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Il terzo spazio. La posizione fenomenica e relativista di Kant

Autore


Maria Teresa Catena

Università di Napoli Federico II

Insegna Filosofia Teoretica all’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Kant versus Kant?
  2. Relazionale e relativo
  3. Come orientarsi (con le mani)
  4. Il terzo spazio
  5. Spazio e fenomeno

 

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S&F_n. 15_2016

Abstract


Third Space. Kant’s phenomenal and relativistic Position


This paper shows a comparison and try to track down some points of contact between several Kantian assumptions about space and some elements from the formulation of Einstein’s Relativity. By operating a significant shift to his contemporary geometry, the young Kant believes directing as an internal property of the figure. Starting from this premise and through the famous example of incongruous opposites, the philosopher shows that the inner reason of directive diversity between hands leads to the need for a new concept of space. It will be called relative and phenomenal this third type of space that Kant aims. Related and non-relational because it results from the immediate relationship that a certain object has with the sides of our body. Einstein’s space exhibits not only a relative nature, but also a non-Euclidean character having its determined geometry determined from masses and their speed, from the characters of dynamism, of discontinuity and variability. In this direction, you can find some interesting similarities with Kant.


  1. Kant versus Kant?

Che lo spazio sia momento tutt’altro che marginale del percorso filosofico kantiano è cosa scontata; allo stesso modo in cui è cosa nota che la riflessione su tale concetto prende avvio già dai primi scritti naturalisti del pensatore, che lo osserva incrociando su di esso le due prospettive dello scienziato e del metafisico.

Ora, è proprio questo crocevia concettuale che troviamo anche in un altro, molto particolare, testo giovanile: il breve ma denso, Del primo fondamento della distinzione delle direzioni nello spazio, datato 1768.

Tuttavia, per quanto non ci sia alcun dubbio che Kant mantenga una certa continuità d’impostazione, comportandosi da geometra e insieme da metafisico e filosofo, altrettanto evidente è che in queste pagine il filosofo sembra compiere una sterzata sia rispetto a quanto aveva precedentemente detto sullo spazio, sia rispetto a quanto dirà, di lì a poco, su questo tema. Detto più chiaramente: se negli scritti precedenti egli aveva contestato la teoria newtoniana dello spazio assoluto in nome di una prospettiva che definisco da subito fenomenica e relativista, qui invece egli sembra sposare, via Eulero, proprio la teoria dello spazio assoluto. Allo stesso modo, e ancora più evidentemente: se pensiamo alla Dissertatio del ’70 o ci riferiamo alle successive pagine dell’Estetica trascendentale, per non parlare poi dei Prolegomeni dove, utilizzando lo stesso argomento degli opposti incongruenti, Kant conferma la natura soggettiva dello spazio, la prospettiva adottata nel ’68, e la presenza in questo testo di uno spazio assoluto, non può che sembrarci strana.

Ma come è possibile quest’incoerenza?

Il fatto è che non è di un’incoerenza che si tratta, dato che, come cercherò di mostrare, qui Kant opera solo in apparenza una difesa dello spazio assoluto newtoniano, come mostra anche l’utilizzo del termine assoluto, che oltre a non essere uniforme nel testo stesso, assume, laddove viene usato, un significato complessivamente ben diverso da quello che saremmo portati a credere associandolo immediatamente a Newton[1].

Da questo punto di vista allora, questo scritto, più che una discontinuità o una frattura, segna un momento di continuità della riflessione kantiana venendosi a trovare, ancorché con un’impostazione sua propria, in perfetta linea con quella posizione che ho sopra definito, fenomenica e relativista e che, come proverò a suggerire nelle conclusioni, è a pieno titolo relativista giacché delinea quella specifica modalità del relativo-a che si troverà teorizzato nell’elaborazione di sistema di riferimento inerziale da Einstein, in particolar modo nella Relatività ristretta.

Ora però, prima di giungere a individuare un tal tipo di accostamento, è necessario ricostruire i tratti di continuità interna rispetto all’impostazione kantiana.

 

  1. Relazionale e relativo

Torniamo dunque al 1768 e alla specifica e originale idea di spazio che si viene qui delineando.

