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Psichiatria e psicoanalisi: relazioni virtuose

Autore


Fulvio Sorge

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Intro
  2. Sorvegliare e punire: l’insegnamento di Foucault
  3. Poste in palio
  4. Psicoanalisi e psichiatria
  5. Conclusioni

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S&F_n. 14_2015

Abstract


Psychoanalysis is based on the principle that many factors guiding a person’s feelings, thinking, and action remain outside his or her conscious awareness. These unconscious emotional processes influence one’s current relationships, work life, sense of self, and ability to feel pleasure. Recent reviews of neuroscientific work confirm that many of Freud’s original observations, not least the pervasive influence of non-conscious processes and the organizing function of emotions for thinking, have found confirmation in laboratory studies The integration of psychoanalytic ideas with modern science is unlikely to interest investigators from other disciplines unless psychoanalysis can actually contribute to directing or to informing data collection in these disciplines. The isolation of psychoanalysis should be replaced by active collaboration with other mental health disciplines. The proposed reflection would like to stress the virtuous relationship between psychiatry and psychoanalysis. The knowledge of the psychiatrist is always incomplete, as well as the diagnosis is always ongoing. Psychoanalysis, as a discourse about the division of the Subject, can make to psychiatry indispensable tools to reflect on his practice.


  1. Intro

Della psicoanalisi per la formazione medica e, in particolare, di quali sue virtuose abitudini, produttivi tragitti possano intersecare la strada maestra, padronale, maestosa delle neuroscienze, qui si vuole fornire qualche piccola coordinata, non infimo suggerimento.

Incontro fatidico, tra Laio, signore di Tebe, e lo straccione Edipo, che però giunge, occorre dirlo, in quel luogo avendo risolto l’enigma della Sfinge.

Il paragone non è peregrino se si considera che, sul piano del sapere, la “scienza dell’inconscio” porta al riconoscimento di un’altra scena, che però si cela in ognuno e decentra e irretisce la sovranità cosciente; che, sul piano pratico, il gioco di forze, la tensione irriducibile che anima ogni soggetto, preso tra esigenze pulsionali e rappresentazioni sociali, il disagio dell’uomo civile si alimenta alla “dissidenza nevrotica” della sessualità; che, infine, sul piano collettivo, proprio il cuore pulsionale dell’animale uomo prende in contropiede gli ideali sociali e, Nietzsche docet, ne costituisce una impietosa diagnosi, suscitando, da sempre, violente resistenze che si oppongono a questo smascheramento.

Freud, su tale punto, è assolutamente chiaro: i rudimenti di una psicologia del profondo, in ragione della esemplificazione che se ne può trarre dalla presentazione del caso clinico, possono, per eccellenza costituire l’antropologia medica di cui lo studente di medicina e il medico non possono fare a meno. La psicoanalisi è indispensabile alla formazione psichiatrica, esattamente nella misura in cui quest’ultima «ha carattere esclusivamente descrittivo» e si riduce a una psicopatologia essenzialmente «nosografica»: non può offrire «la benché minima compressione dei fatti osservati»[1].

L’ostilità che suscita questo assunto programmatico, ha segnato il destino accademico della disciplina, attualmente relegata in posizione marginale anche sul piano delle terapeutiche dai modelli cognitivo-comportamentali, certamente in ragione del suo voler essere riflessione sul soggetto stesso, soggetto inconscio, per definizione preso in un “insaputo” che si tratta di elevare a un certo sapere. Sapere che, per il funzionamento stesso che la psicoanalisi suppone al suo soggetto, continuamente resiste e si sottrae alla sua conoscenza. Sapere poi che esercita il suo magistero solo a patto che all’Altro lo si supponga, vale a dire che ci si trovi nella dimensione inedita del transfert. Occorre prendere atto allora di questo paradosso: come trasmettere l’insegnamento di qualche cosa che si configura solo nell’orizzonte diadico della relazione analista-paziente?

Ma la psicoanalisi di più non vuole né può, dice Freud, essere una Geheimwissenschaft, una scienza occulta. Bisogna sostenere che la psicoanalisi ha il dovere di inscriversi e prendere parola nella scientificità (Wissenschaftlichkeit) e nella socialità (Gesellschaftlichkeit) senza mai abdicare alla sua relazione privilegiata con l’altra scena, quella appunto acquisita nell’esperienza analitica, soggetto per soggetto.

Per il tramite del caso, esemplare quanto singolare, attraverso il linguaggio e i suoi inciampi, che pertengono e segnano ogni soggetto attraverso l’universale della socialità e della legge, si apre il campo di un sapere, di uno e di tutti, che è intrinseco all’uomo e che discute poi di una problematica che riguarda e costituisce ogni soggetto: l’emergenza, secondo certe regole che, ripetendosi, significano la singolarità di ogni tragitto destinale, della mente e del corpo.

È in ragione di questa partenogenesi e dalle tracce di godimento di cui ognuno è segnato in maniera primigenia che l’effetto di ritorno del sintomo, nell’evidenza della clinica psicoanalitica ragionata attraverso i casi, può sollecitare il desiderio di sapere, di averci a che fare, di interrogarsi su di sé, in una parola accendere la candela, che si farà fiamma, alla luce della quale Psiche spia il sonno di Eros.

