S&F_scienzaefilosofia.it

Malattia mentale come disfunzione biologico-evolutiva: meccanismi neurali, attività pertinenti ed effetti selettivi

Autore


Elisabetta Sirgiovanni

New York University - Center for Bioethics

Elisabetta Sirgiovanni è FulLbright Research Scholar, New York University, Center for Bioethics

Indice


  1. La definizione di disturbo mentale come disfunzione
  2. Approcci biostatistici (BST)
  3. Approcci dell’effetto selettivo (SE)
  4. Meccanismi, funzioni e attività in una prospettiva evoluzionistica
  5. Conclusioni

↓ download pdf 

S&F_n. 16_2016

Abstract


Mental Illness as biological-evolutive Dysfunction: neural Mechanisms, pertinent Activities and selected Effects


In this paper I discuss the naturalistic and objectivist concept of mental illness as biological dysfunction. I argue for the so-called selected effect accounts, as alternative to bio-statistical accounts. In order to reply to accuses of normativism, particularly ethical one, I defend a minimalist account according to which the term "function" should be understood as, if not replaced by, the mechanistic-evolutionary expression “evolutionarily pertinent activity”.


  1. La definizione di disturbo mentale come disfunzione

Non esiste un consenso sulle specificazioni del concetto di malattia mentale e su quello, per così dire, provvisorio di disturbo. Il DSM-5, la nuova edizione 2013 del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali dell’Associazione Psichiatrica Americana[1] e testo ortodosso per la nosografia e la diagnosi nella psichiatria occidentale, su cui si riponevano speranze nel lungo periodo di compilazione, non ha chiarito la questione, ma ha piuttosto alimentato le già presenti confusioni concettuali[2]. È vero però che le dispute filosofiche sulle entità fondamentali delle discipline, anche all’interno delle discipline più rigorose come la fisica o la chimica, si tramutano spesso in neverending stories[3]. Così è anche per termini quali malattia e salute[4], disturbo, funzione/disfunzione nella medicina e tanto più nella psichiatria.

Il DSM si occupa esplicitamente di disturbi, di descrizioni comportamentali, e di sindromi, cioè di insiemi di sintomi e segni clinici co-occorrenti, ma non di malattie, ovvero di condizioni dall’eziopatologia nota, poiché come noto in psichiatria la maggior parte delle condizioni è ancora oggetto di ricerca. L’approccio del DSM, un approccio ateoretico e descrittivo alla psicopatologia, «l’atteggiamento empirico della osservazione e della sistematizzazione di ciò che appare»[5], è stato conservato nel DSM-5, dove alcuni biomarcatori sono menzionati per alcune categorie diagnostiche, ma secondo qualcuno come meri «adornamenti pseudo-scientifici»[6].

Eppure il DSM, per quanto si presenti acausale, sposa una cosiddetta concezione delle syndromes with unity[7], secondo cui le categorie definite a partire dall’osservazione sarebbero in grado di identificare processi patologici sottostanti, e non semplici costrutti. Concezione criticabile[8], se si considera che la storia della medicina è ricca di casi in cui quadri sintomatologici comuni si sono rivelati in seguito manifestazione di patologie diverse e di casi in cui quadri sintomatologici diversi sono stati ricondotti a unica patologia perché accomunati da una stessa causa. A caratterizzare, tuttavia, la definizione di disturbo sin dalla sua introduzione è una sorta di concezione meccanicistica ingenua per cui al disturbo corrisponderebbe una disfunzione di un qualche meccanismo sottostante.

L’idea di disturbo mentale come manifestazione di una disfunzione sottostante compare sin dal DSM-III[9], il primo DSM, per volontà di Robert Spitzer[10], a definire il termine “disturbo”, senza tuttavia chiarire il termine “disfunzione”:

In D.S.M-III each of the mental disorders is conceptualized as a clinically significant behavioral or psychological syndrome or pattern that occurs in an individual and that is typically associated with either a painful symptom (distress) or impairment in one or more important areas of functioning (disability). In addition there is an inference that there is a behavioral, psychological, or biological dysfunction, and that the disturbance is not only in the relationship between the individual and society (corsivo aggiunto).