Che la posizione di Kant su questo tema si sforzasse già da un po’ di trovare una propria collocazione all’interno del dibattito filosofico e scientifico, è cosa abbastanza evidente se solo si leggono le parole della Monadologia Fisica dove, pur ammettendo con Newton l’idea di una divisibilità infinita dello spazio (geometrico), dopo vario ragionamento, Kant, in posizione evidentemente anti-newtoniana, nega allo spazio qualsivoglia sostanzialità e afferma che «lo spazio non è sostanza (substantia), ma fenomeno di una relazione esterna tra sostanze (externae substantiarum relationis phaenomenon[2] .

Similmente, nello scritto del 1758, la Nuova dottrina del moto e della quiete, dopo aver definito moto e quiete di un corpo concetti non assoluti, ma relativi alla relazione (Beziehung) che quel corpo ha con gli altri che gli sono intorno, e dopo aver notato che moto e quiete sono dipendenti dal campo relazionale preso in considerazione quale riferimento, egli ne conclude l’impossibilità di uno spazio assoluto. Non è dunque un caso leggere: «per quanto io volessi immaginarmi anche uno spazio matematico, vuoto d’ogni cosa creata, come ricettacolo dei corpi, pur non ne sarei aiutato in nulla. Giacché come ne distinguerei le parti (Teile) e i luoghi (Plätze) diversi, non occupati da nulla di corporeo?»[3]. Così, come per il moto e la quiete, anche per lo spazio, non devo servirmi di queste espressioni in un senso assoluto, ma solo relativo (respective).

Attenzione: Kant scrive relativo e non relazionale. Sarebbe a dire: affermare che lo spazio trova il suo senso relativamente ad altro – vuoi quest’altro sia la sostanza monade, vuoi siano i corpi in generale – dire cioè che lo spazio è sinonimo di relazione, non significa affatto sposare la posizione relazionistica di Leibniz. La citazione appena fatta potrebbe farlo intendere, ma non è così. Lo spazio, per Kant, non solo non è, come per Newton, un contenitore all’interno del quale si trovano i corpi e le leggi loro concernenti, ma non è nemmeno, á la Leibniz, un concetto ricavato per astrazione dalle concrete e diverse posizioni dei corpi e degli oggetti nel mondo. E non lo è perché in questi anni il filosofo sta elaborando una terza posizione sullo spazio: sarebbe a dire quella visione fenomenica e relativista che troverà piena realizzazione nella sua futura visione critica.

Quanto questo sia vero lo mostra il semplice fatto che il filosofo non solo – e siamo finalmente tornati al testo del ’68 – parta criticando Leibniz ma, per quanto sembri sposare la tesi di Eulero, alla fine la liquida, o quanto meno liquida il procedimento dimostrativo da questi utilizzato per provare la realtà dello spazio assoluto[4].

Cose queste entrambe che lo costringono, per così dire, a cercare in un altro luogo la prova evidente della realtà di questo spazio.

  1. Come orientarsi (con le mani)

Ora, il luogo cui riferirsi sembra in un primo momento essere trovato «nei giudizi intuitivi della estensione, quali li contiene la geometria»[5].

Cerchiamo a questo punto di ricostruire il ragionamento kantiano.

Proviamo a immaginare nello spazio geometrico tridimensionale tre piani che si tagliano tutti tra loro ad angolo retto e proviamo a porli in relazione con i lati del nostro corpo: «nello spazio corporeo, a causa delle sue tre dimensioni», scrive Kant, «si possono pensare tre piani che si tagliano tutti tra loro ad angolo retto». Inoltre, prosegue, poiché tutto ciò che è fuori di noi è «in relazione a noi stessi (in Beziehung auf uns selbst)», ed è da noi conosciuto attraverso i sensi (Sinnen), allora non dobbiamo meravigliarci se poniamo questi piani intersecantisi in rapporto con il nostro corpo (Körper), che sarà dunque, il primo fondamento a partire dal quale generare la distinzione delle regioni, ma meglio dire, delle direzioni (Gegend) nello spazio[6].