E quello era mio marito! Quello il Signore del Tutto. Quello la fonte della vita, l’origine di tutto che quaggiù nasce e respira, e guarda, e parla, e ascolta, e sente, e pensa, e soffre, e gioisce, e ama, e spera, e s’allegra, e s’attrista, e crede, e s’illude! Quello il dominatore del mondo! Quella la vetta che noi donne aneliamo fino dall’alveo di nostra madre. Quella la radice di vita che noi aspiriamo fin dal caos della prenascita! Quello il nostro destino! Quello la Vita! Quello l’Amore!

Non potevo credere. Guardavo e non vedevo. Continuavo a guardare e non riuscivo a persuadermi. Dubitai della luminosità della luce. Pensai che l’occhio mi tradisse, che si prendesse gioco di me, e proprio nella cosa più importante, nella fondamentale, radicale (siate etimologhi signori) della mia vita. Mi parve a tutta prima un mostruoso errore. Che una bestia immonda si fosse sostituita nel buio a mio marito. Che un viscido lumacone, un bruco calvo, avesse preso il posto di colui che, invisibile, mi dava tanta felicità, tanto piacere, tanto calore, tanto germe di vita e che così completamente mi colmava di sé, che la sua vita era la mia e lui ormai io.

E mio marito allora? L’“invisibile amato” il caro me stessa? La parte migliore e più preziosa di me? Il mio bene, la mia gioia, il mio piacere, il mio gioco, la mia forza, il mio tutto? …

Ahimè! Perché non poter tornare indietro? Perché non poter cancellare quello che è? Perché non poter fuggire tanto avanti, da sommergere quello che è nell’oscurità dell’oblio?

“Subito che ebbi fatta luce, quello già dormiva, ma turgido ancora e ansante della fatica portata poco stante a termine. Paonazza tuttavia la testa, potentemente cupolata e svasata alle ganasce a imitazione dell’elmetto di guerra dei soldati tedeschi, priva così di occhi come di naso e solo di bocca fornita, muta e verticale come la bocca della torpedo ocellata. Il suo corpo tubolare, sul quale s’incordavano e palpitavano grosse vene turchine, e privo sia di braccia, sia da gambe, sia di ali posava goffo e squilibrato sopra due borse rigonfie e lustre, simili alle borse di una doppia ciaramella”.

“Si rilassava poco a poco il lumacone, e allentava nel sonno, piegandosi di lato come esausto, simile a un angue morente che si lascia rotolare giù per la china. Il molle cilindro si riduceva e si deformava”.

“Con movimento lento e regolare, la testa si tirò fin sulla bocca attonita e sdentata la pelle sul collo e se ne fece cappuccio, onde a rivelare la sua timida presenza non rimase se non il rigonfiamento torno torno le branchie”.

E colui che poco innanzi ergeva l’orgoglioso capo e inarcava le reni, ora giaceva umiliato e sfatto, avvolto nella propria pelle come un morticino nel sudario. Questo è l’Amore, signori. Questo è quanto rimane dell’Amore. Ecco perché Amore non vuole essere guardato in faccia[2].

 

Non diversamente dall’intravisto della scena primaria che trasforma in desiderio la domanda e seduce il soggetto alle ragioni di una pratica.

Così la scelta di saperne di più, ancora una volta, e allora, gioco forza, siamo giunti al registro dell’etica del soggetto, che non sta dalla parte di una collocazione passiva, di un nutrimento coatto del cibo-sapere già digerito dall’Altro, ma dalla parte dell’atto. Il desiderio di sapere e il sapere supposto si producono, hegelianamente, secondo una dialettica del riconoscimento che trasforma il bisogno, la contingenza della lezione, della firma di presenza, dell’esame, in desiderio.

Egli coniò il nome “Psicoanalisi” – così Freud parlando di se stesso quando, nel 1925, compila, per l’Enciclopedia Britannica, la voce “psicoanalisi” – che, con il passare del tempo, assunse due significati. Oggi essa designa 1) un particolare metodo di trattamento delle sofferenze nevrotiche; 2) la scienza dei processi psichici inconsci, alla quale viene dato anche l’appropriato nome di “ psicologia del profondo[3].

 

  1. Sorvegliare e punire: l’insegnamento di Foucault

Michel Foucault (1926-1984) è sicuramente uno degli intellettuali francesi che, dal dopoguerra in poi, ha maggiormente influenzato lo sviluppo del pensiero occidentale. I suoi studi sulla storia della follia e delle pratiche di segregazione hanno segnato il percorso di molti di noi, allora ragazzi, che affrontavano per la prima volta questi temi, in un’epoca nella quale essi erano al centro del dibattito culturale. Non a caso, proprio da quell’epoca, certamente molto ideologica, sarebbe nata la chiusura dell’ospedale psichiatrico.

Foucault ha, infatti, legato il proprio lavoro alla rivolta contro la cultura autoritaria negli anni ‘60 e ‘70. In questo lavoro ha smascherato il rapporto tra potere e pratiche mediche e psichiatriche, così come tra potere, morale e sessualità, dove la norma era al servizio del controllo e dell’assoggettamento.

Nelle opere Storia della follia e Nascita della clinica Foucault ricostruisce le origini della moderna clinica medica e psichiatrica, sia sotto il profilo scientifico, sia teorico: la definizione di ciò che è fuori dalla norma serve per capire come una società definisce se stessa. Il fatto che clinica e psichiatria nascano dalla “separazione” ha due effetti immediati: l’impossibilità di separare in psichiatria ciò che si fa dal dove si fa (si ricordi come Saraceno definisce la psichiatria una «storia di case ... di luoghi»), la seconda l’asservimento della psichiatria alla norma, in quanto sua diretta emanazione (si pensi come neppure la Legge 180 esca da questa condizione).

