa, in quanto volontà di legge, non è né libera né non libera, proprio come il contadino kafkiano. Tutta la ricchezza e, al tempo stesso, il limite dellʼetica kantiana sta nellʼaver lasciato vigere come principio vuoto la forma di legge. Tale vigenza senza significato nella sfera dellʼetica corrisponde simmetricamente, in quella della conoscenza, allʼoggetto trascendentale. Esso non è mai un oggetto reale, ma una semplice idea di relazione del pensiero con un pensato indeterminato. La risposta che Benjamin dà alla visione scholemiana di una vigenza senza significato è disarmante:

Che gli scolari abbiano smarrito la scrittura oppure non riescano a decifrarla e, alla fine, la stessa cosa, poiché una scrittura senza la sua chiave non è una scrittura, ma vita, vita quale viene vissuta nel villaggio ai piedi del monte dove sorge il castello[36].

Una vita vissuta sotto una legge che vige senza significare, che è tanto pervasiva quanto priva di qualsiasi contenuto, assomiglia alla vita nello stato di eccezione, che, come afferma Benjamin nellʼottava Tesi di filosofia della storia, è divenuto ormai la regola[37], lo stato di eccezione in cui viviamo. Ad accomunare legge messianica e stato di eccezione è la peculiare struttura dellʼex-ceptio: essa non è semplicemente unʼesclusione, bensì unʼesclusione inclusiva, una cattura del fuori (ex è preposizione che indica la provenienza, lʼuscir fuori e ceptio è forma del verbo căpĭo, afferrare, prendere) e questa indistinguibilità tra un dentro e un fuori della legge ricorda il metodo diairetico delle lettere paoline nel suo rendere indiscernibile il dentro e il fuori della legge con lʼintroduzione di un resto.

  1. Cosa (non) fare?

Lʼinsuperato incipit di Anna Karenina attestava che le famiglie felici si assomigliano tutte, mentre quelle infelici ognuna lo è a modo suo. Bisogna rivendicare allora accanto a una scienza del conoscere la presenza di una sorellastra cattiva, unʼarte dell’ignoranza. Le maniere dʼignorare qualcosa rivestono almeno la stessa importanza di quelle di conoscerlo, così i modi del non fare qualcosa, talvolta, acquistano più valore del fare. Se la profanazione, in quanto atto di resistenza a ogni separazione, è il monito della filosofia a venire, questa può compiersi solo mediante lʼinoperosità. Ecco svelata la ragione del nostro insistere sullʼetimologia e lʼuso del verbo paolino katargéō, quale messa in sospensione, argeo è anche il riposo del sabato. Lʼinoperosità schiude le porte della profanazione, di un nuovo possibile uso comune, dal momento che il consacrare segna lʼuscita delle cose dalla sfera dellʼuomo mentre il profanare ne restituisce lʼuso. Lʼin-opera rinvia subito a unʼatmosfera festosa che disinnesca la routine delle azioni quotidiane, dei gesti, dove ogni cosa viene sospesa dal proprio uso consueto e resa inefficace. Il gioco è lʼemblema della profanazione giacché immette in una nuova dimensione dellʼuso: nel gioco dei bambini spesso un oggetto è svuotato del fine e reso mezzo puro. La filosofia non è mai unʼoccupazione seria, lo diceva già Merleau-Ponty negli anni ʼ50, ma la filosofia futura sarà ludica perché permetterà di riaccedere alla festa perduta e mediante lʼinoperosità affrettare la venuta del giorno ultimo. Il filosofo del futuro sarà come lʼagrimensore K. che assalta i limiti che separano il castello dagli orticelli del villaggio, il divino dall’umano. Cosa ne sarà di questo nuovo mondo senza limiti non è dato saperlo, esso è avvolto dalla nebbia, come quella che cinge la cima del Castello.


[1] Cfr. G. Agamben, Lʼimmanenza assoluta, in «Aut-Aut», 276, 1996, pp. 39-57.

[2] Id., La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Vicenza 2005, p. 385.