Questa la definizione più recente e leggermente rivista di disturbo mentale[11], che compare nel DSM-5[12]:

A mental disorder is a syndrome characterized by clinically significant disturbance in an individual’s cognition, emotion regulation, or behavior that reflects a dysfunction in the psychological, biological, or developmental processes underlying mental functioning. Mental disorders are usually associated with significant distress or disability in social, occupational, or other important activities. An expectable or culturally approved response to a common stressor or loss, such as the death of a loved one, is not a mental disorder. Socially deviant behavior (e.g., political, religious, or sexual) and conflicts that are primarily between the individual and society are not mental disorders unless the deviance or conflict results from a dysfunction in the individual, as described above (corsivo aggiunto).

Il termine disfunzione compare ben due volte nella nuova definizione, ma senza nuovamente alcuna chiarezza.

In questo articolo mi concentrerò sui due modi di intendere il concetto di malattia mentale in filosofia della psichiatria in relazione a quello di “disfunzione biologica” in filosofia della biologia, ovvero confronterò, nella terminologia del dibattito specialistico[13], i cosiddetti approcci biostatistici con gli approcci dell’effetto selettivo. Gli approcci biostatistici o BST[14] complessivamente ritengono che la malattia sia una disfunzione in termini di mancato contributo di un tratto o di un insieme di tratti organizzati (meccanismo) alla sopravvivenza e riproduzione (fitness) future del fenotipo, e che la disfunzione sia quindi una deviazione, descrivibile statisticamente, da una norma identificativa e tipica dei membri della classe di riferimento. Tale norma è intesa in senso disposizionale-sistemico[15], cioè come il contributo causale che il tratto o meccanismo svolge all’interno del sistema-organismo, in quanto orientato a uno scopo evolutivo o design. Gli approcci dell’effetto selettivo o SE[16] ritengono invece che la disfunzione sia il mancato effetto “proprio”, o meglio pertinente, per cui un tratto o meccanismo di un organismo è stato selezionato dalla selezione naturale potenziandone la fitness; è quindi una concezione storico-eziologica focalizzata sulla storia causale che ha portato alla selezione di quel tratto o meccanismo in un dato ambiente tra quelli disponibili.

Tratterò dunque la questione nel solo ambito della definizione naturalistica e oggettivista di malattia (cfr. Fig. 1) che fa capo al modello medico di psichiatria[17], per quanto alcune considerazioni riguardo al normativismo compariranno nel paragrafo conclusivo. Secondo il modello medico, la psichiatria è una neuroscienza clinica[18], per cui la malattia mentale è manifestazione di problemi che insorgono nelle attività dei meccanismi del cervello a vario livello (genetico-molecolare, neuronale, reti neuronali, aree cerebrali) o meccanicismo forte[19].

Figura 1. Schema riassuntivo delle concezioni di malattia nel dibattito filosofico-psichiatrico.

Entrambi gli approcci della disfunzione biologica in psichiatria rimandano a una epistemologia medica di tipo evoluzionistico[20], che ha costituito una delle proposte nosografiche nel corso della redazione dell’ultimo DSM[21]. In breve, una tassonomia psichiatrica evoluzionistica[22] avrebbe previsto di distinguere condizioni psichiatriche generate da vere e proprie rotture o danni di meccanismi neurali specifici (breakdown) (allucinazioni, deliri, deficit di vario genere, ecc.), da condizioni che possono essere effetto dell’evoluzione biologica, ad esempio generate dalla dissonanza tra l’ambiente contemporaneo e l’ambiente in cui il meccanismo è stato selezionato (mismatch) (come forme di ansia o depressione) o dalla persistenza adattiva di meccanismi nell’ambiente contemporaneo (persistence) (i disturbi di personalità sono stati interpretati in questo senso). Tale proposta è stata ignorata dal DSM-5, che pure vanta di aver inserito, seppure in modo accessorio, considerazioni concernenti la genetica e le neuroscienze nella descrizione di alcuni disturbi.

  1. Approcci biostatistici (BST)

Prima di addentrarsi negli approcci biostatistici, occorre fare alcune precisazioni di carattere teorico. Gli approcci biostatistici sono volti a definire il termine malattia, non quello fenomenico di disturbo, peraltro nella sua connotazione oggettivistica (disease), ovvero corrispondente a un processo patologico di tipo fisico, e non a quella soggettivistica (illness), che si riferisce alle dimensioni soggettive esperite dal paziente, come ad esempio i sintomi[23]. Come fanno notare alcuni autori[24], la caratterizzazione oggettivistica del termine disease è recente perché in realtà, la parola viene da dis-ease cioè mancanza di conforto, sollievo, un senso quindi soggettivistico che si è poi convertito in quello oggettivistico. Inoltre, per quanto le considerazioni dei bio-staticistici siano applicabili e siano state volte da questi stessi autori alla psichiatria, nascono originariamente in riferimento al concetto generico di malattia per la medicina in generale. Infine, queste posizioni si configurano in netta antitesi e in risposta agli approcci antipsichiatrici[25] e costruttivisti[26] di quegli anni, in particolare riguardo a due fondamentali critiche circa il realismo della malattia mentale (esiste la malattia mentale?)[27] e al normativismo (dire malato implica dire sbagliato o cattivo?)[28].