Kant prosegue con una serie di esempi. Ne faccio uno per tutti: che cos’altro è l’orizzontale, dice, se non una dimensione che si pensa e nella quale si collocano gli oggetti che sono posti su un immaginario piano perpendicolare rispetto alla lunghezza del nostro corpo?

E seguendo lo stesso tipo di ragionamento procede a definire destra e sinistra, alto e basso, sopra e sotto e così via.

Insomma, ci dice Kant, noi distinguiamo la destra dalla sinistra, così come la parte anteriore o posteriore di un foglio, allo stesso modo della superiore e dell’inferiore, solo a partire dalla relazione immediata che quell’oggetto ha con noi. Più precisamente, scrive:

in un foglio scritto, per esempio, distinguiamo prima la parte superiore dalla inferiore dello scritto, notiamo la distinzione del lato anteriore dal posteriore e poi poniamo attenzione alla posizione dei segni grafici da sinistra a destra o viceversa. Qui è sempre la stessa posizione reciproca delle parti che sono ordinate sul piano, e identica in tutti i pezzi, comechè si volga il foglio, è la figura; ma in questa rappresentazione la distinzione delle direzioni è di tal conto, ed è così strettamente legata all’impressione (Eindrucke) fatta dall’oggetto visibile, che proprio lo stesso scritto diventa irriconoscibile, quando sia visto rivolgendo da destra a sinistra tutto ciò che prima stava in direzione opposta[7].

Dunque, saremmo portati a dire, la direzione, l’orientamento, è un concetto operativo e relativo, nella misura in cui esso è ottenuto in riferimento al nostro corpo.

Va detto però, a onor del vero, che il ragionamento kantiano è ambiguo e oscillante perché, pur partendo da un chiaro riferimento allo spazio geometrico, a ben guardare, vi si attiene solo fino a un certo punto, almeno nella misura in cui – anche facendo un significativo spostamento rispetto alla geometria a lui contemporanea – egli afferma e riporta la direzionalità non al confronto tra due figure geometriche ma – e qui avviene una prima anticipazione della futura posizione critica – alla relazione che un certo oggetto ha con i lati del nostro corpo; come a dire, utilizzando una terminologia successiva, alla relazione con la nostra sensibilità.

Come che sia, è interessante notare che l’oscillazione kantiana non termina qua. Proviamo dunque a continuare a seguire il suo discorso che, a un certo punto, vira e pone l’attenzione su una parte in particolare del nostro corpo: le mani.

Perché? Che cosa hanno di particolare le nostre mani?

Ancora una volta Kant parte da un esempio geometrico.

Poniamo, dice, che data la mano di un uomo si facciano partire da essa, e da tutti i punti della sua superficie, delle linee perpendicolari, che vengono collocate su una tavola posta di fronte alla mano stessa. Si colleghino poi questi punti tra loro. Si vedrà che questi punti così collegati, daranno «la superficie di una forma corporea che è l’opposta incongruente della precedente, e cioè, se la mano data è una destra, il suo opposto è una sinistra». E per meglio spiegarsi, Kant aggiunge: «il figurarsi di un oggetto nello specchio si fonda appunto negli stessi principi»[8].

Tuttavia, improvvisamente, dopo aver fatto quest’esempio, Kant sposta il punto di vista e passa dalla mano costruita alla mano concreta e, con esse, dalla geometria alla filosofia.

«Veniamo ora», dice, «alla applicazione filosofica di questi concetti»; applicazione che viene fatta facendo riferimento al «comune esempio delle due mani»[9].

Perché fa questo scarto?

Perché, a ben guardare, se ci limitassimo al precedente esempio di costruzione geometrica dell’opposto incongruente, non coglieremmo il punto centrale cui il tema della direzionalità ci sta portando.

Cerchiamo dunque di capire, provando ad addentrarci nel ragionamento.

Abbiamo appena detto come, nell’esempio geometrico, viene costruita l’opposizione tra le due figure: la superficie che la costruzione ha prodotto, viene ottenuta mantenendo la stessa posizione dei punti dello spazio della prima superficie. Questo significa che la superficie della mano data e quella della mano costruita sono «simili e uguali», e una «compiuta descrizione di una sola di esse per quanto riguarda e la proporzione (Proportion) e la posizione (Lage) reciproca delle parti (Teile) e la grandezza (Größe) del tutto deve valere anche in tutte le parti per l’altra»[10].

