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“Questa è la terra del rimosso”: Il nesso uomo-ambiente e la crisi eco-politica nelle narrazioni dei cittadini campani coinvolti dall’emergenza dei rifiuti

Autore


Vincenza Pellegrino

Scuola Internazionale di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste

Docente di Metodologia della Ricerca Sociale presso il Master in Comunicazione della Scienza

Indice


  1. Il contesto. I rifiuti come metafora della caratterizzazione narrativa della contemporaneità       
  2.  Napoli

  3. La “disconnessione” del cittadino inquinato 

  4. L’Io e il Noi 

  5. Il corpo avvelenato
  6. Precarizzazione della communitas. “Fine del sociale” o “fine del politico”?

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S&F_n. 02_2009

 


Quando la gerarchia è scossa, che è la scala ad ogni grande impresa, l’azione volge a male. La comunità, i ranghi nelle scuole, le corporazioni, il pacifico commercio tra terra e terra, la primogenitura e il diritto di nascita, le prerogative dell’età, della corona, degli scettri,degli allori, come potrebbero, senza gerarchia, conservare il timbro legittimo? Si spezzi la gerarchia, si porti a dissonare quella corda, e sentirete quale discordia seguirà! Tutto litigherà con tutto, l’acqua dell’alveo strariperà oltre la riva e il solido globo ridurrà a fanghiglia.

(W. Shakespeare, Troilo e Cressida, atto I, scena III)

  1. Il contesto. I rifiuti come metafora nella caratterizzazione narrativa della contemporaneità 

Questa indagine sociale, basata sulla raccolta di un considerevole numero di interviste qualitative, nasce in concomitanza a un biomonitoraggio (analisi campionarie di sangue e latte materno Sebiorec[1]) cui collabora in Campania l’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa nell’area maggiormente colpita dalla crisi dei rifiuti[2]. Sono gli stessi epidemiologi impegnati nel biomonitoraggio a chiedere il supporto dei ricercatori sociali per un’indagine qualitativa che esplorasse ciò che è stato definito l’“immaginario epidemiologico” dei cittadini campani, vale a dire l’insieme di rappresentazioni ricorrenti circa le relazioni di scambio tra il corpo umano e l’ambiente. Tale inconsueto parallelismo tra ricerca epidemiologica quantitativa e ricerca sociale qualitativa ha per il committente (il CNR appunto) un duplice obbiettivo: da un lato, interpretare meglio i dati bio-epidemiologici legati ad aspetti comportamentali (si pensi al consumo di cibo o ad altre pratiche individuali che incidono sulla salute); dall’altro, comprendere meglio il contesto circostante per condurre in maniera più consapevole lo scambio comunicativo con la comunità coinvolta, sia in fase di adesione volontaria all’analisi latte-sangue sia soprattutto in fase di comunicazione dei risultati («Per ricomporre – come ebbe a dire il responsabile, Fabrizio Bianchi – una supposta frattura tra saperi esperti e saperi comuni sulla crisi ambientale in corso»). Emerge così la volontà di assumersi l’onere degli aspetti comunicativi ed etici nella ricerca epidemiologica, di riflettere maggiormente sugli scenari nei quali essa è calata e sulla propria interazione con essi. Si suppone che mettersi all’ascolto delle persone coinvolte nella crisi ecologiche ed epidemiologiche sia un elemento imprescindibile per interagire con esse, per impostare in modo consapevole lo scambio tra visioni del mondo, tra conoscenze[3].

Nasce così la nostra indagine qualitativa, resa possibile da una larga rete di attori locali (un’équipe di indagine costituita da sociologi, filosofi e scienziati campani; una ventina di giovani studenti napoletani coinvolti nel percorso come intervistatori; il sostegno di associazioni e comitati), chiamati a incontrarsi più volte e a sostenere questo percorso sperimentale di “comunicazione scientifica di comunità”[4], basato appunto sull’idea di comprendere la coabitazione di voci e fonti diversificate che compongo il complesso immaginario collettivo sul rischio ambientale.

Il contenitore formale nel quale nasce e si sviluppa l’indagine mi appare sin da principio molto interessante: scienziati accademici, che sino a poco tempo prima immaginavamo isolati in una “torre d’avorio” di conoscenza per pochi, manifestano la propria difficoltà a operare la scienza nel mondo circostante per come essi lo immaginano: un mondo non solo sconosciuto ma probabilmente anche avverso[5].

E proprio nel gruppo di ricerca trans-disciplinare colgo sin da principio il maggiore elemento innovativo: a tale gruppo non si dà semplicemente il compito di identificare “a valle” le strategie di comunicazione scientifica (per diffondere dati epidemiologici già esistenti), ma si chiede di costruire “a monte” un disegno di ricerca sull’immaginario epidemiologico che avrebbe contribuito (anche) all’interpretazione dei dati epidemiologici.

Si tenta così una collocazione della questione “rifiuti” tra biologia, socio-antropologia e filosofia (queste le competenze in campo), imponendo confini nuovi – più larghi – al campo di riferimento teorico che avrebbe orientato e caratterizzato la ricerca. In poche parole, questo gruppo mette in scena (accostando persone di ambiti disciplinari solitamente estranei l’uno all’altro) una consapevolezza emergente: i processi di natura politica hanno ricaduta eco-epidemiologica e viceversa.

Col susseguirsi dei seminari tenuti dal gruppo, parallelamente alla prima fase di interviste pilota (esplorative), si fa strada l’ipotesi che cittadini campani e studiosi condividano questa idea di un nuovo tipo di crisi (nuovo in termini narrativi) che potremmo chiamare “eco-politica” (o ancora meglio “eco-epi-politica”[6]). La “terra” (parola non a caso spesso usata per parlare del comune di residenza o comunque delle declinazioni amministrative dello Stato) viene rappresentata dagli intervistati come “corpo ammalato” e “ammalante”: molti i riferimenti alla putrescenza degli stati interni del terreno, al “dover aprire per poi richiudere” i siti dei rifiuti, e altre narrative simili a quelle utilizzate per descrivere comunemente i tumori maligni nel corpo umano. La terra quindi appare come un corpo collettivo avvelenato dai singoli e avvelenante i singoli essenzialmente per incapacità di “pensare la conseguenza” (“siamo incapaci di fare 2+2, di vedere quello che sappiamo”; “qui ciascuno pensa a sé, quindi né ad altri né alla natura”) e quindi il futuro (“non c’è il dopo di adesso” dice un intervistato).