Robert Kendell[29] ha difeso una concezione bio-statistica secondo cui il criterio per distinguere tra una malattia e mere deviazioni dalla norma sia lo “svantaggio biologico”, un criterio che guarda alle conseguenze e non agli antecedenti della malattia. L’idea dello svantaggio biologico, criterio già precedentemente proposto[30] ma non elaborato precisamente, ha un’ispirazione evoluzionistica, seppur grossolana: la malattia sarebbe un insieme di caratteristiche manifestate da un organismo (o da più organismi), che differisce dalla norma della sua specie perché lo mette in una posizione biologicamente svantaggiosa, ovvero gli causa maggiore mortalità e diminuita fertilità.

L'approccio bio-statistico alla malattia di Kendell deriva da due considerazioni fondamentali. In primo luogo, la convinzione che tutti gli approcci alla malattia presuppongano un qualche concetto di deviazione per eccesso o difetto da un modello standard o norma, perfino il concetto di malattia come lesione (anatomica, fisiologica, o biochimica), solitamente inteso come alternativo a quello di malattia come deviazione da una norma statistica, perché anch'esso comporta la distinzione tra variazioni di strutture fisiche nella norma e variazioni di strutture fisiche fuori dalla norma e dunque finisce con il confluire in un quesito di tipo statistico. In secondo luogo, Kendell si preoccupa di rispondere a obiezioni riguardanti sia il concetto di malattia come lesione che quello statistico in senso stretto[31]. In breve, intendere la malattia come lesione non consentirebbe di includere condizioni di cui non è osservabile chiaramente la base fisica e dunque condizioni identificate molto recentemente nella storia medica come per esempio le malattie metaboliche e genetiche, o quelle causate da virus con HIV, la cui azione è diventata osservabile solo negli anni Settanta del Novecento, e che sarebbero state espulse da una tale definizione e da interesse di tipo medico; non permetterebbe di distinguere tra condizioni poco rilevanti e condizioni paralizzanti come tra albinismo e oligofrenia fenilpiruvica, entrambe malattie metaboliche tra cui solo la seconda con gravi conseguenze quali il ritardo mentale. Dal canto suo, l’approccio meramente statistico non consentirebbe di distinguere tra deviazioni dannose (ad es. ipertensione), normali (altezza) e positive (intelligenza superiore alla media).

L’identificazione della malattia nello svantaggio biologico in termini di mortalità e infertilità non poggia su dati solidi ed è scarsamente applicabile alla psichiatria: i malati mentali non risultano meno fertili rispetto alla popolazione generale; le malattie mentali non riducono necessariamente, anche se lo fanno indirettamente, l’aspettativa di vita, e c’è chi teorizza che alcune psicosi diano dei vantaggi sul piano della numerosità della prole. È insomma una concezione soggetta a numerosi controesempi: casi in cui una persona può essere genuinamente malata senza che ciò metta in pericolo la sua vita o la sua fertilità, o casi in cui una persona può essere in pericolo di mortalità e infertilità senza avere patologia alcuna. Peraltro, la questione dell’evoluzione viene toccata da approcci di questo tipo in modo molto approssimativo. La psichiatria evoluzionistica, come accennato, conduce oggi ad affermazioni proprio nella direzione contraria, e cioè che i disturbi mentali non erano o non sono necessariamente svantaggi, ma possono essere perfino vantaggiosi per l’individuo in certe condizioni ambientali.

