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La simmetria come procedura essenziale ma “dimentica” dell’Architettura

Autore


Renato Capozzi

Università degli Studi di Napoli Federico II

Docente di Composizione Architettonica e Urbana presso il Dipartimento di Architettura (DiARC) – Dottorato di ricerca in Architettura – Scuola Politecnica e delle Scienze di Base – Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Architettura e natura: mimesi speciale
  2. La dimensione teorica dell’architettura
  3. Simmetria come procedura compositiva
  4. Il ruolo della simmetria nello sviluppo dell’architettura

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S&F_n. 12_2014

Abstract


The essay confirms the inorganic nature of architecture and, in this way, clarifies the particular mimesis that architecture lays not so much with nature and its forms but with itself. There are multiple links with the philosophy that recognizes his role “regent and foundational”. Describing the theoretical dimension of architecture, the contribution reflects on the particular role that theory assumes in the art of building as a way of knowledge and observation and verification in buildings. The role of symmetry – understood as the proportion in the historical development of the art of building since the ancient treatise writers, during the Renaissance until the modern reformulation, to get to the forgetfulness of the role that this compositional procedure assumes in the contemporary world – is discussed. The current condition is unfortunately directed more to the reductio ad imaginem; it should be again addresses to the construction of adequate space and the selection of appropriate forms to represent, through the expressiveness of the construction, reason and essence of architecture.


Item symmetria est ex ipsius operis membris conveniens consensus ex partibusque separatis ad universae figurae speciem ratae partis responsus.

Uti in hominis corpore e cubito, pede, palmo, digito, ceterisque particulis symmetria est eurythmiae qualitas, sic est in operum perfectionibus.

Marcus Vitruvius Pollio, De Architectura, Liber I, cap. 2

 

 

  1.  Architettura e natura: mimesi speciale

L’architettura è l’inorganico per antonomasia, l’artificio congetturato per consentire l’abitare e, in ultima analisi, la vita e la dimora dell’uomo sulla terra. Ma la sua inorganicità trae linfa e riferimento in prima istanza proprio dalla osservazione, dalla “teoresi” della natura, delle sue leggi, delle sue armonie e regolarità, una mimesi che lungi da assumere la Φύσις come modello da replicare, come avviene all’Aurora delle arti plastiche e figurative, ne vuole riprodurre nel finito la bellezza e la stabilità dei rapporti. Non mimesi in senso stretto quindi, quanto piuttosto analogia dell’ordinamento rinvenibile nella “stanza smisurata” che ci accoglie: un voler riprodurre nel finito e nel misurabile le regolarità e le somiglianze dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo. Una “seconda natura”, come afferma Goethe[1], costruita per fini civili, una sua “rappresentazione” e non una copia, quindi, destinata alla vita dell’uomo di cui sovente – si pensi all’ansia antropometrica rinascimentale – ha riprodotto le regolarità, le rationes, le misure. In tal senso sono molto significative le recenti acquisizioni della Morfologia di René Thom[2] secondo il quale il mondo non sarebbe caotico ma appunto innervato da una serie di strutture razionali ancorché complesse. Michelangelo affermava che «è cosa certa, che le membra dell’architettura, dipendono dalle membra dell’uomo»[3] una dipendenza tra architettura e natura, tra edificio e corpo umano che, si ribadisce, non può mai diventare metabolica o organica: l’uomo viene indagato nelle sue proporzioni e nelle sue articolazioni non per divenire fonte di ispirazione formale ma innanzitutto di controllo e adeguazione. Come le membra nell’uomo[4], il sistema osteonico e l’esatta collocazione degli organi, dei muscoli obbediscono a soggiacenti e razionali necessità di equilibrio e di efficienza funzionali, allo stesso modo in architettura le parti devono stabilire tra loro legami sintattici, dimensionali e correlativi che ambiscano alla necessità, all’adeguatezza. È proprio in questo senso che l’architettura è il “regno dell’ordine” in cui le forme trovano la loro posizione e misura non per imposizione ma per assecondare la loro intima natura alla ricerca di un equilibrio intellegibile (o della sua trasgressione consapevole) capace, come ricorda Benjamin, di una “ricezione generalizzata”. Forse è per questo che, dal Timeo di Platone[5] a Kant – che nomina una parte della sua Kritik der reinen Vernunft “l’Architettonica”[6] – sino a Derrida[7] che la definisce come «l’ultima fortezza della metafisica», la filosofia ha sempre riconosciuto all’architettura un ruolo «reggente e fondante»[8]. Nel suo spessore storico, che com’è noto coincide con la comparsa dell’uomo e la sua innata ricerca di stanzialità, di definizione e appropriazione di luoghi per l’abitare, l’architettura ha tratto dalla natura numerose leggi che ne hanno consentito lo sviluppo autonomo. Si pensi alla distinzione operata da Norberg-Schulz[9] tra orizzontale e verticale e la conseguente astrazione del principio dell’ortogonalità rinvenibile nell’osservazione del movimento apparente del sole, all’idea di ricovero/riparo desumibile dalle grotte o dalle chiome degli alberi, al passaggio tra la profondità del bosco (da cui l’idea di pieno) e la radura/apertura (da cui l’idea di vuoto definito) in rapporto alla possibilità della luce, la famosa Lichtung heideggeriana[10] che consente nello spazio infinito l’accadere dell’arte.