Quanto questo sia vero, quanto cioè le superfici siano simili e uguali nonostante siano costruite come opposte, basterebbe a mostrarlo il fatto che una volta che si fa compiere all’immagine costruita dell’oggetto un mezzo giro sulla superficie, l’immagine che ne deriva sarà congruente con quella da cui siamo partiti. E questo perché, attraverso un passaggio di dimensionalità – e Kant ne è del tutto consapevole – «l’opposto dell’opposto di un oggetto è necessariamente congruente con esso»[11].

Ora, è proprio questo che non accade con le mani concrete di un uomo,

dove la figura di un corpo può essere completamente simile alla figura di un altro, e la grandezza della estensione completamente uguale, eppure può rimanere una distinzione interiore, cioè questa: che la superficie che chiude l’un corpo, è impossibile che rinchiuda l’altro. Giacché lo spazio corporeo dell’uno è limitato da questa superficie che non può servir di limite all’altro, comunque lo si giri e rivolga[12].

Ebbene, se questo è vero, se le mani concrete e reali di un uomo ci dicono che la figura di un corpo, allo stesso modo che la sua grandezza ed estensione, posso essere completamente simili alla figura di un altro senza che da questo ne consegua che la superficie delimitante il primo corpo possa delimitare anche l’altro – indicandoci addirittura l’impossibilità che la superficie del primo possa delimitare anche l’altro – allora il caso concreto delle mani quali opposti incongruenti mostra con assoluta chiarezza che l’esempio geometrico è manchevole in qualcosa, ch’esso non basta a darci la spiegazione dell’incongruenza.

Detto in altri termini: le mani ci mostrano il fatto che le posizioni reciproche delle parti sono una condizione necessaria, ma non sufficiente, a determinare la proprietà distintiva che le mani hanno, di essere orientate diversamente e di essere per questo l’una una destra e l’altra una sinistra.

Mi sembra abbastanza chiaro che Kant stia facendo un passo in più rispetto a prima: qui non si tratta solo di trattare la direzionalità come proprietà spaziale specifica, pensata attraverso un processo di confronto e relazione alla corporeità. Qui egli sta dicendo che l’orientamento è una proprietà differente, relativa certo, ma non per questo relazionale, come ben mostra il fatto ch’essa non può essere ricavata ricorrendo alla differente specie di collegamento delle parti dei corpi tra loro.

Non è forse un caso che egli parli senza mezzi termini di una ragione intrinseca (innere Grund) e interna, arrivando perfino ad affermare che anche se la natura avesse creato una sola mano, l’avrebbe creata orientata: se così non fosse, infatti, si arriverebbe al paradosso di un’indeterminatezza che riterrebbe possibile attaccare una mano a qualsivoglia lato del corpo umano. Scrive, più precisamente in proposito:

Tuttavia, immaginando una mano d’uomo come primo pezzo delle creazione, è necessario che essa sia o una destra o una sinistra, e per produrre l’una era necessaria una azione della causa creatrice, diversa da quella richiesta per fare il suo opposto. Ora se si ammette, insieme con molti filosofi moderni specialmente tedeschi, che lo spazio sta soltanto nei rapporti esterni delle parti di materia che si trovano l’una accanto all’altra, ogni spazio reale, nell’addotto caso, sarebbe soltanto quello che questa mano occupa. Ma giacché nel rapporto delle parti di essa tra loro non v’ha differenza, sia essa mano una destra o una sinistra, così questa sarebbe del tutto indeterminata riguardo a questa proprietà, cioè essa si adatterebbe ad ogni lato del corpo umano, il che è impossibile[13].

 

  1. Il terzo spazio

Così, attraverso questa citazione siamo finalmente giunti al punto chiave del discorso kantiano.