Per questa via, in Sorvegliare e punire, Foucault ha elaborato in modo originale i rapporti tra sapere e potere: la società occidentale si organizza in un sistema di pratiche, procedure, strategie indirizzate ad assoggettare i corpi negli ospedali, negli eserciti, nelle prigioni, nelle fabbriche, nelle scuole (come scrive lo stesso Foucault: «sorveglianza, esercizio, manovre, annotazioni, file e posti,classificazioni, esami, registrazioni ... tutto un sistema per assoggettare i corpi, per dominare le molteplicità umane»[4]). Anche dopo il XVIII e il XIX secolo, con la fine dei supplizi, il corpo passa a un nuovo tipo di supplizio:

il corpo, secondo questo tipo di penalità, è irretito in un sistema di costrizioni e di privazioni, di obblighi e di divieti. La sofferenza fisica, il dolore del corpo, non sono più elemen­ti costitutivi della pena. Il castigo è passato da un’arte di sensazioni insopporta­bili a una economia di diritti sospesi (pertanto la privazione dei diritti come ese­cuzione di una pena e controllo della trasgressione). Se è ancora necessario, per la giustizia, manipolare e colpire il corpo dei giustiziandi, lo farà da lontano ... tutto un esercito di tecnici ha dato il cambio al boia (tra questi ci sarebbero ap­punto anche lo psichiatra e lo psicologo)[5],

 

Per Foucault il potere si presenta come qualcosa di disperso in tutta la socie­tà, mentre il pensiero del soggetto cerca di indagare i dispositivi che l’uomo at­tiva per divenire capace di organizzare la propria esistenza e darle significato.

Soprattutto nei suoi ultimi lavori, emerge una differenza tra l’antico e il mo­derno, nelle modalità attraverso le quali l’uomo si è riconosciuto come uomo di “desiderio” (la moralità greca, intesa come estetica della trasgressione e quindi tollerata – la moralità borghese, nel senso del controllo della trasgressione at­traverso la norma). Nel moderno emerge, infatti, una moralità prescrittiva e so­spettosa del desiderio: non è oggi possibile pensare a un rilancio della morali­tà greca, ma dall’interno delle relazioni di potere date, si deve esercitare la pra­tica del pensiero critico, l’elaborazione della verità, le pratiche di libertà.

Il potere normalmente non riconosce queste pratiche di libertà (si pensi all’800 come periodo in cui si è tanto alzato il vessillo della libertà mentre na­scevano e si sviluppavano le più disparate teorie e pratiche di disciplina). Dal momento che il potere non tollera la non conoscenza, più l’oggetto del nostro sa­pere è ignoto, più il potere viene esercitato. In psichiatria questo è stato chiaris­simo, come stigmatizzato da Basaglia nelle sue Conferenze brasiliane[6].

Secondo Foucault la malattia mentale nasce e si differenzia dalla follia quan­do Pinel, in Francia, libera dalle catene, nel 1793, un disgraziato recluso. Al di là della sua buona intenzione, con Pinel, l’emarginazione esce dalla reclusione mentre la malattia mentale resta in manicomio. In esso si definisce, si da conoscere come alterità assoluta, si stigmatizza, si elimina.

Il paradosso della vicenda è che Foucault ha costruito una teoria della storia e del soggetto che ha bisogno (per tradursi nella vita quotidiana e soggettiva delle persone) di pratiche “liberatorie” che permettano di definire la soggettività nella storia di ciascuno di noi, mentre Basaglia ha fornito involontariamente una teoria delle pratiche liberatorie che avrebbe potuto, ma che non è riuscita a integrarsi con quella di Foucault (i due non si sono mai incontrati)[7].

Per Foucault è necessaria una discontinuità nel percorso storico e questa discontinuità storica è un’occasione che si presenta al soggetto per scoprire la propria soggettività attraverso l’uso della critica e delle pratiche liberatorie. Con la chiusura dell’ospedale psichiatrico noi, in Italia, abbiamo avuto la discontinuità, ma ci siamo fermati nell’uso della critica e delle pratiche liberatorie. Ci troviamo così oggi a dichiarare di fare cose che non facciamo, a non ritrovare più i modelli teorici delle nostre pratiche, svuotate dalla spinta appunto liberatoria. Il paradosso è che ci siamo trovati a separare nuovamente sapere e potere. Bisogna dire che alle catene d’antan, alla sottrazione del folle alla vista dei benpensanti operata attraverso l’internamento manicomiale, con la “poderosa avanzata della macchina da guerra delle neuroscienze”» (P. Migone). La repressione attuale dei folli si articola, democraticamente, attraverso la preclusione del soggetto in favore del sintomo, inteso come numero in ragione del sistema di diagnosi categoriale prevalente.

La decisione di dire la verità sul potere, ripercorrendo la storia attraverso processi e memorie, ha una qualità ormai difficile da trovare nel paradigma bio-politico della psichiatria contemporanea.

Con Foucault si segue un pensiero che funziona come archivio e come strategia. Da una parte c’è la dimensione archeologica che vuole rendere visibile ciò che è nascosto nella storia, dall’altra la volontà esplicita di tornare al presente e interpretarlo, modificarlo con l’azione.

Dalle profondità del moderno Foucault porta a galla quegli esempi che poi, schierati contro le istituzioni psichiatriche e il potere, diventano punti nodali di interpretazione delle realtà individuali e sociali.

