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Scripta manent?

Autore


Vallori Rasini

Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

Indice


  1. Parole
  2. Scritture
  3. Macchine
  4. Digitalizzazioni

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S&F_n. 12_2014

Abstract


Word belongs to human being; it is a monopoly of his nature. Verbal word contains deep meanings, has symbolic value and makes possible the domain of the world. It is also fluid, transient and frequently allusive. Writing stops the word, makes it durable and sometimes changes it in a rule. Printing press supported writing and his diffusion increases human progress. Digital writing is the contemporary evolution of written communication by computer and cell phone. It is not so permanent as traditional written. Can it preserves historical memory and humanities of man?

      


  1. Parole

Se il linguaggio verbale è da considerarsi patrimonio specifico dell’essere umano, e tale da caratterizzare la sua essenza e le sue speciali prestazioni, la scrittura – che al linguaggio dà corpo e ne conferma la singolarità – sembra offrire il più idoneo sostegno all’ascesa di una specie mai sazia, che ha fatto del “miglioramento” e della “crescita” il proprio fine ultimo.

La linea che si può tracciare nello sviluppo culturale dell’uomo non sembra seguire la casualità ed essere affidata all’imprevedibilità; nell’ambito della “selezione culturale” un preciso passaggio dal peggio al meglio organizzato si rende significativo: la “sopravvivenza culturale” segue una inclinazione direzionale che da una condizione di “generica instabilità” conduce verso una sempre maggiore stabilità. Il “progresso” – di cui la dimensione culturale sembra proprio non poter fare a meno – segna il percorso dell’uomo attraverso la storia; e la scrittura – nel bene o nel male – pare avere avuto nei secoli lo scopo di sancire metodologicamente e pragmaticamente questa tendenza.

La parola è senza dubbio la modalità espressiva più emblematica dell’essere umano, il suo “vagito di specie”, figlia di un vero e proprio “soffio divino”. In una delle molte versioni del “mito filosofico della creazione dell’uomo”, il fiato – alito vivificatore del fango – rappresenta il dono con cui Atena anima la scultura inerme di semplice limo creata dal titano Prometeo; ed è precisamente il fiato che, attraverso la vibrazione fisica delle corde vocali, modula il genere di linguaggio considerato monopolio specifico dell’essere umano: la parola.

La parola trascina l’uomo lontano dalla faticosa concretezza pratica; lo svincola poco a poco dall’immediatezza dei bisogni, proiettandolo oltre la dimensione organica. Grazie a essa – “evento sonoro” agonistico ed enfatico[1], veicolo di profondità e astrazione – l’essere umano ha il mezzo per allontanarsi dagli aspetti più brutalmente “animaleschi” della vita e trasformare ogni necessità organica in esigenza culturalmente mediata (accade così che l’uomo non semplicemente si sfami, ma banchetti; non marchi un territorio, ma acquisti e domini proprietà; non soddisfi pulsioni sessuali, ma piuttosto ami; e così via). La sofisticata espressione verbale può sublimare la crudezza della sopravvivenza, mettendo tra le mani dell’uomo un potente mezzo per la conquista del mondo: una comunicazione altamente e raffinatamente simbolica.

Il mondo gli diviene così “a portata di mano”, racchiuso nel semplice suono di fonemi pronunciati senza sforzo e dotati di istantanea, enorme efficacia. Il linguaggio verbale permette di abbracciare aspetti del reale incredibilmente ampi e variegati; nelle sue molteplici declinazioni – mediante abbreviazioni, intersezioni, allusioni – consente visioni ricche e panoramiche, mentre concentra l’attenzione su elementi situazionali pregnanti e significativi[2]. Insomma, il linguaggio verbale sembra decretare in questo modo l’assoluta e inevitabile lontananza dell’essere umano dal resto dei viventi; egli appare tanto più speciale (extra-animale), quanto più proficuo si mostra il servigio offertogli dalla disponibilità della parola.

Ma in questa sede non ci occuperemo della funzione altamente esonerante e vantaggiosa della parola, che consente di capire non solo le ragioni della coltivazione e dello sviluppo di un raffinato strumento come il linguaggio parlato, ma anche la peculiare direzione evolutiva seguita dalla specie umana. Qui importa notare quanto libera e variabile rimanga tuttavia la parola verbale, nel mentre in cui racchiude, richiama, configura porzioni di mondo. Come elemento dell’orazione, essa esprime nella maniera più libera e fluida, alludendo a una molteplicità di direzioni possibili del discorso (o del dialogo), dipendenti solo dall’insistenza sull’una o sull’altra suggestione, espressamente o implicitamente evocata.