Queste prime voci, raccolte nella fase pilota dell’indagine, ci suggerisce ipotesi interpretative che conducono al cuore delle recenti teorie sociologiche sulla “contemporaneità occidentale”:

- la nostra tarda modernità come epoca di profonda crisi della fiducia nelle istituzioni e di impossibile collocazione del soggetto rispetto a un referente gerarchicamente ‘dato’;

- la nostra tarda modernità come epoca di crisi del sapere stabile, di competizione tra narrazioni labili, a somma zero, ivi inclusa la scienza, che è stata racconto primeggiante nel processo di modernizzazione occidentale (inteso appunto come grande processo di razionalizzazione) e che oggi è spodestata dal ‘primato duraturo’ (divenuto inconcepibile), travolta dalle tante voci narranti che sono state legittimate, ‘liberate’ da quello stesso processo di razionalizzazione. Si tratterebbe infine di una ampia “crisi di fiducia nella verità” (penso qui al lavoro di Lyotard, che ha aperto le porte alla connessione tra forme del sapere e post-modernità, e ai molti altri che ne hanno fatto seguito);

- la nostra tarda modernità come era della dis-locazione virtuale dell’altro-da-sé, posto appunto nell’altrove catodico (nell’immaginario nutrito essenzialmente attraverso i Media) in un processo ambivalente di ‘saturazione dell’immaginario’ e ‘svuotamento dell’esperienza’;

- la nostra tarda modernità come “epoca delle passioni tristi”, per parafrasare Benasayag, del disprezzo di sé che traspare dalla ciclica previsione della fine del proprio mondo, che fa tutt’uno – a livello individuale – con l’incapacità di stabilire la giusta distanza dalle cose circostanti, di “darsi dei limiti” (proprio come la hybris – la tracotanza – fa tutt’uno con la colpa[7]).

Le narrative di coloro che hanno vissuto immersi nei rifiuti sin da principio paiono offrire la possibilità di valutare la presenza di queste diverse dimensioni nelle rappresentazioni quotidiane circa la contemporaneità; ancora meglio, esse invitano ad analizzare la loro composizione rispetto alla questione dei rifiuti.

La questione dei rifiuti pare emblematica per comprendere i processi di caratterizzazione (narrativa) della contemporaneità: ricostruire la “crisi dei rifiuti” pare collocare gli “scarti” rispetto al “progetto che li produce. La produzione degli “scarti (i rifiuti) è nei fatti la conseguenza di azioni produttive a lungo pensata come secondaria rispetto ai benefici della produzione, al “progetto[8].

Qui, a Napoli, lo “scarto” dal “progetto” si è fatto troppo “evidente” al naso e alla bocca, e ora cerca una collocazione simbolica, una nuova narrazione collettiva.

Per questo, sin dal principio, spiegare la crisi dei rifiuti e le sue conseguenze sul corpo significa pare essere una forma di valutazione del progetto, nella quale viene collocata anche la voce “scienza” (viene valutato l’apporto di quella conoscenza che negli ultimi secoli si è occupata di spiegarci il nesso tra il progetto e la salute), per vedere in cosa ancora crediamo.

2. Napoli

Fare ricerca nella Grande Napoli[9] metropolitana mi è parso sin da subito un’esperienza molto forte. Come accennavo, questa area è caratterizzata da una “sempiterna fase di crisi” (come dice uno degli intervistati), da istituzioni democratiche mai maturate. Non sfugge certo che le narrazioni sono da collocare in un particolare contesto storico-culturale che è l’area campana e più in generale il Sud dell’Italia. Nelle descrizioni di coloro che hanno ricostruito la “crisi dei rifiuti” in termini storico-culturali[10] appare la complessa commistione di errori tecnico-amministrativi e di interessi politici, industriali e malavitosi che caratterizza questo contesto, insieme a un “clima di dis-educazione ambientale diffusa”.

Eppure – mi dicevo analizzando le prime interviste – proprio questa forte (auto)connotazione in termini storici e culturali potrebbe consentirci di riflettere in maniera originale sulla relazione tra le forme della socialità e la crisi dell’ordine, tra la dominanza del desiderio indotta dal consumo, da un lato, e il dis-ordine inteso come incapacità di definizione del legame stabile, dall’altro lato.

Se in tempi recenti questa relazione circolare è stata in qualche modo descritta attribuendo un primato causale al sociale (sarebbe il consumo e l’effimero a rafforzare il non-accasamento nell’ordine gerarchico: penso qui in qualche modo ai contributi di Touraine e Maffessoli[11]), le prime interviste ai napoletani e gli incontri preparatori con gli studiosi di storia locale mi inducevano a ipotizzare un andamento inverso, una sorta di primato della dimensione politica in termini causali: la crisi delle gerarchie e della stabilità d’ordine tra verità pareva per i campani portare alla perdita di referente simbolico dell’azione e perciò a indirizzare verso forme comportamentali di immanenza radicale (come lo è il fatto di inquinare il proprio campo di ortaggi[12]).

Infine, Napoli (o meglio il modo dei napoletani di guardare al legame uomo-uomo e al legame uomo-ambiente) mi pare illuminare questa discussione, così cara alla sociologia contemporanea, non tanto perché “forma comune” (abbiamo già detto della particolarità di questo contesto) quanto perchè “forma compiuta” di trasfigurazione del politico[13], della scomparsa del referente gerarchicamente inteso[14] che appare nelle narrazioni collettive il risultato di un “troppo lungo” travaglio pre-democratico più che il risultato della fine della democrazia (che sarebbe appunto disattivata dai dispositivi sociali, ad esempio dai desideri-televisivi-di-consumazione, come spesso si dice).

L’“eterna” crisi campana, infine, si presenta a mio avviso “nuovissima” poiché emblematica della condizione contemporanea: la crisi della politica, ‘vecchia’ in queste aree, pare aver incontrato la crisi ‘nuova’ che si diffonde in Occidente, anche nel Nord; Napoli pare prospettarsi come espressione di una modernità in compimento. Per dirla più chiaramente, le narrative dei campani sulla comunità[15] mi appaiono lo svolgimento accelerato dei baluardi del moderno: ciò che stiamo diventando al nord e non ciò che siamo stati un tempo, come spesso invece sentiamo ripetere.

Infine occorre dire dell’importanza del numero di testimonianze raccolte (80 interviste in profondità) e dell’analisi dei testi, che ci hanno dato modo di valutare queste ipotesi, di pesare – grazie ad alcune tecniche di analisi, anche numericamente – la ricorrenza dei temi e delle parole (cfr. Allegato metodologico).

Ne è emerso un quadro composito, in cui trova conferma la tesi di una narrazione collettiva della “crisi eco-epi-politica”, pur tuttavia descritta e compresa in modi differenti, significativamente relati ad esempio con il genere e con le età.

