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Hybrid Design Lab come spazio di confronto

Autore


Antonio Cesare Iadarola

CONTAMINAZIONI, London

creative director, designer, presso CONTAMINAZIONI, London, www.contaminazioni.co.uk

Indice


  1. Sul Design
  2. Hybrid Design Lab
  3. Design e interdisciplinarietà

 

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S&F_n. 06_2011


  1. Sul Design

Che cosa sia il design è un interrogativo critico su cui si discute da quasi duecento anni: sono mobili i confini disciplinari e diversificate le metodologie delle varie scuole e settori specifici.

Tralasciando qui una dettagliata analisi storica dell’evoluzione della cultura del progetto di design si può sinteticamente affermare che segno comune di ogni periodo sia la gestione della complessità nelle diverse epoche. Come ben spiegato da Paola Antonelli, curatrice del Dipartimento di Architettura e Design del MoMa di New York, il designer è metaforicamente una spugna, per la sua capacità di cogliere grandi quantità di informazioni dal contesto e interpretarle: «I designer prendono le rivoluzioni e le traducono così che tutti le possano usare»[1].

La crescente attenzione per la progettazione dei processi produttivi, maggiore rispetto a quella riservata agli aspetti formali dell’artefatto, e il conseguente cambiamento comportamentale rispetto al progettato hanno reso, da una parte la disciplina del Design di sempre più difficile comprensione al grandissimo pubblico, e dall’altra hanno aperto punti di dialogo con discipline complementari, in particolare con le scienze, in un’ottica di trasferimento tecnologico e del sapere.

È ormai acquisita la dimestichezza col concetto di economie e mercati basati su beni non tangibili. La smaterializzazione del prodotto, e ancor più il passaggio a un economia dei servizi e poi delle esperienze[2] ha reso i progettisti sempre più abili nell’utilizzare strumenti e metodi diversi a seconda delle esigenze e del tipo di prodotto/servizio/esperienza da progettare.

Sempre più il designer si avvale dell’apporto di competenze diverse, svolgendo un ruolo di mediatore e di interprete delle esigenze produttive attraverso le tecnologie disponibili.

Una situazione liquida, come la società da cui deriva[3], tanto liquida che rischia di evaporare, lasciando spazio a malintesi interpretativi e critici e a esasperazioni come quella dell’art-design o del design-artigianato, con conseguenti squilibri sul mercato dei prodotti e sul valore delle prestazioni professionali.

Oggi è utile chiedersi se abbia ancora senso parlare di design come disciplina a se stante, con suoi confini metodologici netti e se sia possibile dare delle indicazioni trasparenti anche sul piano della comunicazione di progetti multidisciplinari.

 

  1. Hybrid Design Lab

È difficile comprendere di cosa si occupi Hybrid Design Lab, rimanendo nelle definizioni classiche del design come disciplina di progettazione di artefatti. HdL nasce per rispondere a una discontinuità fra mondo universitario e pratica professionale. Occorre considerare il design come disciplina ibrida, espansa, contaminata, che muovendo dal bio-inspirato sta ora ridefinendo modalità di lavoro collaborativo ed esplorando nuovi punti di contatto fra discipline, secondo principi di trasferimento tecnologico e trasversalità del progettare.

Si ridefinisce così il ruolo del designer, non sulla base dell’autorialità rispetto all’opera, ma come professionalità che colmi i gap fra settori di ricerca differenti, al fine di far convergere i diversi sforzi intellettuali in risultati tangibili.

Da una strategia multidisciplinare (un designer che sa utilizzare molti metodi e strumenti) si passa così a una interdisciplinare (un designer che facilita la collaborazione di vari attori del progetto, provenienti da diverse discipline, per un risultato comune).

È l’incontro e il dibattito sulle possibilità creative futuribili di cui si discute all’interno del Lab. L’appetibilità del mercato sul prodotto finito è solo uno degli elementi da considerare per i risultati del progetto.

Ci si occupa ancora di oggetti, certo, concentrandosi sulla loro importanza all’interno della catena produttiva, che parte dall’analisi delle risorse territoriali per arrivare a interpretare esigenze di tipo local. Considerare la progettualità come un ecosistema che deve sempre mantenere il proprio equilibrio per restare sano è il centro profondo dell’attività. In questa prospettiva ci si muove su più piani, che vanno dal considerare il contributo di tecnici come biologi o ingegneri dei materiali, all’avvalersi di antropologi o sociologi per comprendere quale tipo di relazione l’utente possa stabilire con l’oggetto ai fini di una migliore fruizione pratica ed emozionale.

Un gruppo così espanso e flessibile di persone, eterogenee nel loro modo di pensare e nelle loro routines ha anche bisogno di ritmi di comunicazione diversi.

I modi del nostro comunicare sono quelli spontanei della tribù contemporanea, la big society che stratifica, compara e condivide, dando luogo a cooperazioni non istituzionalizzate, know how e coinvolgimenti spontanei e di diverse figure per diventare un incubatore di menti creative del Sud Italia e un gruppo di progettazione legato al territorio con prospettive di dibattito globali.