Si può considerare la voce come la “cassa di risonanza” più originaria dell’espressione umana; grazie a essa la parola mantiene tutta la plastica comunicatività che consente all’uomo di rapportarsi all’altro con la giusta distanza. Ѐ il mezzo ideale per l’esternazione di significati, e come veicolo della comunicazione musicale e linguistica, è «graduabile secondo la potenza, il livello e la forza dello stato emotivo e dei suoi mutamenti», ampiamente regolabile e «articolabile come suono melodico o parlato»[3]. La voce è, di fatto, autotrasparente (grazie alla struttura morfologica dell’essere umano): ascoltando la propria voce, l’uomo percepisce se stesso, sperimenta direttamente l’efficacia dell’espressione cui sa dare vita col parlato e la modula o la corregge, sofisticandola sempre di più. La comunicazione, il dialogo – e dunque lo scambio fluido e diretto – che essa genera, si arricchisce di sfumature e ambiguità.

 

  1. Scritture

Con la scrittura, invece, la parola in qualche modo si blocca, si irrigidisce; talora si devitalizza e si trasforma in puro dettame[4]. Il Verbo divino diviene dogma attraverso i testi sacri, e sancisce nel migliore dei modi il proprio carattere inopinabilmente “eterno”. La sua autorità è inseparabile dalla modalità di fissazione nello scritto (e forse persino pesantezza del supporto materiale ha la sia importanza): secondo il Vecchio Testamento, Dio consegnò a Mosè i dieci comandamenti incisi col dito su due grosse tavole in pietra (e dopo che Mosè le ebbe spezzate, gli intimò di preparare due nuove tavole del medesimo materiale per una riproduzione degli stessi)[5].

Con la scrittura, anche il discorso umano assume i tratti del decreto. Ciò che è detto è detto; ma ciò che è scritto è scolpito dinanzi al mondo, indelebile, come immutabile. Una legge diviene realmente tale solo con la codifica. La scrittura determina infatti un passaggio decisivo: dall’appello all’usanza, a un fare comune e condiviso per reiterata fedeltà al passato (un passato genericamente riconosciuto come “valido”), all’indiscutibilità dell’imposto o all’attestazione di uno stato di cose, “messo nero su bianco”. La parola verbale sfuma, si trasforma; lo scritto la arresta, al fine di renderla quanto più possibile coerente e permanente. Conservando e trasmettendo, la scrittura compone così percorsi culturali e forgia precise identità sociopolitiche[6].

Certo, la scrittura mantiene margini di interpretabilità, talora anche assai ampi; ma essi sono tanto più larghi quanto maggiormente la sua forma rimane vicina alla plasticità della parola verbale, configurandosi sufficientemente aperta, spontanea, sciolta, come accade nella poesia o in certa narrativa. Verba volant. La parola semplicemente pronunciata, anche quando le si affidi il compito rituale di trattenere e conservare, resta transitoria (forse aleatoria), pura azione; non invece la scrittura. Una volta fissata, la parola non è più semplice saggezza, diviene “sapere”, ordine e regolarità. Avanza allora pretese di verità solida e stabile.

Ѐ pensabile un parallelo con gli enti di natura: la parola appare viva, palpitante e diveniente; essa crea relazioni e si alimenta mediante lo scambio, come un organismo biologico. La scrittura invece “è”, piuttosto che divenire; “sta”, piuttosto che correlarsi. Scripta manent.

Nel rendersi permanente, la parola si “cosalizza” si “oggettivizza” e perde vitalità[7].

Si rende tuttavia estremamente funzionale alla codifica di un sapere scientifico sempre più “obiettivo”, simbolico e matematizzato, come ha voluto una vincente tradizione positivistica.

 

  1. Macchine

Realizzandosi sin dalle origini come incisione sopra un supporto materiale – la terra, il papiro, la cera o la pietra –, la scrittura si fa “scultura immobile” della parola. Un artefatto, insomma, e una tecnica. E forse è questa la tecnica con cui l’uomo maggiormente sente di avvicinarsi agli dei, mettendo in forma stabile il logos universale, il sapere del mondo e sul mondo. D’altronde, è proprio attraverso la tecnica che l’uomo in generale concepisce la propria superiorità. Se infatti il soffio animatore di Atena può dare origine alla pronuncia della parola, mitologia vuole che sia il fuoco di Prometeo – simbolo della tecnica per antonomasia – a segnare la vera svolta nel destino umano[8].

Va da sé che sia stato con l’invenzione della stampa che la scrittura ha ottenuto la piena configurazione di “tecnica del sapere”. Ѐ noto come, ben prima della soluzione a caratteri mobili, la stampa avesse mosso i primi passi nell’antica Cina (sotto la Dinastia Tang) grazie all’uso di tavole di legno intagliate che venivano impresse su carta. Non è un caso che il primo libro di cui rimane testimonianza sia un Sutra del Diamante buddhista; come non sorprende che il primo libro stampato da Gutenberg sia una copia della Bibbia: la religione ha sempre avuto bisogno di diffusione e di autorità, e la scrittura in forma stampata consente rapide riproduzioni e accreditata divulgazione tra la gente (come oggi ne ha qualunque prodotto della macchina).