3. La “disconnessione” del cittadino inquinato

L’analisi tematica delle interviste ha mostrato come siano diffuse (pressoché universali) le preoccupazioni circa il livello di inquinamento raggiunto dai terreni dell’area geografica considerata. Tutti sono convinti che la terra sia “marcita” anche a causa dei rifiuti, che hanno reso evidente ai campani un avvelenamento che sospettavano anche per altri fattori (vengono citate l’emissione dei gas di automobili, le industrie e le discariche industriali, l’amianto, ecc.) ma che “prima si continuava a sperare non fosse grave”. Il fatto di vivere in Campania viene messo direttamente in collegamento con la probabilità maggiore di sviluppare il “tumore”, parola che ricorre molto e spontaneamente nelle interviste.

In molti casi, le interviste aprono direttamente con espressioni di inquietudine come: «Ma che domanda, certo che siamo inquinati!» o «Tutti sappiamo che ci stiamo avvelenando», che così introducono uno dei dispositivi narrativi più ricorrenti: la narrazione di un processo di disattivazione delle proprie conoscenze in merito a tale inquinamento:

«Ma certo che qui è irrimediabilmente inquinato, tutti sappiamo che qui è mortalmente inquinato! Nessuno qui quando mangia un frutto può farlo senza pensare alla terra piena di sacchi di merda o alla puzza che sentiamo nell’aria… Ma poi è chiaro che giochiamo il gioco di non pensare e lì ognuno ha i suoi trucchi …»; «Qui a Napoli si ha la lettura più chiara possibile di quello che sta succedendo al mondo, il mondo inteso come accumulo di rifiuti nascosti… ma non solo qui eh! Solo che a Napoli lo sai più chiaramente, e per questo bisogna lavorare per non tenerne conto…».

«Nel momento in cui quello che sa la mia mente arriverà allo stomaco, qui scoppierà il caos […] ma oggi è sospeso».

La conoscenza dei rischi ambientali viene quindi descritta come una “conoscenza disattivata”: vi è la ricorrente descrizione di una condizione di dis-connessione (come dice un intervistato, di “interruzione dello scambio tra testa e stomaco”), di “ammortizzazione”, di “rimozione della preoccupazione” a causa di alcuni elementi:

- In primo luogo, agli occhi dei campani, troppe “ragioni” competono sulla medesima scena, creando appunto una competizione ingestibile (“indigeribile”) tra sollecitazioni: «Basta parole, basta parlarne altrimenti scoppiamo con la testa, abbiamo detto tra amici… Ci siamo detti: non pensiamoci»; «Parlano, parlano, e dicono mille cose che poi si rimangiano… Diventa inutile sapere».

- In secondo luogo, i richiami alla questione ambientale provengono da chi “solitamente mente”: «Mentono, mentono, mentiamo… mentiamo tutti, ecco qui… E allora che ci pensiamo a fare a quello che sappiamo se è una balla, dico io». Anche gli scienziati vengono collocati all’interno di questa bagarre delle voci che le rende tutte al contempo inaffidabili: «Gli scienziati sono spesso in disaccordo tra loro e allora le opinioni si annullano»; «Lo scienziato dipende da chi lo invita, se lo chiama il sindaco allora anche quello che sa non gli credo».

- Per i giovani adulti, soprattutto per coloro che hanno figli piccoli, pare essere il tempo la risorsa mancante per l’attivazione del pensiero (e per l’identificazione di strategie di comportamento): «Ho due bimbi piccoli e un lavoro: non ho neanche tempo di dormire né tempo per pensare»; «Lavoro molto e poi devo riposare la testa, mi ci manca solo mettermi a pensare a quello che so che c’è sotto alla terra!»; «Prima provavo ad andare a comprare le cose da un tipo un poco lontano perchè sembravano migliori, poi non ho tempo e siccome non so quanto pesa la singola questione della verdura rispetto poi a tutto il resto dell’inquinamento, allora non vado più, non faccio più niente e ci penso meno».

Un elemento di particolare interesse sta nel fatto che, mentre le persone più anziane tendono a manifestare il risentimento nei confronti di chi “dovrebbe dire la verità e non lo fa” (e di fatto operano un attacco a un referente gerarchico ancora esistente, del quale tuttavia costantemente si rievoca la fine), i più giovani mostrano meno risentimento e rabbia, spesso citano la possibilità di informarsi su internet, di ricorrere a una scienza virtuale e per questo più libera (una scienza che resta conoscenza affidabile perchè composta dal basso come viaggio in una rete di offerte). Eppure, lo vedremo, gli stessi giovani adulti dicono di essere impossibilitati per mancanza di tempo a questo lavoro di “ricomposizione”.

- Un altro aspetto caratterizza in particolare le narrative delle persone più giovani (al di sotto dei 35 anni), vale a dire il richiamo al viaggio, alla proiezione nell’altrove (il pensiero di partire è di sollievo dal presente): «I giovani sognano sempre di essere altrove, di andare via di qui, e quindi non ci sono davvero qui…»; «Per fare la cosa giusta devo fingere di non essere qui, di abitare in un altro posto, altrimenti lascio perdere…».

Certamente, come mostrano tantissime ricerche sulla genesi dei desideri migratori, il pensarsi potenzialmente altrove riduce l’investimento nell’ambiente circostante (in questo caso letteralmente inteso in senso ecologico) e atrofizza le competenze necessarie per ripensarlo.

- Infine, un’altra argomentazione ricorrente rispetto alla tematica della disconnessione è la fine accelerata del mondo agricolo intesa come fine della connessione al mondo reale-naturale: «Anche chi coltiva non pensa più alla terra come al paese nostro ma solo come orticello suo e quindi l’acqua è l’acqua che sta nell’orto suo, non viene da nessuna parte e non va da nessuna parte, prima non era così, sapevi da dove veniva»; «Prima sapevamo come erano le piante perché le tiravamo su e sapevamo che la frutta faceva bene, oggi questo non lo sappiamo più e di frutta non ne mangiamo»; «La terra oggi è solo sentimento, un pensiero, perché nessuno oggi vive di questa terra davvero, ecco perché importa poco… La terra non dà più da campare a nessuno».

All’interno di questi racconti, la catalogazione dei frammenti narrativi riguardanti la “produzione agricola” ha mostrato una certa differenziazione nelle interviste, in particolare all’interno delle narrazioni femminili, tra le donne giovani con figli in età prescolare, che “comprano solo cibo che viene da fuori regione”, e le donne over 55anni, che si orientano invece alla coltivazione di un “orto privato”.