Nei vari casi descritti dal filosofo, Pierre Rivière, Henriette Corner, l’ermafrodito Roue, il paragone con Freud è obbligato, se Freud utilizza sintomi e indizi, nella descrizione dei casi, Foucault ritma la descrizione come un quadro di un grande pittore.

È la grandezza di un certo modo di lavorare, diverso dal sapere universitario, che porge la storia rovesciandone i termini e mettendo ciascuno di noi nella po­sizione dell’anormale, che deve essere corretto, “sorvegliato e punito”. Medici psichiatri e carcerieri usano — spiega Foucault — un metodo messo a punto secoli fa, durante le epidemie di peste. Quando le città erano in quarantena gli abi­tanti dovevano rispondere all’appello degli ispettori. Chi non si affacciava alla finestra di casa, chi non si rendeva visibile era considerato malato e quindi pe­ricoloso.

Follia, sapere dei folli, sapere medico della follia, psichiatria-psichiatra, costi­tuiscono gli elementi di continua ricerca e definizione del loro ruolo all’interno di società che sono in continuo cambiamento.

Michel Foucault opera una distinzione tra le società organizzate dalle leggi e quelle organizzate dalle norme. Nel mondo della legge vi è una distinzione chiara tre il dentro e il fuori (legge). La figura della legge è sempre accompagnata da ciò che le è esterno: i margini e il fuori legge. L’interdetto è l’altra faccia della legge. Nelle società delle norme dentro e fuori si confondono in modo tale che il soggetto non si trova mai tutto nel rispetto delle norme o nella loro eccezione. Non vi sono margini definiti e i personaggi più eminenti della legge sono sospettati di avere infranto questo o quell’altro interdetto. Nuove norme possono sempre essere applicate per complicare lo spazio delle regole senza che il loro statuto in rapporto alla legge sia chiaramente definito.

Quanto detto è utile per definire lo statuto del soggetto nel mondo attuale ove la sua identità e identificazione appaiono fluttuanti, liquide. Lo spazio dell’Altro della legge è, allo stesso modo, regolato per una moltitudine di norme, confuso per le eccezioni e bucato da zone, luoghi ove diritto e legge sono interdetti. Le zone franche si producono all’interno di regole non applicate, contraddittorie, indefinite.

Più lo spazio vitale si urbanizza, più le popolazioni si inurbano più prolificano i non luoghi. Spazi indiscernibili, residuali, selvaggi, fuori regola in cui si producono nuove norme di identificazione di genere, di godimento e fruizione degli oggetti, dei gadget della società post-moderna, non più sottomessi al registro dell’interdizione ma assoggettati alle norme della tecnologia del godimento.

L’istanza vitale, come sostiene e preconizza Lacan[8], si produce come adesione a un godimento ininterrotto. I soggetti trovano radici in un registro del consumo in ragione della spinta indiscriminata al godere. La società delle norme si articola intorno a una verità sociale astratta, inspirata dalla falsa democratizzazione di un diritto mondializzato al piacere, al luogo comune, alla circolazione acritica di opinioni, al gossip, e così lavora, animata dalla pulsione di morte, al naufragio del soggetto.

La società autarchica delle norme contiene e produce il suo diverso, non alteralienus, ma similis – l’identificazione all’Altro, ci suggerisce René Girard, si gioca sull’identificazione all’oggetto di cui l’Altro gode – accoglie le zone franche dalla legge, le frammenta, le moltiplica: zone che intercettano quelle domande ineludibili che Kant pone come irrimediabili per ogni uomo quanto precluse al soggetto della contemporaneità: Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare ? Che cosa posso sperare?

Quale ruolo allora, in questo mondo, per chi si autorizza psicoanalista?

La psicoanalisi non ha l’ambizione né l’intento di riordinare il sociale in nome di un significante padrone che possa facilitare a ciascuno il reperimento del suo posto all’interno degli effetti confusivi prodotti dal rimaneggiamento continuo delle norme. La sua collocazione nel mondo contemporaneo è in continuità con la sua storia e con le nuove domande che i soggetti della contemporaneità le pongono, non più come enigma sintomatico da decifrare, o come acting del paziente narcisista nella relazione analitica ma come congerie endemica dei nuovi sintomi che non trovano se non nel corpo la loro voce: patologie dell’alimentazione, condotte impulsive, tossicofilie.

Le forme attuali della clinica non sono caratterizzate dall’intenzionalità di dire e in ciò esprimono consonanza con l’ordine sociale contemporaneo nella sua spinta al godimento separato da una sanzione simbolica. Il sintomo non è, come nel passato, prelevato dal discorso dell’Altro quanto omologato all’oggetto dell’Altro e sussunto come icona identificatoria, insegna della soggettività. Si dà come rimedio, omologo alla droga o al farmaco, in quanto satura la divisione soggettiva.

Se il soggetto freudiano, Dora ad esempio, si costituisce «al punto nodale di conflitti sessuali inconsci nella catena delle generazioni e nella trama del gruppo familiare in cui tali sintomi si attualizzano»[9], il soggetto contemporaneo è pura pulsione, corpo in sofferenza di identità, collocato e proiettato al di là del limite ove il segno (tatuaggio, piercing, automutilazione) o la prestazione sostituiscono, sul piano immaginario, l’emorragia del simbolico, che ha mortificato il corpo, nel tentativo di far consistere, fantasmaticamente, il vuoto che resta.