[3] G. Manganelli, La notte, Adelphi, Milano 1996, p. 19.

[4] G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 64.

[5] Cfr. Id., Elogio della profanazione in Profanazioni, Nottetempo, Roma 2005, pp. 83-106.

[6] Ibid., p. 85.

[7] Id., Il tempo che resta …, cit., p. 11.

[8] Ibid., p. 62.

[9] Ibid., p.63.

[10] Ibid., p. 69.

[11] F. Kafka, Lettera al padre. Gli otto quaderni in ottavo, tr. it. Mondadori, Milano 201121, p. 84.

[12] G. Agamben, Che cosʼè il contemporaneo? in Nudità, Nottetempo, Roma 2009, p. 20.

[13] Ibid., p. 21.

[14] Ibid., p.25.

[15] Si legge nella lettera Ai Romani: «È tempo ormai di svegliarsi dal sonno. Adesso la nostra salvezza è più vicina di quando abbiamo incominciato a credere; la notte è progredita, il giorno si è avvicinato (13, 11-12)», per le lettere paoline utilizziamo lʼedizione a cura di C. Carena, Einaudi 19992.

[16] Ibid., Prima agli Efesini, 1, 10-11.

[17] G. Agamben, Il tempo che resta …, cit., p. 75.

[18] «Conoscete certamente il celebre dagherrotipo del Boulevard du Temple, che viene considerato come la prima fotografia in cui compaia una figura umana. La lastra dʼargento rappresenta il boulevard du Temple fotografato da Daguerre dalla finestra del suo studio in unʼora di punta. Il boulevard doveva essere stracolmo di gente e di carrozze e, tuttavia, dal momento che gli apparecchi dellʼepoca esigevano un tempo di esposizione estremamente lungo, di tutta questa massa in movimento non si vede assolutamente nulla. Nulla, tranne una piccola sagoma nera sul marciapiede, in basso a sinistra nella foto. Si tratta di un uomo che si stava facendo lucidare gli stivali ed è dunque rimasto immobile abbastanza a lungo, con la gamba appena sollevata per poggiare il piede sul banchetto del lustrascarpe», Id., Il giorno del giudizio, in Profanazioni, cit., p. 26.

[19] R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it. Einaudi, Torino 2003, p. 60.

[20] G. Agamben, Il tempo che resta …, cit., p. 77.

[21] Ibid., p. 68.

[22] Ibid., p. 48.

[23] San Paolo, Le lettere, cit., Prima ai Corinti, 7, 19.

[24] G. Agamben, G. Deleuze, Bartleby La formula della creazione, Quodlibet, Macerata 20065, p. 79.

[25] Una leggenda narrata da Plinio racconta di una sfida mitica tra Protogene e Apelle. Protogene traccia una linea su una tela talmente sottile che non pare fatta da un pennello umano e invita Apelle a fare altrettanto, ma questi con il suo tratto divide a metà la linea tracciata dal rivale ricavandone una ancora più sottile.

[26] Vangelo di Matteo, 23, 25.27.

[27] San Paolo, Le lettere, cit., Ai romani, 2, 28-29.

[28] I. Kant, Critica della ragion pratica, tr. it. Bur Rizzoli, Milano 20096, p. 275 (corsivo mio).

[29] Ibid., p. 307.

[30] Ibid., p. 291.

[31] G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 20052, p. 58.

[32] F. Kafka, Il processo. Lʼordinaria amministrazione dellʼassurdo, tr. it. Acquarelli, Verona 1994, p. 250.

[33] Cfr. G. Agamben, La potenza del pensiero …, cit., p. 269.

[34] Ibid.

[35] Id., Homo sacer …, cit., p. 60.

[36] W. Benjamin, G. Scholem, Teologia e utopia. Carteggio 1933-1940, tr. it. Einaudi, Torino 1987, pp. 155-156.

[37] «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di eccezione” in cui viviamo è la regola», Cfr. W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia in Angelus Novus, tr. it. Einaudi, Torino 1995, pp. 75-86.

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