 

  1. La dimensione teorica dell’architettura

Una interessante analogia con l’osservazione e spiegazione dei fenomeni proprio della fisica e delle scienze in generale è rinvenibile assumendo l’Architettura come una delle forme del pensiero e della conoscenza. L’architettura è θεωρία[11] nella misura in cui, una volta emancipatasi della replicazione non mediata dei corpi naturali – si pensi alla sua mitica origine nella capanna di Laugier fatta di tronchi appena abbozzati e giustapposti – “guarda”, “vede”, ai/nei suoi specifici fenomeni, che sono le architetture stesse, per ricavarne le leggi progressive e al tempo stesso la verifica della sua prassi costruttiva/fabbrile[12]. Carlos Martì Arìs[13] ha parlato in tal senso di un ruolo ausiliario ma ineliminabile della teoria utilizzando la metafora della centina e dell’arco. La centina rappresenta la teoria, il principium, che rende possibile l’erezione dell’arco, l’ergon/exemplum, che una volta eretto la fa scomparire pur rimanendone il presupposto. Il passaggio quindi dalla capanna al tempio o dalla caverna al riparo[14] presuppone una astrazione razionale che definisce i suoi propri elementi (dal tronco alla colonna, dal trave all’architrave, dal fogliame al tetto) ma anche le sue leggi interne che ambiscano a definire per questi elementi e parti un ordine riconoscibile in grado, come nelle parole di György Lukács, di creare «un ambiente spaziale reale e adeguato che evoca visivamente l’adeguatezza»[15] dove «l’arte deve rendere visibile l’essenza»[16] e in ultima analisi la verità assunta secondo San Tommaso come adaequatio rei et intellectus. L’uomo progetta il suo mondo[17], il suo Raum vitale a partire da alcune tecniche, da alcune procedure sintattiche che rendano possibile l’accadere di questo artificio e siano in grado di renderlo espressivo della sua finalità. Finalità in senso ampio e non “funzione” o “uso” poiché essa deve contenere in termini universali il senso profondo ed evocativo dell’abitare. Le Corbusier parlava dell’architettura come «dell’arte di commuovere» e al tempo stesso come di «gioco sapiente, rigoroso e magnifico di volumi sotto la luce» e Mies van der Rohe, da par suo, la definiva «chiarezza costruttiva portata alla sua espressione esatta». È proprio questa riteniamo la particolare bellezza dell’architettura: di essere in grado di utilizzare le tecniche della costruzione per definire forme e spazi conformati in grado di esprimere un carattere più generale che trascende la mera funzione d’uso e ambisce a essere rappresentazione “esatta” nel senso che Calvino[18] ha dato a questo termine, dei valori e dei significati che contiene. La ricerca quindi di una speciale affordance non solo in quanto indizio che induce a manipolare un certo oggetto come nella definizione di Gibson[19] ma nel senso più ampio e incorporato di “invito” a riconoscerlo come dimora, come chiesa, come teatro, come σχημα/σχηνέ immota della vita. Accettando il parallelismo con la linguistica e la semiologia, le forme architettoniche – i morfemi – si devono rendere espressive[20], devono diventare sintagmi in grado di trasportare e comunicare un significato – il tema – che è esterno a esse. In un certo senso l’inorganico organismo architettonico deve realizzare una impossibilità: “far parlare”, o come diceva Valéry[21] «fra cantare le colonne» o per Perret «far cantare il punto d’appoggio», per consentire alla materia soggiogata/signata dalla forma di rendersi eloquente del significato che incorpora. Come è possibile rendere la colonna la manifestazione eloquente «dell’atto del sorreggere»? Come riuscire nella ripetizione di colonne, di finestre, nella erezione del tetto, nella articolazione delle parti di cui si compone l’edificio a realizzare questa apparente antinomia, in una, a produrre la particolare bellezza dell’architettura che è la manifestazione intellegibile – lo splendor veritatis di Sant’Agostino – di un ordine espressivo? Sono proprio i rapporti, le misure, le tensioni – in accordo con le leggi della costruzione – che gli elementi devono stabilire tra loro nel formare il tutto compiuto dell’opera a farsi carico del passaggio dalle forme naturali a quelle meramente tecniche e, infine, a quelle architettoniche.