La pulsione deborda dalle zone erogene e, sul modello delle nevrosi attuali, senza nessuna mediazione rappresentazionale, investe l’intero soggetto, si soddisfa del suo intero corpo.

Mentre il discorso dell’isterica, che ha permesso a Freud l’invenzione della psicoanalisi, gli si proponeva come una ricca quanto indomabile fantasmatica interessante un corpo ribelle alla normatività paterna ma in difetto di godimento, le nuove forme del sintomo si producono come patologie dell’eccesso, moltiplicazione dei godimento, angoscia legata alla mancanza di rappresentazioni atte a sostenere la liberazione pulsionale, chiusura sul godimento autistico di un corpo reso feticcio attraverso la ripetizione monotona e terribile di un sintomo fuori-senso che supporta l’Ur-Grund di un reale senza maschera.

Se si fa riferimento alle due istanze originarie che Nietszche presuppone all’uomo, la volontà di apparenza del senza fondo per cui il profondo ama la maschera appare indissolubilmente intrecciata all’imperativo categorico al godimento del corpo, Wille zur Macht, che è la cultura più pura della pulsione di morte.

Di fronte all’impatto di questa complessità non è possibile che l’OMS, le istituzioni universitarie, la politica mondiale della salute psichica, rispondano con il desiderio di rendere omologabili i soggetti in sofferenza, di produrre clusters sintomatici per rendere più riconoscibile, quantificabile, equiparabile il disagio. Si cerca di allineare la psicoanalisi (questa la versione contemporanea del sorvegliare e punire che si trasforma in sorvegliare e censire) in un registro che la contempli tra gli altri trattamenti psicoterapici appiattiti sullo imperativo della verifica empirica, che lusinghi il desiderio freudiano di essere riconosciuta come scienza solo a patto che essa ceda alla richiesta del ridurre il suo più insindacabile principio motore della cura, il transfert, alla dimensione di una variabile misurabile, contalizzabile, replicabile nel registro dell’oggettività[10].

La psicoanalisi può essere allora codificata e appresa da manuali, ridotta a matematica semplice e dagli esiti prevedibili, insegnata senza difficoltà, in una parola assimilata al registro del numero finito, della successione lineare di eventi, della causalità diretta, della coincidenza assoluta, statisticamente verificabile, del soggetto con i suoi disturbi, secondo il modello che le neuroscienze e, tra esse, la psichiatria a indirizzo biologico, hanno proposto proprio in ragione della espunzione del soggetto nella sua particolarità in favore del quantificabile della struttura, in favore della costellazione di un sistema binario di segni su cui si costruisce la diagnosi, del lavoro clinico e della sua logica in favore del farmaco e della sua potenza. Se è possibile, così come promettono senza mantenerlo i nuovi antipsicotici, il paziente tanto ristorato dal trattamento quanto esautorato da sé stesso, sarà poi restituito, mondato e ripulito, non tanto alla sua famiglia e ai suoi affetti, quanto al suo ruolo di consumatore di farmaci e di utente dei servizi riabilitativi; vale a dire che sarà restituito al registro delle merci.

 

  1. Poste in palio

La posta in palio non è di poco conto ed è assolutamente attuale se si considera la storia della psicoanalisi e il debito strutturale che ogni uomo, in ogni epoca storica, contrae con la civiltà e con il suo disagio. Con una deriva del tutto particolare; se per Freud era lecito e consequenziale sostenere che «l’uomo diviene nevrotico perché non può sopportare il grado di rinuncia, Versagung, richiesto dalla società in nome del suo ideale culturale»[11], oggi ci sembra indispensabile sostenere che l’uomo diviene, si dice tutto, in quel numero che lo classifica come disturbo; il sofferente psichico abita allora un luogo di pura nominazione senza resto in cui sono consentite tutte le perversioni scientifiche della miriade classificatoria e del delirio numerologico della psichiatria del consumo, tanto in esse di soggettivo e di umano non è rimasto proprio nulla. L’aspetto precluso, espunto, misconosciuto è che tutto ciò accade per l’eccesso di godimento che la società gli impone.

Si comprende allora come l’istanza democratica che anima le buone intenzioni terapeutiche sia sottomettere il soggetto al monopolio di un medicina positivista e padrona del reale del funzionamento del corpo e arruolarlo, magari come sperimentatore diretto di una delle nuove pillole della felicità, nel registro dell’ottica aziendale della salute. Si produce un corpo protesico, ibridato alla protesi e sostenuto dal farmaco che dimentica la lentezza, la fatica, il riposo ma si esibisce in presa diretta sulla scena del mondo.

Se la psicoanalisi si intende come ciò che, nella sua pratica, sostiene gli effetti della parola sul soggetto e sul suo corpo, il campo della scienza non le è eccentrico né precluso, il suo lavoro comincia in continuità con il sapere scientifico e la sua prassi come l’eccezione laica alla religione e mistificazione del tutto dicibile, tutto calcolabile, monetizzabile del commercio, del capitalismo fondato sul primato dell’organico oggettivabile senza resti[12].

Il complesso modello che poi si produce, nei suoi domini energetici, topologici, dinamici, ha in sé tuttavia una fonte di perturbamento e entropia: nel cuore più intimo del vivente, oltre le cortine e i veli del fantasma, si annida la pulsione di morte, scandalo dell’originario e dell’origine. Qualcosa che eccede e da scacco alle buone intenzioni terapeutiche, all’eudemonologia dell’incontro felice, alla psicopedagogia nelle sue versioni più educate e moderne delle psicoterapie centrate sull’apprendimento e sul condizionamento, il peggio che si possa fare essendo il misconoscere questo reale e concepire la terapeutica secondo gli ideali propri di ogni epoca.