Nel giungere alla fase più elevata della riproducibilità macchinale, anche la stampa ha seguito una storia simile, a tutti gli effetti, a quella di molti altri strumenti tecnologici: le sue origini sono affidate alla pura manualità umana e all’impiego di materiali di origine per lo più organica; i suoi esiti alla industrializzazione massiccia e alla “deorganicizzazione” della produzione[9]. Sia i blocchi sui quali venivano anticamente incisi segni e immagini sia i supporti per la stampa erano generalmente di origine vegetale o animale (lastre di corteccia, pergamene, la stessa carta); l’inchiostro, a sua volta, ottenuto da varie miscele della stessa natura; le penne ricavate da canne o da piume. Il processo di sostituzione progressiva dei materiali e delle energie di origine organica con materiali ed energie di tipo inorganico ha riguardato tutto lo sviluppo tecnologico, e parimenti la scrittura: l’intaglio e la composizione manuale del messaggio hanno lasciato il posto al lavoro delle macchine, e nuovi materiali garantiscono prodotti sempre migliori grazie all’introduzione del sintetico. Il fatto è che l’organico offre poche garanzie, quanto a prevedibilità, resistenza e disponibilità: si trasforma rapidamente e magari deperisce, non è facilmente rimpiazzabile e spesso si rivela imprevedibile, difficile da controllare, scomodo. L’inorganico, specie se prodotto direttamente dall’uomo, è invece più facilmente conoscibile e affidabile nelle applicazioni, più semplicemente reperibile, ricreabile e sostituibile.

L’affidabilità della tecnica di stampa consente alla “macchina culturale” di innescare una dialettica virtuosa tra scoperta e divulgazione del tutto parallela a quella prodottasi per la stampa tra sviluppo tecnologico e teoria scientifica. E del resto gli aspetti di oggettività della stampa moderna (precisione grafica, disponibilità di esemplari, agile adattabilità del prodotto ecc.) bene si accordano con le esigenze e i parametri previsti dalle scienze naturali.

Ma la stampa non serve solamente gli ambiti dotti del sapere scientifico. Col tempo, nel corso del XX secolo, essa diviene un bene comune; si trasforma in mass media al servizio “di tutti”; moltiplica la propria produzione adattandosi a nuovi valori e nuove dimensioni, mentre sostituisce sempre di più il dialogo interpersonale, lo scambio di parole. Non solo. Divenendo sempre più divulgativa, la stampa assume caratteristiche utili alla più vasta fruibilità: semplicità comunicativa (ovvero superficialità) – nella forma e nei contenuti – e incisività (talora anche tendenziosa). Tra le conseguenze della sempre più prestante funzionalità di una stampa in modalità “espresso” (divenuta quasi invadente), sono da segnalare alcuni effetti tutt’altro che positivi. Ad esempio, la disponibilità di informazioni e notizie ci autorizza ad attendere “a domicilio” la manifestazione del mondo[10] e favorisce senza dubbio la fruizione di esperienze sempre meno dirette, sempre più “riportate” da altri e sempre meno verificabili[11]. Non ci si può sorprendere dunque di un aumento esponenziale del rischio legato a una facile e incontrollata manipolabilità delle informazioni da parte di pochi “operatori” del settore, né di un appiattimento “verso il basso” del livello culturale contemporaneo, del sapere circa i fatti e della capacità di argomentare un giudizio.

 

  1. Digitalizzazioni

Mentre la forma scritta sostituisce sempre di più la parola (e le sue funzioni e potenzialità), la scrittura stessa subisce trasformazioni sostanziali, soprattutto nelle applicazioni, contribuendo in maniera sostanziale alle trasformazioni socioculturali[12]. La direzione principale che oggi segue, nelle sue forme più praticate e comuni, è comunque quella dell’impoverimento progressivo. Il contenuto degli scritti condivide il destino della loro tipologia, e dovendosi essi adattare ai mezzi odierni della comunicazione informatica il testo è generalmente asservito a principi di velocità e funzionalità pratica. Compilare brevemente, in modo mirato, semplice ed efficace, diviene indispensabile. Nonostante la dilatazione degli spazi comunicativi e l’enorme disponibilità di contatti, non è detto che si possa parlare di “arricchimento culturale”: la rapidità richiesta nella trasmissione di dati trascura inevitabilmente la profondità e anche la forma; in questo modo il contenuto perde essenziali occasioni di espressione. A ciò si aggiunge la spersonalizzazione del messaggio: lo scritto veicola qualcosa che ha sempre più carattere anonimo, generico, appunto “impersonale”; è sempre più aderente all’aspetto puramente “convenzionale” e oggettivo dei lemmi e dei segni.