Se, come le mani concrete dell’uomo mostrano, la ragione intrinseca della diversità direzionale tra i corpi non può essere spiegata ricorrendo alla differente specie di collegamento delle parti dei corpi tra loro, allora, per comprendere il caso degli opposti incongruenti, bisognerà ricorrere a un nuovo e diverso concetto di spazio, un concetto di spazio che non può essere identificabile né con lo spazio come veniva pensato da Leibniz né, più generalmente, con lo spazio inteso quale sinonimo di ordine pensato dai geometri.

Ora, che Kant chiami assoluto questo spazio non significa affatto che stia pensando allo spazio newtoniano.

Lo si ribadisca: qui il giovane filosofo sta cominciando a pensare a un terzo tipo di spazio, quello che ho definito relativo e fenomenico.

Un primo indizio in tal senso – dovrebbe risultare chiaro – sta già nell’aver definito la direzionalità una proprietà relazionata alla corporeità; in altri termini, nell’averla riferita alla soggettività.

Certo, qui la posizione del giovane filosofo è ancora immatura, tant’è che in queste pagine non c’è alcun riferimento alla natura radicalmente sensibile e modificabile della soggettività, né tanto meno alcun accenno alla possibilità di attribuire alla facoltà sensibile una forma organizzativa propria. Ciò nonostante non mi sembrano esserci dubbi che l’appena descritta idea operativa di direzionalità, quale relazione tra il mio corpo e gli oggetti, è molto più vicina al futuro spazio critico che non allo spazio assoluto newtoniano. Detto in altri termini: definire la specificità di alcune misure spaziali in base alla dimensione sensibil-corporea e fare di esse il punto di avvio di una più ampia riflessione sullo spazio, può ben essere considerato un passo in vista dell’apertura del futuro percorso; un abbozzo, se si vuole, ma ben capace di delineare e prefigurare quella che sarà la successiva attribuzione dello spazio, quale intuizione pura a priori, alla soggettività, in particolar modo al ramo radicalmente passivo e modificabile di essa.

Ma non solo.

Da notare ulteriormente è che in questo suo scritto, Kant allarga il discorso e, richiamando le direzioni in generale e le direzioni cosmiche, afferma che tanto nella conoscenza geografica, quanto in quella cosmologica, a poco varrebbero i nostri giudizi se non fossimo capaci di rapportare la posizione (Lage) delle stelle tra loro o la posizione geografica di un luogo, alle direzioni ottenute mediante la relazione con i lati del nostro corpo.

Vale la pena riportare per intero il brano:

Persino i nostri giudizi sulle direzioni cosmiche sono subordinati al concetto delle direzioni in generale, in quanto esse sono determinate in rapporto ai lati del nostro corpo. Ciò che poi, nel cielo e sulla terra, riconosciamo in rapporti indipendentemente da questo concetto fondamentale, sono soltanto posizioni degli oggetti tra di loro. Per quanto io sappia bene l’ordine delle parti dell’orizzonte, pure posso determinare le direzioni solo sapendo verso qual mano quest’ordine va, e la più esatta delle carte celesti, per quanto esattamente io la pensassi, non mi porrebbe in condizione di sapere da qual parte dell’orizzonte io debba cercare il levante, movendo da una direzione riconosciuta, per esempio da Nord, se, oltre la posizione (Lage) delle stelle tra loro, non fosse anche determinata la direzione (Gegend) dalla disposizione (Stellung) del disegno verso le mie mani. E così è anche della conoscenza geografica, anzi della nostra più comune conoscenza della posizione dei luoghi, che non ci serve a nulla, se non possiamo disporre nelle direzioni, mediante la relazione con i lati del nostro corpo, le cose in tal modo ordinate e l’intero sistema delle posizioni reciproche[14].

Ma ancora, c’è da aggiungere un altro elemento importante.

  1. Spazio e fenomeno

Quasi all’inizio del suo saggio Kant scrive: «lo spazio assoluto è indipendente dalla esistenza di ogni materia e ha anche una realtà propria come primo principio (Grund) di possibilità della composizione della materia»[15].

Evidentemente, con queste parole, egli sta aggiungendo un altro tratto a questo spazio-relativo; sarebbe a dire, che gli sta attribuendo quel carattere che ho precedentemente definito come fenomenico.