  1. L’Io e il Noi

Un aspetto interessante nei racconti dei campani è senza dubbio l’utilizzo narrativo del “noi” e la sua difficile collocazione in termini di “taglia della comunità”. L’identificazione del “gruppo” a cui spetterebbe la pertinenza della questione politico-ambientale (la gestione politica dei rifiuti) è una difficile “pratica narrativa”, con manovre di espansione (si parla delle politiche italiane e del carattere degli italiani) e poi contrazione (si parla delle pratiche diffuse nel proprio gruppo familiare). È un noi a tratti descritto alla ricerca di caratteristiche comuni (quindi un noi identitario) che ha spesso una connotazione in termini politici (noi “italiani” siamo così, noi “campani”…) e che pur tuttavia si differenzia nel corso della medesima intervista, inducendo spesso una riflessione esplicita sulla evanescenza di questi confini immaginari («si prima parlavo di italiani, ma anche i campani… ma poi non saprei a pensarci bene…»). Una pratica narrativa che spesso apre al “non so” e che si rivela insoddisfacente per chi narra: «Mah… qui il colpevole si allontana, si allarga e poi si restringe, si allarga e poi si restringe e alla fine divento io il colpevole».

Nella narrazione del “noi” si inserisce quindi un “io” incollocato rispetto all’insieme, il cui desiderio di azione viene frustrato dal non “poter pre-vedere l’ordine” e le azioni altrui in merito al problema dei rifiuti: «Io faccio il mio lavoro, il mio pezzo, potrei fare la differenziata, ma questo ha senso se gli altri fanno il loro, la catena»; «Ma oggi non è più così, gli altri non fanno il loro pezzo e allora che senso ha che mi metto a fare il mio? Questo fatto ti spiega com’è che si arriva a questo casino di rifiuti…»; «Io faccio la differenziata non perché serve ma perché è giusto, ma non è giusto per i nostri politici né per i miei concittadini. È giusto forse solo per me …».

In tal senso, si colloca l’interesse della questione “raccolta differenziata”, una proposta ricorrente (come vedremo soprattutto nei giovani adulti), una disponibilità giudicata molto positivamente in sé[16], e tuttavia ancora tutta interna al paradigma dell’agire individuale, di una responsabilità che rischia di “vedersi” frammentata - e perciò disattivata e in-agita - poiché cieca rispetto all’azione altrui.

Ciò che si è rivelato molto interessante è la polarizzazione delle argomentazioni (spesso compresenti nella stessa intervista) sulle “colpe” rispetto al livello raggiunto dalla crisi dei rifiuti nel corso del 2007-8.

Da un lato, vi sono quelle che ho chiamato “narrative anti-istituzionali”: «È un problema di chi ci governa, non pensa che al proprio interesse, non sa le cose, non è più capace …»; «L’informazione è corrotta …, anche gli scienziati se vengono pagati per parlare mica dicono sul serio […] Noi cittadini come facciamo a sapere?».

Molti degli intervistati collocano narrativamente al centro un referente istituzionale caratterizzato in termini negativi, collocato al vertice delle responsabilità e al tempo stesso deriso (narrativamente trascinato in basso) che diviene pressoché il solo capro espiatorio della crisi.

D’altro lato, circa altrettanto numerose sono le narrative in cui vengono giudicati “colpevoli” i cittadini stessi, i campani “maleducati rispetto alla questione ambientale”, dis-interessati e soprattutto “incapaci di organizzazione”: «Qui è un problema innanzi tutto di mentalità della gente, è colpa del napoletano, di ciascuno di noi… Quando va fuori il napoletano è il primo a seguire le regole, quando torna a Napoli è un egoista»; «I giovani sono peggio dei vecchi, sono egoisti, ragionano uno a uno…»; «Sta a ciascuno di noi… e basta. Basta pensare che chissà chi ci deve organizzare …»; «Io mangio solo quello che coltivo io, non compro più neanche dai piccoli bottegai che conosco da una vita, da nessuno compro neanche dai vecchi amici».

Queste posizioni mettono in scena un’altra dimensione della profonda crisi delle gerarchie, vale a dire l’impossibile coordinamento dei singoli situati in condizione orizzontale.

Nell’insieme delle interviste prevale il numero di quelle in cui sono presenti entrambi i tipi di narrative: la crisi ecopolitica pare compiersi appunto nei termini di composizione immaginaria delle crisi di fiducia tra “verticali” come tra “orizzontali”. In tal senso, la crisi ambientale è descritta come compimento della crisi gerarchica.

Una differenza tuttavia emerge tra i giovani e gli adulti (i sottogruppi di intervistati aventi meno di 55 anni) e gli adulti più maturi (over 55): tra i primi si trovano la maggior parte di interviste dove sono presenti solo narrative sulla crisi orizzontale (“sta a noi uscire dal problema rifiuti e non sappiamo farlo”), tra i secondi le interviste dove vi sono solo argomentazioni ascrivibili a quella che abbiamo chiamato “componente verticale” della crisi (“se chi ha il potere è incapace e ci inganna è impossibile uscirne”, si deve piuttosto cambiare capo).

Infine, in queste interviste vi è a tratti un “noi ritrovato”, un “noi campani” usato come dispositivo narrativo positivo, ridefinito rispetto a un altro “loro” colpevolizzato. Il “loro” in questo caso è il “Nord” (in parte anche “gli immigrati”, ma in un numero minore di casi e con una diversa funzione narrativa, che per motivi di spazio non approfondisco).

Il Nord d’Italia “scarica i rifiuti peggiori qui al Sud”; il Nord Italia ha “corrotto il Sud per seppellire i rifiuti tossici”; il Nord “ha gli stessi problemi di politica solo che è inconsapevole di quanto gli accade, almeno così appare”.

Il Nord è ancora oggi elemento di confronto al quale il Sud si riferisce, eppure il diffondersi della crisi fuori dai contesti di crisi eterna (così si percepisce il Sud) cambia il gioco delle identità a confronto. Gli intervistati mostrano la convinzione che sia il Nord a convergere verso Sud, o piuttosto che sia il Nord il “vero camuffato”, la terra maggiormente subalterna a un immaginario lontano dalla realtà.

Eppure, il Nord rimane per molti il luogo del miraggio, la meta di una partenza immaginaria e rinviata: in quasi tutte le interviste dei più giovani si fa cenno alla possibilità di andare via e soprattutto al desiderio che i propri figli, ancora piccoli, un giorno partano.

Infine, nelle narrative di questi cittadini campani, pare aprirsi una nuova stagione di conflitto nel dominio dell’immaginario simbolico tra il Nord e il Sud di Italia (nuovo nei termini di crescente indifferenziazione e di risentimento[17].

5. Il corpo avvelenato

Una vasta parte dell’intervista è dedicata alla rappresentazione delle modalità concrete attraverso cui l’inquinamento penetra il corpo umano. Più chiaramente, gli intervistati sono sollecitati a pensare alle fonti di inquinamento e alle loro “porte di accesso” nel corpo.