La scrittura digitale ne è il campione perfetto. Nata intorno alla metà degli anni Settanta e diffusasi tanto rapidamente quanto gli strumenti che ne sono il supporto – computer, tablet, cellulari ecc. – la scrittura digitale lega indissolubilmente il suo stesso nome alle tecnologie. Con il termine “scrittura digitale” si intende una composizione a codice binario, descrivibile attraverso funzioni matematiche, e insieme una organizzazione discreta di dati autonomi[13]. Come ogni tecnica, essa richiede, certo, competenze specifiche, ma sempre più semplici da apprendere e da applicare; al contempo, la manipolabilità del testo di superficie diviene fluida, le parti del testo sono elaborabili in maniera non sequenziale, la composizione è estremamente agile e l’utente può disporre di una quantità di strumenti automatici di correzione e verifica.

Dopo l’oltrepassamento dell’organico da parte dell’inorganico, si verifica attualmente un complesso passaggio ulteriore, e il superamento della stampa tradizionale assume per buona parte il significato di un superamento anche dell’inorganico. Resasi immateriale, la scrittura digitale non ha la necessità di supporti materiali (fatta eccezione per lo strumento che la visualizza): stampiamo sempre meno, inviamo messaggi nell’etere e per lo più leggiamo a video (e non è un caso che l’editoria cartacea oggi sia da considerare una sorta di “specie culturale a rischio”). Insieme poi a una straordinaria abbreviazione dei tempi di trasmissione di un messaggio e a una dilatazione altrettanto straordinaria degli spazi entro i quali questa trasmissione si rende possibile, va considerata la “distanza formale” sussistente tra il gesto di scrittura e il risultato ottenuto: l’operazione compiuta su tastiera avvia una serie di impulsi elettrici e di commutazioni logiche, non produce direttamente scrittura (come ancora accadeva con la rudimentale macchina da scrivere). Ma la stessa operazione che si conclude con la comparsa a video di un testo ha subito nel tempo una trasformazione, e oggi dalla classica tastiera da computer si può passare alle tastiere virtuali (touch screen) o alla compilazione vocale. Tutto ciò astrattizza progressivamente i processi di comunicazione e i rapporti tra individui.

E la memoria? Se la scrittura con la sua “pesantezza materiale” ha consentito di tracciare la storia dell’umanità, consegnandola al controllo della memoria – sempre pronta ad accogliere il ricorso a un principio di responsabilità[14] – le forme attuali della scrittura sfumano nell’etere, si ipertestualizzano, perdendo (nel mentre in cui ne creano) percorsi precisi, riconoscibili e ripercorribili in modo univoco. Resta solo una specie di “memoria plenaria”, una vastità potenzialmente infinita, di tutto e di nulla. E c’è da chiedersi se questo generale perdersi, del concreto, del personale, di certa memoria, non abbia a che fare con un perdersi dell’umano.

 


[1] W. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola (1982), tr. it. il Mulino, Bologna 1986, p. 7.

[2] Si veda, tra gli altri, A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940; 1950 ed. riv.), tr. it. Mimesis, Milano 2010, p. 223.

[3] Questo sostiene H. Plessner in Il riso e il pianto (1941), tr. it. Bompiani, Milano 2007, p. 81.

[4] Sull’interpretazione filosofica della scrittura si può consultare, tra gli altri, J. Derrida, Della grammatologia (1967), tr. it. Jaca Book, Milano 1998.

[5] Esodo, 31: 18; e 34: 1.

[6] J. Assamann, La memoria culturale, Einaudi, Torino 1992.

[7] Si veda ad es. V. von Weizsäcker, Anonimi (1946), in Filosofia della medicina, tr. it. Guerini e Associati, Milano 1990, pp. 175-216.

[8] Esiodo, Le opere e i giorni, Garzanti, Milano 1985; Eschilo, Prometeo incatenato, Einaudi, Torino 1995; Platone, Protagora, Laterza, Roma-Bari 1982.

[9] Si veda, ad esempio, A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica (1957), tr. it. Armando, Roma 2003, p. 32.

[10] G. Anders, L’uomo è antiquato (1956 e 1980), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2003, vol. I, p. 123 sgg.

[11] A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 72 sgg.

[12] Si vedano D. Scavetta, Le metamorfosi della scrittura, La Nuova Italia, Scandicci 1992; G.O. Longo, Il nuovo Golem, Laterza, Roma-Bari 1998.

[13] Si veda E. Pistolesi, Scrittura digitale, in G. Antonelli, M. Motolese, L. Tomasin (a cura di), Storia dell’italiano scritto, Carocci, Roma 2014, pp. 349-375.

[14] Come sottolinea F. Nietzsche, Genealogia della morale, Milano, Adelphi, 2002, pp. 46.

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