In un contesto di crisi economica il ruolo del Lab è trovare modelli differenti dai preesistenti, facilitando crescita culturale trasversale.

Il tema della sostenibilità, così, si articola sotto il suo aspetto economico e sociale nel creare nuovi modelli di collaborazione, e in definitiva nuovi business models.

In questo momento HYBRID DESIGN LAB sente l’esigenza di definire il suo ruolo sociale, creando un contesto post-universitario adattato ai bisogni dei giovani designer e orientata alla promozione dei loro lavori e dei loro percorsi.

Strade talvolta discordanti e divergenti, perché il Lab come community, consapevole del suo ruolo di contenitore è aperto a ricevere, a raccogliere ma non costringere, coordinare senza influenzare, evitando di filtrare le direzioni creative dei singoli progettisti, per una progettazione che parte dall’esigenza espressiva e professionale del singolo e non da quella dell’industria.

 

  1. Design e interdisciplinarietà

L’agire creativo e progettuale è quanto di più emozionale e innato ci sia fra le attività umane, in definitiva, il Design è legato alle persone, alle loro relazioni, al loro vivere la società. HdL vuole istigare un pensiero globale nonostante il suo appartenere a un luogo e assorbirne, nella metafora della spugna, micro-tendenze, micro-fenomeni.

Act local, think global i media digitali svolgeranno un ruolo importante nel lavoro del Lab come strumento di analisi di macro-tendenze che hanno un senso teorico solo se opportunamente collocate nella pratica, intrinsecamente case-specific, del Design, mutevole e vivo nel suo ruolo di tramite disciplinare.

È per questo che come struttura istituzionale si offre a studenti ed ex-studenti della Seconda Università di Napoli possibilità di co-operare in progetti che vanno dallo studio di Diatomee, all’uso della canapa, al riuso di materiali sintetici, fino a studi sull’innovazione dei processi. Un agenda di attività che ha bisogno di interlocutori diversi per competenze e scala come i centri di ricerca Cnr, le altre università, o aziende italiane e professionisti che si vogliano confrontare con un organismo ibrido che cerca di aderire ai percorsi più avanzati della scienza e della biologia in particolare.

Costruendo percorsi di riflessione e di crescita, culturale e produttiva e trattando il Design non più come disciplina, ma come criterio d’azione applicabile alla scienza e alla tecnica per risultati precisi.

La costruzione di spazi di confronto per specialità diverse, raccoglie dunque figure diverse, per creare sinergie che possano durare a lungo e produrre opportunità di ricerca e prodotti innovativi.

Se da un lato la scienza offre contenuti innovativi su cui lavorare, il design è capace di rendere evidente, visualizzare e implementare soluzioni per la comunità e l’industria, altrimenti limitati alla comunità scientifica.

Hybrid Design Lab, come detto, si muove su un range ampio e talvolta eterogeneo di iniziative, di cui il design bio-ispirato costituisce la base concettuale.

Tale approccio al design di per se, ha subìto negli anni una propria evoluzione: inizialmente forse più legato a un linguaggio formale organico, a dimostrazione dei confini delle più avanzate tecniche di manifattura, oggi vede le sue direzioni moltiplicarsi e perseguire quello che è probabilmente il suo reale motivo d’essere, trovare un linguaggio espressivo per prodotti di sintesi fra scienza e design, che non siano necessariamente complessi nella loro morfologia, ma derivino da processi creativi e produttivi integrati di diversi progettisti con skills diverse.

Uno scenario che apre un ventaglio di opportunità infinite: individuare punti in comune fra arte e scienza e fra design e scienza, significa condividere contributi per una crescita culturale ed economica che in definitiva riguarda la società.

Il rischio della perdita dei confini disciplinari, da un lato problematico ai fini di una riorganizzazione del modello formativo del Design come disciplina, è però da vedersi come postmoderna conseguenza a una scienza aperta dove ogni esperienza progettuale è una petits récits[4]: finestra su contesti specifici di persone, idee e territori di riferimento. L’iperspecializzazione richiesta dall’attuale mercato del lavoro trova un paradosso nella tendenza a tutti i livelli di un operare trasversalmente alle discipline e abbandonare la ricerca dell’originale e del formale, a favore di ciò che crei effettivo valore sociale ed economico.

In modo da ridefinire il senso del progettare prodotti e servizi innovativi attraverso, anche oggi, l’interpretazione della complessità dei nostri giorni.

 


[1] P. Antonelli, Design and the Elastic Mind, TED talk, New York 2007.

[2] J. Pine, J. Gilmore, The Experience Economy, Harvard Business School Press, Boston 1999.

[3] Z. Bauman, Vita liquida, tr. it. Laterza, Roma-Bari 2006.

[4] J. F. Lyotard, La Condition postmoderne: rapport sur le savoir, Les Editions de Minuit, Paris 1979.

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