A ben guardare, infatti, qui non si tratta solo di distinguere lo spazio-ordine dallo spazio-relativo cui ci riporta la direzionalità, né di fare di questo la condizione di possibilità di quello.

In termini più diretti: in queste pagine non è solo in questione la distinzione tra le posizioni geometriche e un ordine relativo alla corporeità. Tra le righe, infatti, possiamo vedere anticipata quella concezione fenomenica dello spazio che permarrà fino all’Opus postumum.

Con l’espressione concezione fenomenica dello spazio intendo il fatto che, in qualità di condizione formale avente sede nella sensibilità, lo spazio non esprime solo la sua natura relativa alla soggettività. Se si ripercorrono gli assunti critici vediamo infatti che nella misura in cui la sensibilità, con le sue forme, è sinonimo di modificabilità, allora queste stesse forme spazio-temporali, saranno doppie, ancipiti, cioè relative – sempre e anche – a ciò che modifica, all’oggetto. Detto in altri termini: esse indicheranno tanto il modo di intuire – il soggetto, la soggettività sensibile – quanto l’oggetto intuito.

Tale premessa ha una sua implicita ma non trascurabile conseguenza che potremmo riformulare, seguendo i futuri assunti critici, come segue: proprio perché hanno lo spazio come una delle condizioni della loro costituzione, le cose non hanno un ordine intrinseco e autonomo, ma constano solo di relazioni, esprimono sempre e solo semplici rapporti; sono, in una parola, fenomeni.

Nelle pagine critiche questo assunto appare con chiarezza in più punti. Basti qui a provarlo una sola citazione:

a conferma di questa teoria dell’idealità così del senso esterno, come dell’interno […], si può principalmente osservare, che tutto ciò che nella nostra conoscenza appartiene all’intuizione […] non contiene altro che semplici rapporti […]. Ora, con semplici rapporti non si conosce una cosa in sé; è dunque da ritenere che dal momento che mediante il senso esterno non possono esserci date se non semplici rappresentazioni di rapporti, anch’esso nella sua rappresentazione non possa contenere altro che il rapporto di un oggetto col soggetto, e non l’interno dell’oggetto in se stesso. Altrettanto si dica dell’intuizione interna […]. Tutto ciò che è rappresentato per mezzo d’un senso è perciò stesso sempre fenomeno[16].

Certo, in confronto con queste parole, lo scritto del ’68 non va al di là della semplice attribuzione della direzionalità spaziale alla dimensione della corporeità. Non senza difficoltà e oscillazioni, come si è visto, esso prova a cercare di individuare in tale soggettività il fondamento di ogni ulteriore definizione di spazio oggettivo e nessun ragionamento chiaro è riscontrabile a proposito della natura fenomenica dello spazio. Del resto, pretendere di trovare un assunto evidente su tale questione, sarebbe troppo, dato che, lo si ribadisca, per giungere a questo risultato bisognava realizzare a pieno la futura trascendentalizzazione della soggettività. Ciò non toglie tuttavia che il pur incerto ragionamento sulle mani sia momento preliminare e indispensabile di quel percorso che giungerà alla definizione della natura fenomenica del mondo oggettivo, in tutti i suoi risvolti, finanche della materia stessa.

Da questo punto di vista, non è forse un caso, e tantomeno una contraddizione, che Kant attribuisca realtà a questo spazio assoluto, considerandolo insieme – si badi bene – indipendente dall’esistenza di ogni materia. Chiaramente, tale realtà non deve intendersi nel senso newtoniano dell’essere lo spazio un contenitore che sussiste a prescindere dagli oggetti concreti; l’assolutezza, insomma, non è qui da pensarsi ontologicamente, quanto piuttosto funzionalmente, relativamente.

A ben guardare, infatti, il filosofo, per indicare la realtà di questo principio, sceglie di usare il termine Realität, evitando di utilizzare Dasein o Wirklichkeit; il che significa che egli non sta pensando a una realtà esistente o a un «oggetto di sensazione esterna», ma a un «concetto fondamentale (Grundbegriff) che rende per primo possibile tutte quelle sensazioni».