 

  1. Simmetria come procedura compositiva

Le procedure che l’architettura, o meglio la scienza della composizione[22] architettonica, mette in campo per determinare questi rapporti, queste corrispondenze interne responsabili della particolare bellezza di cui si fa portatrice sono innanzitutto la proporzione e la misura[23] nella varia e ramificata rete di relazioni e assonanze che le unisce. La proporzione sembrerebbe l’obiettivo che senza la misura diverrebbe inattingibile: è certamente così ma è anche più di così. Se per Alberti[24] la bellezza diviene «un concetto in cui tutte le parti sono accomodate insieme con proporzione e discorso, in quella cosa in che le si ritruovano; di maniera che è non vi si possa aggiungere o diminuire, o mutare alcune cose» per Palladio[25] essa «risulterà dalla bella forma, dalla corrispondenza del tutto alle parti, delle parti fra loro, e di quelle al tutto: così che gli edifici habbiano da parere uno intiero: nel quale l’un membro e l’altro convenga et tutte le membra siano necessarie a quello che si vuol fare». Sarà proprio la simmetria[26] e la correlata proporzione[27] a rendere possibile questo nihil addi ovvero la corrispondenza biunivoca tra le parti e il tutto. La simmetria[28] dal conio greco συμμετρία (con misura) con i suoi sinonimi metriòtes e analogia – che corrisponde con una forzatura linguistica e semantica avvertita da Plinio[29] al latino proportio (e da lì: commensus, commodulatio, convenientia, constantia, commoditas, commodus, responsus, consensus) – contiene sin dalla sua struttura etimologica il significato del rapporto tra la misura e il legame correlativo che si deve stabilire tra i corpi dotati di estensione finita. Per Policleto, nel suo canone, la simmetria, nell’ideale καλοκαγαθία, diventava il sinonimo di “ben equilibrato”, “ben proporzionato”, di bello oggettivo. Allo stesso modo per Platone e i pitagorici il concetto di simmetria rimandava – come in Alberti e Palladio – alla commensurabilità fra il tutto e le parti, attraverso una misura comune assunta a riferimento. Platone nel Timeo, infatti, descrive la proporzione (leggi simmetria) nel seguente modo: «è impossibile combinare (συν-) bene due cose senza una terza: è necessario fra loro un legame che le unisca. E non c’è legame migliore di quello che fa di lui stesso e delle cose che unisce un tutto unico. Questa è la natura della proporzione». Sarà Vitruvio nel suo trattato De Architectura[30] a usare per la prima volta in ambito squisitamente architettonico, richiamandosi alla auctoritas dei testi perduti dei maestri greci, il termine proporzione (Symmetria) come uno – assieme a ordinamento (Ordinatio), disposizione (Dispositio), euritmia (Eurythmia), decoro (Decor), distribuzione (Distributio) – dei requisiti categoriali imprescindibili della estetica architettonica. Egli, infatti, afferma «la simmetria o commensurabilità fra il tutto e le parti, corrispondenza determinata da una comune misura fra le differenti parti dell’insieme, e tra questa parte e il tutto» e ancora «la simmetria o con misurazione, appunto, è il collegamento armonico dei singoli membri dell’edificio, più particolarmente è la corrispondenza proporzionale, computata a moduli (o frazioni di modulo) delle singole parti considerate a sé, rispetto alla figura complessiva dell’opera. Come nel corpo dell’uomo [come in Michelangelo] la qualità della euritmia è commisurata dall’avambraccio al piede, dal palmo al dito e dalle altre parti: così è anche nel perfetto e compiuto edificio. Nei templi, come primo esempio, si ricava dal diametro delle colonne, o dal triglifo, cioè anche dall’embatèr o modulo, che entra secondo vari quozienti in ogni parte dell’edificio». Inoltre nel III libro ribadisce che «aedium compositio constat ex symmetria, cuius rationem diligentissime architecti tenere debent. Ea autem paritur a proportione, quae graece [ανα] λογία dicitur»[31]. Questo è anticipato dallo stesso Platone quando nel Filebo[32] afferma che «misura e simmetria sono dovunque e sempre bellezza e virtù» in cui sembrano riecheggiare le parole di Parmenide[33] a proposito dell’essere che resta «immobile nel limite di possenti legami». Questi legami sono proprio ciò che rende gli elementi architettonici parti di un tutto armonioso. Altrove Sesto Empirico, ancora su presupposti pitagorici, ribadisce che: «Nessun’arte può sussistere senza simmetria; ma la simmetria risiede nel numero; perciò ogni arte consta di numeri». Lo stesso Valéry significativamente ha affermato che «l’opera d’arte non è una creazione, bensì è una costruzione in cui l’analisi, il calcolo, la pianificazione svolgono il ruolo principale».