In generale emerge la difficoltà di rappresentare le “membrane” tra il corpo e la matrice nella quale è immerso. Le narrazioni si fanno incerte, spesso fanno ricorso a nozioni scientifiche, quasi mai riconducono la questione alla narrazione di stati di benessere o malessere (cosa che noi intervistatori invece tentavano, facendo riferimento concreto ai momenti della giornata ad esempio), così come vi è una scarsa figurazione dell’interno del corpo (ad es., del dove vada a sedimentare l’inquinamento una volta entrato).

In questo ambito, sono le persone più anziane a differenziarsi un poco: gli intervistati\e over 55 anni esprimono memoria di un “benessere diverso prima” (“c’era meno opacità”, “il sapore era diverso” e “digerivi diverso”), con una allusione più insistente al malessere e ai rischi per stomaco e intestino.

In generale, le narrazioni sul corpo si polarizzano su due aspetti: l’aria inquinata (che penetrerebbe attraverso il naso) e la terra inquinata (che sarebbe veicolata dal cibo e penetrerebbe attraverso la bocca), mentre minor rilievo viene dato, ad esempio, all’acqua:

«Per stare bene non dovremmo respirare né magiare, il che vuole dire morire …»; «Abbiamo semplicemente dei mostri in tavola»; «Sotto terra è tutto marcio, non si può aprire né curare».

Questi due elementi, aria e terra inquinate dai rifiuti illeciti, conducono spesso direttamente – senza interventi dell’intervistatore – alla narrazione del tumore (parola molto ricorrente).

L’analisi lessicale (analisi delle corrispondenze multiple realizzata tramite il software T-LAB) è stata di supporto alle nostre interpretazioni, facendo ulteriore luce sulla variabilità presente all’interno delle narrative[18].

Come messo in evidenza nello schema di seguito riportato[19], il primo e il secondo fattore (che spiegano una percentuale elevata di variabilità interna, rispettivamente pari al 43% e 33%) paiono sottendere a due questioni[20]: la definizione di crisi politica e la descrizione dei dispositivi di inquinamento del corpo. Le variabili illustrative significativamente relate a tali fattori sono l’età e il genere, mentre altre variabili considerate – come il fatto di vivere in aree più o meno inquinate secondo la ricerca commissionata dalla Protezione Civile, il fatto di avere o meno figli piccoli, il titolo di studio – non paiono significative rispetto all’assunzione dei “dizionari” lessicali (di modalità narrative) adottati per descrivere la crisi ecopolitica dei rifiuti.

Per quanto riguarda il 1° fattore, da un lato (polarità +) troviamo parole come protesta; storia; rabbia; gente; governo; inceneritore, la cui presenza e composizione contrassegna le sequenze narrative in termini di “crisi della gerarchia verticale” (denuncia della corruzione della classe politica locale, sfiducia nelle consulenze scientifiche da essa commissionate, vissuto di rabbia nei confronti del potere ancora costituito a livello immaginario), significativamente legate a una condizione di genere (essere donna) e all’età più matura (avere oltre 45 anni). Dall’altro lato (polarità -), troviamo parole come notizia; persona_personale; impegno_arsi; dubbio; informazione_rsi; raccolta_differenziata, che fanno allusione alla “crisi della gerarchia orizzontale” (alla responsabilità personale, alla difficoltà della collaborazione e del coordinamento, all’impossibilità di leggere e collegare tutto quello che c’è da sapere per poi fare), che pare legata più particolarmente alla condizione maschile e giovanile.

È interessante il fatto che nel primo polo si collochi il più ripetuto ricorso alla parola “inceneritore”, opera della politica tradizionalmente intesa (criticata per mancanza di garanzie di controllo), mentre dal lato opposto si faccia ricorso alla “raccolta differenziata”, appunto come azione politica dell’individuo (disattivata in quanto non vi è garanzia di coordinamento tra le singole azioni).

Donne e anziani paiono qui gruppi maggiormente collocati in una dimensione gerarchica “solida” (da “prima modernità”), potremmo dire maggiormente portati a interpretare il proprio ruolo rispetto a quello altrui (pensiamo ai comportamenti procreativi, pur in rapido cambiamento, al minor livello di impiego femminile, ecc.); i più giovani e in generale gli uomini - che sperimentano una collocazione sempre meno definibile in termini “stabilmente gerarchici” - paiono portatori di una condizione di crescente “risentimento tra orizzontali”.

Il 2° fattore pare spiegare la variabilità interna alle narrative rispetto alla crisi eco-epidemiologica (alle forme di incidenza dell’inquinamento sulla salute): da un lato abbiamo la occorrenza di parole come terra, orto, sapore, ricordo, con riferimento più esplicito al nutrirsi e alla scomparsa dei saperi contadini (la variabile illustrativa è l’età, in questo caso nella modalità over 55) mentre dal lato opposto (sempre parlando di rappresentazione grafica della differenza) abbiamo parole come aria; gas; bruciare; tumore; tumore_giovanile, che richiamano la centralità dell’inquinamento aereo, del rifiuto bruciato, del traffico, della responsabilità comune circa la ‘fine della salute’ (riferimento ripetuto al tumore giovanile).

Interpretando questi dati, pare di cogliere da un lato una rappresentazione dell’inquinamento in termini di “perdita di contatto con la realtà naturale”, per coloro che hanno vissuto una condizione differente (della maggiore diffusione del lavoro contadino, ad esempio); d’altro lato, vi è maggior ricorso all’idea di “punizione per la mancanza di organizzazione” per coloro che sono più giovani e che basano le proprie narrazioni sulla esperienza della “invivibile vita urbana”.

Il grafico elaborato da T-LAB (che riporta le modalità delle variabili-lemmi) è davvero poco leggibile; questo mio schema riassuntivo riporta più comprensibilmente i risultati dell’analisi delle corrispondenze multiple (età e sesso variabili illustrative)

 I risultati mostrano un quadro complesso, nel quale i testimoni paiono soffrire di “perduta capacità di stabilire le connessioni” tra individuo e individuo e così tra individuo e ambiente. È una condizione di “paralisi del pensiero” che nelle narrazioni si lega esplicitamente alla descrizione di una profonda crisi politica, nuova nelle forme e crescente per intensità, caratterizzata dalla sfiducia nelle istituzioni ma anche da un risentimento crescente nei confronti dei propri concittadini (il “moltiplicarsi intollerabile di persone”, l’inaffidabilità “degli altri che non fanno il loro pezzo”, ecc.).

 

6. Precarizzazione della communitas. “Fine del sociale” o “fine del politico”?

I testimoni dichiarano l’incapacità di passare dalla percezione dell’“inquinamento, che si è fatto mortale” all’elaborazione di strategie (innanzi tutto mentali) per tutelare il proprio capitale di benessere.