Dove il termine “concetto” però non impedisce a Kant di aggiungere, in conclusione, e con un’ulteriore ed evidente mossa anti-leibniziana, che mai questo spazio assoluto dovrà essere pensato come una «cosa puramente ideale»[17]. Al contrario: il lettore riflessivo dovrà intenderlo diversamente da come lo «pensa il geometra» e da come l’hanno «accolto nel sistema della scienza della natura anche filosofi acuti»[18].

E ciò evidentemente perché qui bisogna sforzarsi di pensare “altro”, provando innanzitutto ad afferrare tale originaria relazione con l’esterno non in termini razionali ma intuitivamente; che è come cominciare a intravedere – in una mossa anticipatoria circa la natura intuitiva di tale nozione – che lo spazio non è né «un concetto empirico, ricavato da esperienze esterne […], né un concetto discorsivo o, come si dice, universale dei rapporti delle cose in generale, ma una intuizione pura […] la quale sta a fondamento di tutte le intuizioni esterne»[19]; un’intuizione la cui realtà non può essere mai colta in se stessa, ma sempre attraverso «la percezione di un qualunque esistente»[20] o, per dirla nei termini del ’68, soltanto «dal comportarsi in opposizione agli altri corpi»[21].

E di più.

Lo sforzo di maturare una terza idea di spazio si evidenzia anche laddove emerge un accenno, certo vago ma non per questo meno chiaro, a quella che sarà la natura fenomenica di questo concetto e dello stesso ordine oggettivo-materiale che su esso si fonda. Ebbene, se nelle pagine della Critica Kant affermerà senza mezzi termini che le cose e la materia stessa sono fenomeni, privi di interiorità, proprio perché hanno lo spazio come una delle condizioni dello loro costituzione[22], qui leggiamo, similmente: «non le determinazioni dello spazio sono conseguenza delle posizioni reciproche delle parti della materia», ma queste, le «posizioni delle parti della materia»[23], non sono altro che conseguenze delle determinazioni di questo spazio assoluto che, evidentemente anche sotto questo punto di vista, mostra la sua distanza dagli assunti leibniziani e newtoniani e la sua sorprendente vicinanza al futuro spazio critico.

Ma non solo, perché, come pure si accennava in apertura, è qui possibile registrare una sorprendente vicinanza anche con la futura teorizzazione einsteiniana, evidenziando, ad esempio, un punto di contatto decisivo con quelle che saranno, di lì a poco più di un secolo, alcune fondamentali intuizioni del fisico tedesco.

Prima fra tutte, e come si è annunciato, quelle strutturanti l’innovante concezione di sistema di riferimento inerziale consegnate alla Relatività ristretta del 1905.

Infatti, di là o meno dal fatto se «Kant» abbia «preparato la strada» agli sviluppi einsteniani in fatto di «geometria non-euclidea»[24] giacché ha «compreso che il carattere necessario e universale della geometria euclidea non deriva dalla connessione empirica tra gli oggetti ma dalla costituzione soggettiva delle nostre capacità percettive»[25], il dato speculativo davvero significativo è consegnato alle considerazioni dello stesso Einstein. Quando cioè ha constatato – sebbene, poi, in maniera per certi versi autocritica in vista dell’estensione del postulato di relatività – nelle sue Osservazioni sulla teoria della relatività ristretta contenute nella Relatività generale del 1916, che:

la modificazione alla quale la teoria della relatività ristretta ha assoggettato la concezione dello spazio e del tempo è invero di vasta portata, ma un punto importante non è ancora stato sviscerato. Infatti le leggi della geometria, anche secondo la teoria della relatività ristretta, debbono venir interpretate direttamente come leggi che si riferiscono alle possibili posizioni relative ai corpi rigidi a riposo, e, più in generale, le leggi della cinematica debbono venir interpretate come leggi che descrivono le relazioni tra campioni di lunghezza e orologi. A due prefissati punti materiali di un corpo rigido fisso corrisponde sempre una distanza che ha un valore ben definito[26],

valore relativo, nel senso che dipende (relativamente) solo «dal luogo in cui si trova il corpo» e «dall’orientamento»[27].