 

  1. Il ruolo della simmetria nello sviluppo dell’architettura

Come si è visto – lungi dal ridursi al concetto geometrico di simmetria bilaterale come avverrà nella stagione barocca e neoclassica – la commensurazione/simmetria nella teoria architettonica antica e rinascimentale aveva a che vedere con il concetto più ampio di proporzione, di misura, di modularità di corrispondenza tra parti. Nella architettura gotica, di contro, la nozione di simmetria sarà tradotta e ridotta da Viollet-le-Duc alla definizione del “modulo ogiva” come “quanto” ordinatore, “modulo oggetto” di tutta la struttura spaziale della cattedrale che trova nella sua ripetizione o amplificazione una simmetria traslativa che la avvicina all’idea di organismo diveniente. Una ripetizione ben diversa ad esempio di quella delle sale ipostile (da Delo e Magalopolis in poi) in cui la reiterazione degli stiloi moltiplica e amplifica le possibili simmetrie in un continuo rimando a direzioni multiple in grado di alludere nella disposizione a quinconce ad alludere nel finito alle progressioni infinite. Se la proporzione classica è di tipo “relativo/co-relativo” – il modulo è ordine e misura di ogni elemento – nel paradigma gotico essa si fa “assoluta” magnificando alcuni elementi in ragione del tasso di rappresentatività che esso assume nella composizione generale. Nell’ambito della riformulazione moderna tornerà in auge il concetto di simmetria come modo dell’ordine in cui la proporzione, il ritmo, la ripetizione e/o la variazione controllata diverranno gli strumenti espressivi di una architettura in cui il rapporto con le forme della costruzione diviene più stringente e autentico. Si pensi alle case a patio di Mies van der Rohe in cui alla perfetta misurazione dei campi strutturali che tassellano senza scarti i recinti murari (novelli temenos per consentire il dimorare) fanno da contrappunto ieratiche presenze di pareti marmoree o di vetrate che, nell’attenuare la simmetria geometrica, dinamizzano lo spazio e individuano i luoghi distintivi dello stare. O anche nei grandi edifici ad Aula in cui il maestro di Aachen utilizza la simmetria e la centralità delle figure prime e regolari – attentamente ripartite in moduli interi – cui corrispondono polar-simmetrie al tempo stesso geometriche e deformative[34] nella posizione e proporzione delle colonne perimetrali (imbrigliate dalla successione di Fibonacci), come premessa per la costruzione di uno “spazio universale” di tipo newtoniano libero da strutture interne in cui rappresentare l’idea stessa del radunarsi. Oppure ci riferisca alle raffinate simmetrie dinamiche dei tracciati regolatori di Le Corbusier che divengono reticolo invisibile soggiacente per la collocazione delle bucature nei tersi volumi bianchi delle sue architetture. In tal senso l’invenzione del Modulor come sistema di proporzione basato sulla sezione aurea e misura sembra accordarsi con la definizione platonica di Δυναµει συµµετροι[35] nell’uso di rapporti basati su numeri irrazionali √2, √3 e √5[36] per rendere commensurabili superfici costruite su elementi incommensurabili. Sarà proprio Le Corbusier, come ci ricorda Ludovico Quaroni[37], a proiettare il concetto di assialità bilanciate di matrice greca (come sequenza di punti di vista privilegiati e scorciati), in contrasto con la simmetria assiale retorica e “centralista” di matrice romana (come mosaico di centralità), sulla dimensione urbana e dei luoghi collettivi, utilizzando, ad esempio nel Campidoglio di Chandigarh, una analogia, qui invertita, con la fisica nell’equilibrio ai momenti delle masse rispetto a un asse in cui «i pesi architettonici dovranno essere più grandi quanto più lungo è il braccio, diminuendo prospetticamente, per la lontananza, la loro importanza (al contrario di quanto avviene nella “composizione” delle forze fisiche)». «Questo tipo di assialità – come avverte ancora Quaroni[38] – è stato preferito dagli architetti moderni proprio perché non trasmette l’idea completa di “ordine”, di “stabilità”, di “immobilità”, di “sicurezza” che trasmette invece l’assialità simmetrica, speculare, che è sempre stata usata dal potere di qualunque tipo […]. L’assialità bilanciata è tuttavia anch’essa, come il tracciato direttore costruito su √5 un sistema formale che non accetta un mito forte e potente, ma che non accetta nemmeno una estrinsecazione di sentimenti troppo evidente quale è stata a volte quella degli espressionisti [e oggi dei naturalisti (n.d.A.)] nel “citare” la drammaticità del nostro tempo».