La non corresponsione, l’asimmetria tra inconscio concepito secondo leggi linguistiche e il registro degli affetti, l’effrazione della pulsione sempre sollecitata quanto più, a livello consapevole ce ne si propone il controllo, l’incalcolabilità strutturale del sintomo se inteso solo nel registro coscienziale e del senso, producono l’inesorabile insufficienza delle prospettive terapeutiche quando collocate nell’ideale del conforme, del normato, dell’addomesticato, del riconoscibile e quindi falsificabile, di fronte alla violenza esplosiva e imprevedibile dell’atto estremo contro sé in quanto mondo.

La faccia nascosta della società democratica dei consumi, così come la denunzia con grande proprietà e acume l’immaginario per eccellenza dei nostri strange days, il cinema, penso qui a registi come Cronenberg, Lynch, Egoyan, ai film tratti dai romanzi di Philip Kindred Dick, si mostra come l’ibridazione dei mezzi di contenzione e di controllo di massa ai ritrovati più sofisticati della tecnica, società di polizia e segregazione ove al vuoto del soggetto, alle sue derive violente si risponde nei termini simmetrici della repressione custodialistica della devianza.

La psicoanalisi, nella sua prassi, nei luoghi ove è possibile risuoni ancora il mandato di Freud, il suo desiderio temperato dall’etica dello scacco, della perdita, del dolore, del silenzio della pulsione, non può non risponderne. Risponde della verità di ogni soggetto, delle inferenze che il sociale, l’Altro ha tracciato nella sua vita, della politica del suo destino, della storicità dei suoi sintomi.

Il sintomo non è un’indicizzazione del soggetto che lo quantifica e lo rappresenta puntualmente secondo le ascisse di una devianza mediana dalla norma, non è uno tra i numeri (primi?) che lo situa rispetto all’universale di una clinica schiacciata sulla valutazione, ma una pratica di parola, che si gioca sulla dissimulazione e la decifrazione tra le intemperie della pulsione e il gioco di maschere del desiderio lavorato dalla ripetizione, dall’incontro mancato, dalla sofferenza che si scrive sul corpo.

Il sintomo psicoanalitico, il sintomo preso dalla parte dell’inconscio che parla si produce nell’interstizio tra desiderio e legge, veicola un sapere non saputo, un tragitto, una storia, un romanzo familiare, una tessitura, e, sempre più spesso pezzi, brandelli, frammenti di illusioni e di sogni di un soggetto che non ha saputo, non ha scelto di costituirsi come tale. Nella dimensione omologante e normativizzante della società contemporanea il sintomo ha a che fare comunque con una domanda primaria di riconoscimento e di senso che sottragga al panico organismico, (l’espressione è di Ping-Nie Pao, per lunghi anni direttore dell’asilo psichiatrico di Chessnut Lodge). Pur riferendosi sul piano metaforico alla dimensione somatopsichica dell’angoscia di frammentazione dell’infans senza cure materne, la psicoanalisi di fronte al folle, prova a descrivere la frammentazione e l’insopportabilità senza nome del dolore psichico, dell’angoscia dissociativa (del paziente schizofrenico), a riportare la nascita di ogni soggetto a un desiderio non anonimo, a una fantasmatica della sua vita che faccia senso.

Di qui l’importanza per il bambino di un contesto familiare che, a prescindere dall’identità di genere e dal sesso biologico, garantisca la ripartizione simbolica delle cure familiari tra dimensione affettiva e dimensione legiferante; così all’interesse particolarizzato della funzione materna occorra corrisponda chi incarna regola e legge.

La scienza allora è una scrittura del reale, possibile quanto falsificabile, contingente, necessaria, e in essa fa gioco il sintomo, segnale da decifrare attraverso la tecnica e le sue opzioni sempre in avanzamento, sostenute, occorre dirlo, dall’efficacia sublimatoria della pulsione epistemofilica, continuamente aperta su un al di là del possibile, che necessita del supporto del senso, della logica, della storia, come contro altare atto a intersecare il progresso con la dimensione etica della legge.

Il sintomo psicoanalitico è invece un sapere del soggetto che fa inciampo al suo corpo e al suo godere e che lo interroga sul piano di un’etica personale sempre in divenire. Il portato etico della psicoanalisi, nella particolarità del suo sapere di uno per uno, si allinea alle scienze umane che sostengono la politica della memoria.

La psicoanalisi è una politica della memoria dove memoria va intesa come storia, non soltanto né fondamentalmente come recupero del passato, ma storia come nesso del rapporto con l’Altro che ci ha preceduto, storia come catena generazionale, storia come racconto. Per questo, in psicoanalisi, parliamo di storicizzazione di una vita. Ma, in secondo luogo, la storicizzazione sa di costruirsi mentre si rimemora. In realtà essa vuol dire storicizzare, costruire al posto di rimembrare, operazione giocata sull’immaginario dell’amore (di transfert) nel costruire il debito, nel costruire la colpa, ciò che serve a dare una certa consistenza e logica al presente, a tracciare nel modo più limpido le vie che lo rendono debitore del passato. Per questo storicizzare non è solo archeologia del passato ma costruzione del futuro perché comporta l’assunzione del nuovo, in opposizione a ciò che il soggetto assume come suo sintomo, perché che cosa è il sintomo se non l’assunzione di quest’anticaglia chiamata rimosso[13].