Molti elementi mettono in scena questa particolare condizione di “disordine simbolico” (un’efficace definizione di un testimone): così, nei quartieri popolari, i cortili e i pianerottoli pieni di sporcizia introducono in appartamenti iper-igienizzati, dove vivono giovani mamme inquiete che non acquistano più il cibo nei negozi, ma consumano solo i prodotti dell’“orto del nonno perché l’affetto protegge” (i quali nonni, tuttavia, “innaffiano gli orti con l’acqua contigua alle discariche abusive”, come dice la stessa mamma poco dopo); le persone incaricate di smaltire illegalmente i rifiuti li seppelliscono proprio nel campo agricolo di famiglia, e così via.

La chiave per interpretare queste narrazioni pare proprio trovarsi nella relazione tra:

  • tra dis-ordine e immanenza (rimozione del domani per impotenza; pensiero volto all’oggi; produzione di rifiuti e loro dispersione);
  • tra vita quotidiana (velocità, pluralità delle verità, vissuto dell’effimero) e dis-economia del mondo (inquinamento);
  • tra senso di colpa, senso di catastrofe e tracotanza ambientale (“continuare a inquinare perché nulla serve ormai”).

Si tratta essenzialmente di narrative sull’incapacità di fare ordine. Da un lato, appunto, è incapacità di “vedere”, poiché la conoscenza non si “fissa”: se è troppo elevata la velocità di inserimento di nuove voci vi è il problema di coniugare il libero consumo di voci alla sopravvivenza della verità[21]. Dall’altro lato, in queste narrative, lo Stato democratico appare come mai-Stato (come mai realizzato); il prolungarsi del suo parto nell’immaginario (il suo sperato avvento), che ha caratterizzato a lungo il vissuto di questa comunità, oggi pare lasciare il posto ad altre immagini, a una comunità che si racconta come “apolitica” (che si sottrae a qualsiasi visione complessiva circa il suo insieme e le sue connessioni interne) e che sposta la questione della solidarietà su quella di “legami (ri)crescenti”, ad esempio tra familiari (la famiglia diviene qui il luogo della collocazione simbolica della re-distribuzione).

Siamo così davanti a nuove narrazioni collettive circa le comunità, che appaiono deboli in termini identitari (non collocano il soggetto rispetto a un “progetto” né lo caratterizzano nella sua totalità) ma forti in termini di “onere reciproco”. Gli intervistati fanno riferimento a “nuovi legami compensativi”, legami familiari lontani dalle definizioni moderne – connotati dalla scelta e dallo scambio affettivo intenso più che dalla inscrizione nel continuum – che tornano in Occidente a essere caricati di oneri, di debiti da collocazione reciproca, senza che questo tuttavia risulti naturale agli occhi dei soggetti (i testimoni narrano di questa condizione in termini di compensazione da dis-ordine, da “mancanza di politica”). Infine, queste persone – come dice Esposito[22] – non paiono caratterizzarsi per “proprietà comuni” quanto piuttosto per “oneri di sostegno”. In tal senso, mi pare fuorviante parlare di “fine del sociale”, poiché le relazioni tra prossimi non paiono divenire qui meno significative o durature, non si assiste a processi di atomizzazione, di dispersione degli individui in una matrice di legami deboli, come larga parte della sociologia moderna pareva prospettare.

E pur tuttavia, non si tratta nei fatti di un onere reciproco che “apre all’esterno”, non è una pratica che aiuta a sentire la communitas come luogo del “darsi a vicenda”, che aiuta a intendere l’insieme come qualcosa “da doversi ancora e sempre ri-costruire” con lo scambio del “dono”. In questo caso, si tratta piuttosto di gruppi tenuti da un legame che si realizza solo qui-e-ora, che lega i copresenti senza inserirli in un ordine simbolico di scala superiore, senza collocare il loro scambio di sostegno oltre la particolare condizione precaria. In tal senso, penso che potremmo parlare di “fine del politico” (incapacità di produzione di ordini simbolicamente condivisi) come di un fattore che ri-solidifica questi legami.

In questo scenario, un elemento di interesse è la comparazione tra le narrative delle persone più anziane e quelle più giovani. Le persone oltre i 55 anni sembrano maggiormente legate a una rappresentazione del potere in scala verticale, guardano alla classe dirigente come alla maggiore responsabile e rappresentano l’incapacità ambientale “popolare” in termini di perdita di conoscenze e pratiche che legavano al mondo naturale (agricolo). I giovani citano più raramente il referente istituzionale, che identificano come una delle concause del disordine eco-politico (minore utilizzo della classe dirigente come capro espiatorio); il risentimento viene a spostarsi maggiormente sul piano dell’orizzontale (sui propri concittadini, su “chi non fa niente”) e pare correlarsi a una visione di malattia legata al proprio stile di vita, alle singole incapacità di collocare l’azione delle quali ci si fa maggiormente colpa.

Infine, il compiersi della scomparsa del referente gerarchico verticale[23] non pare portare a nuove elaborazioni sulla “governabilità del reale” (sulle trame ordinate di responsabilità). I campani di oggi, come il genio di Shakspeare secoli or sono, paiono formulare con relativa chiarezza questa immagine: qualora si perda forma condivisa di pensiero sul legame tra uomo e uomo, si perde anche quella sul legame tra uomo e ambiente poichè entrambe sono frutto di una capacità (socialmente data) di “veder connessioni”. 

 

Appendice Metodologica

La nostra analisi si basa su interviste narrative focalizzate sulle rappresentazioni degli scambi tra corpo umano e ambiente circostante, sulla questione delle fonti di rischio, sui processi che hanno condotto alla crisi dei rifiuti.

Durante la prima fase della ricerca sono state raccolte 15 interviste destrutturate (interviste pilota) che facevano riferimento molto ampio al “cosa (ti) sta succedendo qui?”. Nel corso di tale fase di pilotaggio sono state identificate tipologie di testimoni particolarmente “esposti” dall’esperienza quotidiana all’elaborazione di nessi ipotetici sullo scambio “uomo-ambiente” (neo-genitori nella fase dello svezzamento; commercianti della filiera agricola e\o manovali della crescente imprenditoria legata ai rifiuti) coinvolte poi nel seguito dell’indagine.

Nella seconda fase sono state condotte 65 interviste semi-strutturate[24] seguendo nei fatti una strategia di campionamento ragionato (stratificando il campione per genere, titolo di studio, area ambientale, tipologia famigliare - in particolare condizione di presenza\assenza di figli piccoli)[25]. Parallelamente sono stati acquisiti altri tipi di informazioni attraverso l’osservazione degli spazi peri-privati e privati (es: cortili e appartamenti, all’interno dei quali si cercava di realizzare le interviste) e la compilazione dei “diari sul campo” da parte degli intervistatori\trici formati per questa indagine.

Alla fine di un periodo di indagine di circa 12 mesi, sono state raccolte 80 testimonianze.