Nella contemporaneità – dopo la presunta “fine della modernità” teorizzata da Vattimo[39] e la nefasta stagione del Postmoderno – la simmetria, lungi da declinarsi nel senso della proporzione o nell’assialità dinamica o bilanciata o dall’inserire asimmetrie controllate in un impalcato regolato e per questo intellegibile (si pensi alle stringhe di finestre nelle chiese e nei conventi di Dom Hans van der Laan o alle analoghe ripetizioni sfalsate del frons scenae del Teatro di Sagunto di Giorgio Grassi in cui la simmetria non è l’obiettivo ma il risultato) viene semplicemente espunta dalla attrezzatura compositiva per cedere il passo a naturalismi di vario segno, a esibizioni tecnologiche o alla dichiarata ricerca dell’informe che non ammette costituzioni di parti ed elementi e per questo è costitutivamente in-analizzabile. La traslitterazione superficiale e acritica di acquisizioni extra disciplinari sub speciae architectura produce un delirante affastellamento d’immagini e di oggetti autoreferenti che hanno come obiettivo prioritario l’aggressione ai sensi, la seduzione obnubilante e mercificante nella ricerca e propensione per un vacuo “sex appleal dell’inorganico” per citare un noto testo di Mario Perniola[40]. La suggestione dei frattali, delle infinite simmetrie delle spugne di Sierpinski o dei labirinti di Peano, trasposte alla scala dell’edificio da un lato fanno retrocedere la costruzione architettonica a un livello mimetico – questa volta dell’invisibile struttura dell’organico – sotto l’egida di un equivoco e infantile organicismo e, dall’altro, conducono a una sperimentazione formalista mimetica delle “pieghe” e nei “mille piani” di Deleuze e Guattari cui corrispondono le modellazioni/deformazioni del decostruzionismo che rendono l’arte del costruire di questi anni il ricettacolo di messaggi pubblicitari e non condizione di possibilità dell’abitare. Le “forme informi” oggi prevalenti producono una progressiva virtualizzazione[41] dello spazio e della materialità dell’architettura con la conseguente erosione del connotato precipuo di longue durée e di “misura conforme” che l’aveva caratterizzata per i millenni precedenti. Le recenti “neo-forme” intricate, caotiche, a matrice organica, essendo determinate come continui indifferenziati, non consentono evidentemente di stabilire chiari ed evidenti rapporti sintattici, predizioni veritiere sui comportamenti statico-costruttivi e non consentono neppure di proporre una dialettica necessaria, un contrappunto tra le parti e il tutto. Sul piano conoscitivo, infatti, è impossibile conoscere un tutto indistinto e informe se quest’ultimo risulta inseparabile e non discretizzabile in parti distintive dotate di una, seppur relativa, autonomia. Lo stesso Paul Valéry, su questa impossibilità conoscitiva legata all’incommensurabilità delle parti, in un famoso testo su Degas afferma:

Pensavo talvolta all’informe. Ci sono cose, macchie, contorni, volumi che, in un certo modo, non hanno se non un’esistenza di fatto: sono soltanto percepite da noi, ma non conosciute; non possiamo ridurle ad una legge unica, dedurre il loro tutto da un’analisi delle loro parti, ricostruirle con operazioni logiche. Possiamo modificarle assai liberamente, non hanno altra proprietà che quella di occupare una zona dello spazio […] Dire che sono cose informi non è dire che non hanno forme, ma che le loro forme non trovano in noi nulla che permetta di sostituirle con preciso segno che tracci con un sicuro riconoscimento. E, infatti, le forme informi non lasciano altro ricordo che quello d’una possibilità: non più che una serie di note non dia origine a una melodia, una pozzanghera, una roccia, una nube, un pezzo di litorale, non sono riducibili[42].

A questa perdita di senso linearmente connessa con la mercificazione e alla reductio ad imaginem può, a nostro avviso, far fronte un ritorno alle “cose stesse”, al rapporto imprescindibile con la realtà[43], all’adeguatezza di cui parlava Lukács per riaffermare, per l’architettura come nell’arte, l’esigenza dell’uscita dal disordinato Χάος per pervenire al Κόσμος, all’ordine, un ordine non sovraimposto ma intellegibile per l’arte collettiva per eccellenza.

 


[1] Cfr. J. W. Goethe, Scritti sull’arte e sulla letteratura, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1992.

[2] Cfr. R. Thom, Arte e morfologia. Saggi di semiotica, tr. it. Mimesis, Milano 2011.

[3] Cfr. E. Mortola, Nota scheda sulla “proporzione” e nota scheda sulla “simmetria”, in L. Quaroni, Progettare un edificio. Otto lezioni di architettura, Mazzotta, Milano 1977, pp. 177-192; e Voce “simmetria”, Dizionario Enciclopedico di Archiettura e Urabnistica, Istituto Editoriale Romano, Roma 1968.

[4] Cfr. A. Dürer, Della simmetria dei corpi humani, Venezia 1591.

[5] Platone, Timeo, tr. it. Bompiani, Milano 2000.

[6] Cfr. H. Hohenegger, Kant, filosofo dell’architettonica. Saggio sulla Critica della facoltà di giudizio, Quodlibet, Macerata 2004.

[7] J. Derrida, Adesso l’architettura, tr. it. Scheiwiller, Milano 2008.

[8] H. G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. Bompiani, Milano 1988.