 

La politica della psicoanalisi rispetto alla memoria riscatta l’implicazione soggettiva e si oppone alla chiusura della breccia che apre il reale del trauma, riscatta la singolarità dell’avvenimento per fare sì che qualche cosa della ripetizione venga modificato e la soggettività venga raggiunta di nuovo.

La psicoanalisi pretende e presume l’apertura del soggetto contemporaneo, mortificato e anestetizzato dal trauma, per portarlo a cercare un senso alle faglie, alle fratture, ai disordini, ai disastri della sua esistenza, fino a quando non riesca a integrare l’accaduto in una storia e farsene responsabile. Là dove non c’è storia non c’è soggetto né senso.

Solo così il sottile presente può consentire la promessa di un dolce domani. I tempi logici del reale del corpo, dell’immaginario della storia, che si costituisce, della trama simbolica che lega e soggettiva gli eventi, non sono derogabili.

Se la psicoanalisi ritiene legittimo reclamare il suo posto nel novero delle scienze come prassi in favore del particolare di ogni umana storia, non può dimenticare di intendere il sintomo come verità del soggetto che si incarica di rappresentarlo nel suo godimento.

L’“evaporazione del padre” come elemento proprio della società attuale, l’avere sostituito la norma alla legge, l’avere fatto del soggetto e delle sue derive sintomatiche una costellazione di cifre riconoscibili universalmente e delle terapie di parola degli strumenti omologabili e replicabili, sancisce, per le neuroscienze, l’avvento di un uomo nuovo, senza qualità, l’uomo quantitativo.

Dell’appiattimento del simbolico sul reale contalizzabile racconta Musil a proposito del suo eroe, Ulrich, che patisce di questo potere. Ulrich, che è un matematico, che crede alla statistica, viene condotto presso un posto di polizia. Come Musil racconta, in maniera inimitabile, «Egli divenne capace di apprezzare, in un solo istante, il disincanto che la statistica faceva subire a se stesso, e il metodo di siglatura e di misurazione che il poliziotto applicava lo entusiasmò come un poema d’amore inventato da Satana», Ulrich ebbe modo di constatare che «l’operatore disseccò la sua persona in elementi insignificanti, derisori» e poi, a partire da questi elementi, la ricompose per renderla «di nuovo distinta e riconoscibile attraverso questi segni»[14].

La propria soggettività, unica, venne sostituita da un agglomerato di misure che lo resero tipico.

Questa decomposizione elementare in tratti riconoscibili, in cui cogliamo chiaramente l’opzione politica di una società poliziesca, quando effettuata su grandi numeri, ha per effetto la scomparsa di ciò che, per tanti secoli, abbiamo chiamato libertà.

 

  1. Psicoanalisi e psichiatria

Nel 1917 sembra giunta l’ora per il creatore della psicoanalisi di fissare la sua posizione nei confronti della psichiatria.

Egli ricorda:

Nell’ambito della medicina, la psichiatria si occupa bensì di descrivere i disturbi psichici osservabili e di raggrupparli in determinati quadri clinici, ma nei loro momenti di sincerità gli psichiatri dubitano che le loro esposizioni puramente descrittive meritino il nome di scienza. I sintomi che compongono questi quadri morbosi sono sconosciuti per quanto riguarda la loro origine, il loro meccanismo e i loro reciproci legami [...] Ecco la lacuna che la psicoanalisi si sforza di colmare. Essa, vuole dare alla psichiatria il fondamento psicologico [die psychologische Grundlage] che le manca[15].

 

La psicoanalisi si presenta dunque, nella mente di Freud, come nient’altro che la fondazione scientifica della psichiatria.

Più precisamente: la psichiatria colma in certo qual modo questa lacuna esplicativa attribuendo un ruolo determinante al fattore «ereditario» o «costituzionale», ma la psicoanalisi non rinnega l’aspetto «costituzionale».

La psicoanalisi raggiunge «le cause più specifiche e prossime»[16] e non la causalità «generalissima e lontana», dunque astratta (psichiatrica), del sintomo.

La psicoanalisi non è però, allo stato del problema tracciato da Freud, un’«antipsichiatria»: «[...] nella natura del lavoro psichiatrico non c’è nulla che dovrebbe opporsi all’indagine psicoanalitica. Dunque sono gli psichiatri che si oppongono alla psicoanalisi, non la psichiatria». Conclusione umoristica, ma che va presa alla lettera: la psicoanalisi sarebbe dunque una psichiatria “complementata”.

Il momento di verità dell’atteggiamento di Freud nei confronti della medicina e della psichiatria ci sembra si collochi in questo passo del settimo capitolo dello scritto Il problema della analisi condotta da non medici in cui esorcizza in un certo senso una medicalizzazione mortale per la specificità della psicoanalisi: «Noi non desideriamo affatto che la psicoanalisi venga inghiottita dalla medicina e finisca col trovar posto nei trattati di psichiatria, al capitolo terapia, fra quegli altri procedimenti, come la suggestione ipnotica, l’autosuggestione e la persuasione. Essa merita un destino migliore, e io spero che lo avrà»[17].

In questo senso considera fatale per il suo avvenire la tendenza della psicoanalisi, per il suo sviluppo interno, a trasformarsi in «una branca specialistica della medicina» fatale. È necessario che «la terapia non soverchi la scienza» e assume così pienamente significato una certa insistenza mostrata da Freud, fino all’apparente disprezzo per le cure.