I testi, ottenuti da sbobinature integrali, sono stati analizzati per temi e poi per lemmi (analisi lessicale tramite il supporto del software T-LAB).

 

Ringraziamenti

Desidero ringraziare Sergio Manghi per la citazione di Shakespeare e le molte riflessioni sulla “crisi delle gerarchie” che ha generosamente condiviso (del cui utilizzo in questo saggio assumo ogni responsabilità).

Ringrazio davvero tanto Fabrizio Bianchi e Liliana Cori per l’opportunità di questa esperienza di ricerca, per me molto formativa e interessante, e per la loro capacità di fare rete, di operare davvero ‘trans-disciplinarmente’.

Ringrazio infine tutte le persone che hanno preso parte ai lavori del gruppo, troppo numerose per essere citate, che ci hanno guidato attraverso Napoli: mi hanno sorpreso per la disponibilità con cui sanno mettersi in gioco, anche quando il gioco è difficile, gratuito, troppo vasto per capire “cosa ci si guadagna”. L’esperienza di lavorare con loro è stata per me un ottimo guadagno.


[1] Tale indagine nasce come esito di una fase precedente di analisi dello stato di salute delle popolazioni residenti nei comuni a cavallo tra la provincia di Napoli e la provincia di Caserta, condotta dallo stesso CNR, che aveva riscontrato in queste aree un aumento relativo del rischio per alcune patologie correlabili all’inquinamento ambientale. Per un ulteriore approfondimento si consulti il sito: Sebiorec: http://www.cnr.it/cnr/news/CnrNews?IDn=1755

[2] Per crisi dei rifiuti intendo qui lo "stato di emergenza" relativo allo smaltimento ordinario dei rifiuti solidi urbani (RSU) nato nella stessa regione da una particolare commistione di errori tecnico-amministrativi e di interessi politici, industriali e malavitosi, ufficializzata già nel 1994 con la prima nomina del primo Commissario di Governo con poteri straordinari; in particolare, qui ci riferiamo ai comuni colpiti dalla crisi acuta del 2007-8. Per la ricostruzione dei diversi passaggi rinvio al sito wikipedia, in questo caso particolarmente ben curato e ricco di documentazione originale in allegato: relazioni dei commissari; documenti prodotti dalle associazioni ambientaliste, studi ricostruzioni socio-storiche proveniente dall’ambito accademico, ecc.: http://it.wikipedia.org/wiki/Crisi_dei_rifiuti_in_Campania#cite_note-DPCM.

[3] Cfr. F. Battaglia, F. Bianchi, L. Cori, Ambiente e salute: una relazione a rischio. Riflessioni tra etica, epidemiologia e comunicazione,  Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2009. 

[4] L. Cori et al., La complessità della comunicazione scientifica in ambito epidemiologico, in N. Pitrelli, G. Sturloni, D. Ramani, Comunicazione della Scienza, Polimetrica, Monza 2009.

[5] Vi è ormai una fiorente letteratura, soprattutto d’oltre oceano, sulle difficoltà che caratterizzano le indagini di biomonitoraggio (la misurazione della salute di una comunità nel suo insieme) a causa della paura circolante nella popolazione, delle indisponibilità a fornire i propri dati, della tendenza all’allarmismo.

[6] Crisi politica « crisi ecologica « crisi epidemiologica «

[7] Cfr. M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2005;  L. Zoja, Storia dell'arroganza. Psicologia e limiti dello sviluppo, Moretti & Vitali, Bergamo 2003.

[8] Come ricorda Bauman, il “progetto” (capitalista) è stato tale proprio per la sua capacità di rimozione simbolica degli “scarti” rispetto agli obbiettivi posti. Cfr Z. Bauman, Vite di scarto, Laterza, Roma-Bari 2005.

[9] Mi piace definire i comuni di cui ci siamo occupati – pur differenziati al loro interno – la Grande Napoli, parafrasando il modo in cui viene chiamata la regione metropolitana del Grande Casablanca, in Marocco, dove ho vissuto. In queste aree i processi di periurbanizzazione prolungati degli ultimi decenni hanno prodotto aree urbane senza soluzione di continuità, distanti e diverse dal ‘centro storico’, nei confronti del quale tuttavia ancora vengono definite e si auto-definiscono, lontane cioè da un ‘cuore’ urbano immaginario che intanto nei fatti è divenuto a sua volta periferia di altri, nuovi centri del potere, solitamente dislocati “più a nord”. Cfr. V. Pellegrino, L’occidente e il mediterraneo agli occhi dei migranti, Unicopli, Milano 2009.

[10] A. Iacuelli, Le vie infinite dei rifiuti. Il sistema campano, Rinascita edizioni, Roma 2008; B. Iovene, Campania Infelix, BUR, Milano 2008.

[11] A. Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, Il Saggiatore, Milano 2008; M. Maffessoli, La trasfigurazione del politico, Bevivino, Milano 2009.

[12] Diverse interviste ricordano come gli stessi operai della filiera di smaltimento irregolare dei rifiuti li abbiano a lungo seppelliti nelle loro proprietà, o come i campani abbiano ripreso a coltivare il proprio orto pur utilizzando le stesse acque che ritengono la fonte dell’inquinamento della terra agricola circostante, ecc.

[13] Cito qui Maffessoli non tanto nel senso di trasformazione del mestiere del politico in chiave “seduttiva” quanto nel senso di crisi del governo democratico del reale che «sta portando a declino le categorie politiche del secolo passato, ormai in disuso nel pensiero comune». Cfr. M. Maffessoli, La trasfigurazione del politico, Bevivino, Milano 2009. Come invita a fare Mouffe e come riassume efficacemente Mangano, quindi, è bene distinguere tra i recenti processi di trasformazione del mondo della politica (che spingono a parlare di “fine della politica” intesa come fine delle pratiche politiche tradizionali) - e trasformazione del “politico” inteso come categoria di analisi delle interazioni sociali improntate alla regolazione dei disequilibri di potere, al conflitto tra avversari, alla comprensione delle categorie “amico-nemico”, centrali nell’analisi del mondo contemporaneo. Cfr. M. Mangano, Il politico, la politica: Volgo-net, http://www.vulgo.net/index.php?option=com_content&task=view&id=846&Itemid=1

[14] Per “referenza gerarchicamente intesa” faccio riferimento alla capacità di “vedere l’ordine”, sia che si faccia allusione alla dimensione verticale e al senso dell’istituzione, sia pensando alla dimensione orizzontale e alle forme di accordo tra conviventi in termini di ‘responsabilità coordinate’.