[9] Cfr. Ch. Norberg-Schulz, Esistenza, Spazio e Architettura, tr. it. Officina Edizioni, Roma 1975.

[10] M. Heidegger, L’arte e lo spazio (1969), tr. it. Il melangolo, Genova 2003.

[11] Cfr. V. Ugo, Architettura ad vocem. Verso un glossario dei termini di architettura, Guerini e Associati, Milano 1996.

[12] Cfr. R. Capozzi, Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura, in «Op. cit.», 141, 2011.

[13] C. Martí Arís, La cèntina e l’arco. Pensiero, teoria, progetto in architettura, Christian Marinotti, Milano 2007.

[14] Cfr. R. Capozzi, L’idea di riparo, Clean, Napoli 2012.

[15] G. Lukács, Estetica, tr. it. Einaudi, Torino 1970, p. 1210.

[16] Id., Il marxismo e la critica letteraria, tr. it. Einaudi, Torino 1977, p. 47.

[17] S. Malcovati, F. Visconti, M. Caja, R. Capozzi, G. Fusco (a cura di), Architettura e Realismo. Riflessioni sulla costruzione architettonica della realtà, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna 2013.

[18] I. Calvino, L’esattezza, in Lezioni Americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano 2000.

[19] J.J. Gibson, The ecological approach to visual perception, Houghton Mifflin, Boston 1979.

[20] A. Monestiroli, La metopa e il triglifo. Nove lezioni di architettura, Laterza, Roma-Bari 2002.

[21] Cfr. P. Valéry, Eupalino, o Dell’architettura (1924), tr. it. Biblioteca dell’immagine, Pordenone 1991.

[22] J. Gaudet, Éléments de théorie d’architecture, Paris 1894.

[23] Cfr. G. Kepes, Module Symmetry Proportion, Studio Vista, London 1966.

[24] L.B. Alberti, De Re Aedificatoria (1450), tr. it. Polifilo, Milano 1966.

[25] A. Palladio, I quattro libri dell’archiettura, Venezia 1570.

[26] Cfr. A. Speiser, Symmetry in Science and Art, in «Dedalus», American Academy of Arts and Sciences, 1960.

[27] E. Mortola, op. cit.

[28] H. Weyl, La simmetria, tr. it. Feltrinelli, Milano 1962; e E. Agazzi (a cura di), La simmetria, Il Mulino, Bologna 1973.

[29] Plinio Seniore, infatti, nella sua Naturalis historia (XXXIV, 65) afferma che la lingua latina: Non habet nomen symmetria.

[30] M. Vitruvio Pollione, De Architectura (29-23 a.C.), tr. it. Palombi, Roma 1960.

[31] Ibid., Liber III.

[32] Platone, Filebo, 64 E.

[33] Parmenide, Sulla Natura, vv. 36-38.

[34] Cfr. M. Fraldi, Teoria della costruzione: Principia, in R. Capozzi, op. cit., pp. 85-88.

[35] Platone, Teeteto, passim, cit. in G. Dorfless, Itinerario estetico. Simbolo, mito, metafora, Editrice Compositori, Bologna 2011, p. 67; e in P.A. Rovatti (a cura di), Il coraggio della filosofia. Aut-aut 1951-2011, Il Saggiatore, Milano 2011, p. 51.

[36] Cfr. J. Hambidge, Dynamic Symmetry, Yale University Press, 1926; e C. Bairati, La simmetria dinamica: scienza ed arte nell’architettura classica, Tamburini, Milano 1952.

[37] L. Quaroni, op. cit., p. 168.

[38] Ibid., p. 169.

[39] Cfr. G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985.

[40] M. Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino 1994.

[41] Cfr. T. Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 2005.

[42] P. Valèry, Du sol et de l’informe, in Degas Danse Dessin (1938), Oeuvres, II, éd. Hytier, Gallimard, Paris 1960, p. 1194.

[43] Cfr. A. Monestiroli, L'architettura della realtà, Clup, Milano 1979; e M. Ferraris, Realismo positivo, Rosenberg e Sellier, Torino 2013.

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