Evidentemente qui Einstein mostra un elemento di assonanza ulteriore, che rende ancor più significativo l’appaiamento con la descritta prospettiva kantiana. Sarebbe a dire che, come per il filosofo di Königsberg, anche per il fisico tedesco, lo spazio empirico non dipende da una sovrastruttura metafisico-sostanzialistica ma è il portato di un profondo ripensamento della singolarità, intesa nell’un caso quale soggetto epistemico e nell’altro quale sistema di riferimento inerziale dislocabile. Come il primo, infatti, anche il secondo, si fondano in un’univocità del coordinamento (Eindeutigkeit der Zourdnung) che si riscopre reciprocamente fondata sull’unità di spazio e tempo intesi come funzioni strutturanti o, per meglio dire, strutturande una nuova comprensione della realtà. Detto in altri termini, in entrambi i casi avviene uno spostamento da uno spazio-sostanza a uno spazio-funzione, vero e proprio Metaprincipio[28] ed espressione di un nuovo modello epistemologico in cui a essere «invarianti non sono mai le cose»[29], ma le relazioni che stabiliamo, cioè i sistemi di riferimento variabile in cui si eseguono operazioni e misurazioni che certo, relative non stanno affatto «in contrasto con l’idea della costanza e dell’unità della natura, che, anzi, sono postulate e realizzate in nome di quest’unità»[30].

Modello questo di imprescindibile importanza per ogni riflessione che voglia ripensare fondamentali concetti filosofici alla luce di una visione diversa, capace di superare le antiche e ormai vetuste diatribe tra realismo e scetticismo.


 

[1] Cfr. I. Kant, Del primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio (1768), in Scritti precritici, tr. it. Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 411- 417.

[2] Id., Monadologia fisica (1756), in Scritti precritici, cit., p. 64.

[3] Id., Nuova dottrina del moto e della quiete e delle loro conseguenze rispetto ai primi principi della scienza naturale (1758), ibid., p. 81.

[4] Id., Del primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio, cit., p. 411.

[5] Ibid., p. 412.

[6] Traduco qui, seguendo gli studi di R. Meerbote – D. Walford, Kant. Theoretical Philosophy 1755-1770, Cambridge University Press, Cambridge 1993; e P. Rusnock – R. George, Snails rolled up contrary to all sens, in «Philosophy and Phenomenological Research», LIV, 1994, pp. 459-466, il termine tedesco Gegend non con la parola regione ma con il termine direzione.

[7] I. Kant, Del primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio, cit., p. 413 [la traduzione è leggermente modificata e il corsivo è mio].

[8] Ibid., p. 416.

[9] Ibid.

[10] Ibid., p. 415.

[11] Ibid., p. 416.

[12] Ibid.

[13] Ibid., pp. 416-417.

[14] Ibid., pp. 413-414.

[15] Ibid., p. 412.

[16] Id., Critica della ragion pura (1781 A, 1787 B), tr. it. Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 88-89.

[17] Id., Del primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio, cit., p. 417.

[18] Ibid.

[19] Id., Critica della ragion pura, cit., pp. 68-69.

[20] Ibid., p. 83.

[21] Id., Del primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio, cit., p. 417.

[22] Cfr. in particolare Id., Critica della ragion pura, cit., pp. 261-282.

[23] Id., Del primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio, cit., p. 417.

[24] S.R. Palmquist, The Kantian Grounding of Einstein’s Worldview: (I) The Early Influence of Kant’s System of Perspectives, in «Polish Journal of Philosophy», 4, 2010, pp. 45-64, in particolare, p. 49.

[25] Ibid.

[26] A. Einstein, I fondamenti della teoria della relatività generale (1916), in Le due relatività. Gli articoli del 1905 e del 1916, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino, 2015, pp. 33-94, in particolare, p. 34.

[27] Ibid.

[28] Il termine è preso in prestito da K. Thorne, Buchi neri e salti temporali. L’eredità di Einstein (1994), tr. it. Castelvecchi, Roma 2013, p. 79.

[29] E. Cassirer, La teoria della relatività di Einstein. Considerazioni gnoseologiche (1921), tr. it. Newton Compton, Roma 1981, p. 72.

[30] Ibid., p. 66.

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