Privilegiare, l’imperativo di sapere in un certo senso incondizionato è quindi la forma migliore di «rispetto» per ogni soggetto che si presenta sotto la forma di sintomo: lì dove la medicina vede una lesione, una disfunzione, un disturbo la psicoanalisi percepisce il sintomo come il rapporto diviso che ogni soggetto ha con la sua verità.

 

  1. Conclusioni

La problematica propriamente freudiana della scientificità della psicoa­nalisi può essere condensata intorno ad alcune tesi principali che è importan­te enunciare prima di specificarle.

La psicoanalisi non ha significato se non nell’orizzonte de «la scienza», cosicché la rivendicazione di scientificità è conditio sine qua non della definizione di psicoanalisi come scienza dell’inconscio.

La psicoanalisi si schiera nella famiglia delle «scienze della natura», cosicché la «scientificità» che rivendica è esattamente quella delle «scienze» cosiddette «della natura».

La psicoanalisi, per altro, aderendo all’ideale di scientificità Wissenscaftlichkeit, rifiuta la sua affiliazione alle «visioni del mondo» Weltanschauuengen che lascia alla filosofia.

La psicoanalisi si avvera solo nella relazione transferale, è una clinica del soggetto preso nell’amore di transfert e mostra i suoi effetti di verità nel mordere il reale delle passioni che animano il soggetto e nel renderlo consapevole e responsabile dei suoi imbrogli, dei suoi fantasmi, del suo patire-godere.

Di conseguenza, la psicoanalisi sarebbe pensiero del reale, della pulsione, della passione del corpo come altro del soggetto, che mette in di­scussione la condizione filosofica del pensiero: è questa l’implicazione insie­me presente e «atemporale» della psicoanalisi nei «destini» del lògos.

Se il soggetto della psicoanalisi è il soggetto dell’inconscio si tratta di un soggetto in perdita. Di un soggetto non restaurabile, riparabile, omologabile come promette l’orizzonte disumano di un certo modo della scienza.  

Questo è in fin dei conti l’effetto filosofico fondamentale della psicoa­nalisi, quello che Freud illustra attraverso la famosa parabola delle «tre ferite all’amor proprio» della storia del pensiero: dire che «l’Io non è, più padrone in casa propria» significa attestare la divisione del soggetto da parte dell’oggetto inconscio. Ciò che la psicoanalisi, a partire da questo sapere, permette di «fa­re» e «sperare», è far avvenire il soggetto nel luogo stesso della sua verità insa­puta, cioè divisa, da lui stesso.


 

[1] S. Freud, Bisogna insegnare la psicoanalisi all’Università?, tr. it. in Opere, Vol. IX, Boringhieri, Torino 1989, pp. 33-35.

[2] A. Savinio, La nostra anima, Adelphi, Milano 1981, pp. 62-64.

[3] S. Freud, Psicoanalisi, in Opere, cit., vol. X, p. 300.

[4] M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, tr. it. Einaudi, Torino 1993, p. 56. Cfr. inoltre Id., La volontà di sapere, tr. it. Feltrinelli, Milano 1976; Storia della follia nell’età classica, tr. it. Rizzoli, Milano, 1963; Nascita della clinica, tr. it. Einaudi, Torino 1969; Microfisica del potere, tr. it. Einaudi, Torino 1977.

[5] Id., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, cit. p. 71.

[6] F. Basaglia, Conferenze brasiliane, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000.

[7] Cfr. Id., Scritti I, 1953-1968. Dalla psichiatria fenomenologica all’esperienza di Gorizia, Einaudi, Torino 1981; e Scritti II, 1968-1980. Dall’apertura del manicomio alla nuova legge sull’assistenza psichiatrica, Einaudi, Torino 1982.

[8] Cfr. almeno J. Lacan, Scritti, 2 voll., tr. it. Einaudi, Torino 1974; e Autres écrits, Editions du Seuil, Paris, 2001.

[9] P.J. Mahony, Freud’s Dora. A psychoanalytic, historical, and textual study, Yale University Press, 1996.

[10] L. Luborsky, Principi di psicoterapia psicoanalitica, tr. it. Boringhieri, Torino, 1989.

[11] S. Freud, Il disagio della civiltà, in Opere, cit., Vol. X, p. 465.

[12] Freud non sottovaluta l’importanza dell’innato, del genetico, del biologico, la pulsione è per lui un concetto ponte che esprime l’aspetto quantitativo di una forza costante che circola nel corpo in un equilibrio dinamico tra aspetti economici e rappresentazionali, impasto continuo tra la morte e la vita; è sempre necessario fare i conti con «l’irresistibile potere del fattore quantitativo nel processo di origine della malattia», cfr. Id., Analisi terminabile e interminabile, ibid., Vol. XI, p. 508.

[13] Josè A. Naranjo Mariscal, Politica della contingenza, in «La psicoanalisi», 41, 2007, pp. 77-84.

[14] R. Musil, L’uomo senza qualità, tr. it., Einaudi, Torino 1982.

[15] S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, in Opere, cit., vol. VIII, p. 204.

[16] Cfr. La sedicesima lezione dell’Introduzione alla psicoanalisi, intitolata Psicoanalisi e psichiatria, ibid., Vol. XI, 1978, p. 204.

[17] Id., Il problema dell’analisi condotta da non medici. Conversazione con un interlocutore imparziale, ibid., Vol. X, p. 356.

 

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