[15] Uso in questo saggio il termine di comunità in senso ampio riferendomi ad un insieme di individui legati fra di loro da un elemento di comunione riconosciuto come tale, quale la condivisione di un ambiente e la presenza di dinamiche relazionali (interazioni) persistenti, senza tuttavia necessariamente assumere lo spostamento del concetto praticato dalla sociologia recente verso una dimensione identitaria più vincolante (definizioni delle comunità come gruppi caratterizzati da interessi particolari, ideali condivisi, raggiungimento di obiettivi generali o precisi). Come vedremo, ciò che si rivela interessante nella nostra analisi è la narrazione di una “coesione resistente”, caratterizzata da scambi in aumento tra prossimi proprio all’interno di società sempre più ‘modernamente’ realizzata (nei termini di spostamento dell’interesse collettivo sulla realizzazione del singolo). E tuttavia, queste forme di appartenenza stretta non significano nei fatti forme di comunitarismo organizzato, non collocano l’individuo né in termini identitari né termini di promozione delle sue istanze all’esterno, a differenza di quanto illustrato teoricamente in recenti posizioni sul neo-comunitarismo. Nelle conclusioni, infine, riprendo la descrizione di questa comunità in termini di “gruppi con oneri reciproci”, vincoli interpersonali che tuttavia non collocano il soggetto rispetto all’insieme.

[16] Gli epidemiologi con i quali lavoro, interessati ad indicare proposte per uscire dalla crisi ambientale legata ai rifiuti, hanno molto apprezzato le conoscenze e le intenzioni delle\degli intervistati\e in materia di raccolta differenziata, la disponibilità degli adulti e delle giovani famiglie di muoversi in quella direzione, e stanno già pensando alla possibilità di impostare su questo elemento le future campagne di comunicazione scientifica partecipata (co-gestita con gruppi locali).

[17]Per la complessa interconnessione tra indifferenziazione e risentimento rimando a R. Girard in S. Tomelleri, La società del risentimento, Meltemi, Roma 2004.

[18] L’acm lessicale è una tecnica di analisi multidimensionale di tipo fattoriale applicabile a variabili categoriali che produce appunto rappresentazioni spaziali; le variabili sono rappresentate dalle parole all’interno delle sequenze primarie di analisi (le frasi predisposte dal ricercatore) in modalità binaria assenza\presenza, mentre le variabili illustrative che possono essere considerate sono l’età, il titolo di studio, il livello di inquinamento del comune di residenza, ecc. (per maggiori dettagli sul contributo numerico delle singole variabili rispetto ai fattori si rimanda al report di indagine: Pellegrino V. (2010), L’immaginario epidemiologico dei cittadini campani immersi nei rifiuti: riflessioni per una comunicazione scientifica di comunità, CNR Pisa-Roma, in fase di pubblicazione). In realtà, prima di effettuare l’analisi delle corrispondenze vi è stata una fase di creazione del “dizionario” (prevista dal software T-LAB e consistente nella dis-ambiguazione di termini che possono avere più di un significato, ma anche della convergenza tra termini-sinonimi per valutare la persistenza di alcuni significati, come ad esempio: mio_corpo, mio_fisico; politico_locale, sindaco, amministratore_locale; giovani, ragazzi, ragazzini; ecc.); vi è stata poi un ulteriore fase esplorativa sull’associazione tra lemmi (associazione tra alcune parole chiave e altre. Ad esempio, abbiamo studiato la collocazione di parole come: giovani; governo; mentalità; camorra; nord; tumore; terra; informazione; aria; puzza; acqua; politici; istituzioni.

[19] Si tratta in realtà di una mia rappresentazione sintetica del risultato dell’acm lessicale poiché i grafici di output delle elaborazioni tramite T-LAB sono difficilmente leggibili.

[20] O meglio, i fattori sono statisticamente associati ad alcune parole–variabili attive nella modalità presente\assente all’interno delle frasi-sequenze di analisi; la relazione di tali presenze\assenze lessicali con le variabili illustrative (nel nostro caso età e genere) permette l’interpretazione dei fattori.

[21] M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano 2009.

[22] R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Torino, Einaudi 2004.

[23] A tal proposito, è particolarmente interessante la narrazione riguardante la “camorra”. Essa non viene descritta come “parte differente” rispetto alle istituzioni democratiche o alla società civile, in esse insinuatasi, ma come “realtà indifferenziata” rispetto a esse, come “forma della mente” ormai dominante e traducibile nella frase di un intervistato che - a registratore spento - mi ha detto: “Qui il mestiere del politico è come quello di tutti noi altri: prima ci devo guadagnare io e poi se ci guadagnano gli altri è meglio”, per aggiungere poco dopo: “alla fine non ci guadagna nessuno qui”.

[24] La traccia dell’intervista è stata divisa in diverse sezioni, successivamente riordinate per tematiche nella scheda di rilevazione dei temi: A: Percezione delle connessioni (cosa è successo qui durante la crisi dei rifiuti? cosa è successo a te? in che modo l’ambiente inquinato interviene sul corpo?); B: La dinamica dello scambio corpo\ambiente (quali fonti può arrivare l’inquinamento (aria, acqua, terra, alimentazione)? E qual è la più pericolosa?; C) Le strategie individuali di gestione dello scambio (in che modo tuteli il tuo corpo dall’ambiente?); D) Potere e responsabilità (chi è responsabile della crisi ambientale e cosa ti aspetti dal futuro? nei confronti di chi nutri ancora fiducia e da chi ti aspetti delle risposte?).

[25] Si tratta di 16 comuni a loro volta suddivisi per 3 fasce di rischio - rischio elevato, rischio intermedio e rischio basso - sulla base dello studio epidemiologico che ha preceduto Sebiorec e sulla base del quale sono stati identificati i comuni più inquinati da rifiuti gestiti illegalmente, nei quali si presentano tassi di mortalità da tumori e di malformazioni che aumentano all’aumentare dell’inquinamento (Martuzzi et al, Cancer mortality and congenital anomalies in a region of Italy with intense environmental pressare due to waste, in «Occupational Environmental Medicine», May 2009, Vol 66, N 5). In particolare i comuni sono: comuni sono quelli di Acerra, Aversa, Caivano, Castel Volturno, Giugliano di Campania, Marcianise, Napoli (località Pianura) e Villa Literno, che appartengono alla zona A (ad elevata pressione ambientale da rifiuti); Maddaloni, Nola, Qualiano e Villaricca alla zona B (intermedia); Brusciano, Casapesenna, Frattamaggiore e Mugnano di Napoli alla zona C (bassa o nulla). Per una più accurata descrizione del nostro campione di indagine (80 intervistati distribuiti secondo le variabili sopra elencate) rimando al report di indagine: V. Pellegrino, L’immaginario epidemiologico dei cittadini campani immersi nei rifiuti: riflessioni per una comunicazione scientifica di comunità, IFC CNR, in fase di pubblicazione

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