Secondo Christopher Boorse[32] occorre trovare una definizione oggettivistica di malattia (disease), in cui i giudizi di valore non svolgano alcun ruolo, per distanziare le diagnosi di malattia dalle accuse di celare insitamente giudizi morali o di valore (value-laden) o di disapprovazione[33]. Per Boorse, le malattie sono «deviazioni dal progetto biologico delle specie»[34], ma in un senso diverso da quello delineato da Kendell. In particolare, è Boorse ad aprire a una tradizione, quella delle teorie della disfunzione, con una teoria (bio)funzionale della malattia, che chiamerà successivamente in modo esplicito teoria biostatistica (BST)[35], proprio perché corregge la teoria statistica (come in realtà faceva anche quella di Kendell ma senza riferirsi alla “funzione”). Secondo Boorse, una definizione di malattia deve servirsi di concetti quali funzione e direzionalità rispetto agli scopi, come in uso nella biologia contemporanea. La norma che deve servire da criterio per definire un fenomeno come una malattia è secondo Boorse non quella statistica ma l’abilità funzionale, la capacità di un meccanismo o di un sistema di meccanismi di un organismo di «eseguire tutte le sue normali funzioni in tipiche occasioni con almeno efficacia tipica», mentre la malattia sarebbe «un tipo di stato interno che danneggia la salute, cioè riduce una o più abilità funzionali sotto l’efficienza tipica»[36]. In tal modo Boorse ha preteso di definire due concetti opposti quali salute/malattia di una classe referente (la classe naturale degli organismi con un design funzionale) attraverso un criterio di norma (la funzione normale). Per chiarire, se salute vuol dire funzione rispetto a un design, malattia vuol dire disfunzione rispetto allo specifico design che definisce la funzione. Ma cosa vuol dire “normale”, cosa vuol dire “tipico”? Per Boorse vuol dire «contributo statisticamente tipico del meccanismo alla sopravvivenza e riproduzione»[37]. E inoltre: cosa significa “funzione”? Boorse sposa la posizione per cui la funzione è una direzionalità verso uno scopo[38], ovvero qualsiasi cosa un sotto-sistema fa per raggiungere uno scopo a cui il sistema cui appartiene è orientato. In particolare, attribuire una funzione corrisponde ad asserzioni circa le disposizioni del sistema e serve a rispondere a interrogativi sulla regolarità simil-nomologica di tale sistema (nei termini dell’approccio covering-law o nomologico-deduttivo[39]), cioè serve a capire a quali leggi il sistema risponde e a quali scopi tende, e quindi a produrre descrizioni caratterizzanti. Il concetto di «scopo» (goal) è centrale in questa concezione e differenzia concezioni teleologiche come questa da quelle eziologiche che esamineremo nel paragrafo successivo. Se il tratto o meccanismo in questione (ad esempio un meccanismo del cervello), non persegue lo scopo che lo definisce, allora è ritenuto «malato»[40].

Questo tipo di concezione incontra obiezioni che provengono dall’approccio concorrente[41]. La nozione di scopo risulta inadeguata perché descrive comportamenti degli organismi e non gli organismi stessi, e funzioni e scopi danno risposte a due domande diverse. L’esempio di Wright è quello del plancton che varia la sua distribuzione sulla superficie dell’acqua di giorno: lo scopo di questa attività è mantenere l’intensità della luce costante nel loro ambiente ma la funzione è, grazie a questo comportamento, rifornirsi di ossigeno. La funzione non è quindi qualcosa di deducibile dalla mera osservazione del comportamento occasionale di un sistema, come quando è consapevolmente istillato da un progettatore nella costruzione di dispositivi, ma risponde a un perché di natura. Anzitutto, il rischio di questo approccio è di identificare come funzione un contributo contingente, perché non consente di differenziare i contributi accidentali da contributi non accidentali allo scopo del sistema. Boorse[42] risponde a quest’obiezione con l’idea di tipicità della classe referente, intesa come serie di tratti caratteristici di individui della stessa specie, sesso, e età. Una serie di controesempi[43] tuttavia sembrano invece chiarire che la classe referente dovrebbe essere definita a seconda dei casi e riferirsi anche a etnia (i Masai sono sensibili all’ormone della crescita e i pigmei no), ad ambiente (individui che vivono in climi freddi si adattano differentemente da individui in climi caldi) o tipi di addestramento (gli atleti hanno battito cardiaco più basso della popolazione generale), e che dunque questo approccio funzionerebbe al massimo con classi estremamente piccole e variabilmente definite, il che lo rende decisamente impraticabile.

  1. Approcci dell’effetto selettivo (SE)

Gli approcci dell’effetto selettivo, o meglio “selezionato” o SE (selected effect)[44] ritengono che la funzione naturale di un tratto o meccanismo siano i suoi effetti selezionati naturalmente e non il contributo, statisticamente prevalente nella popolazione, allo scopo cui il sistema tende. Per comprendere qual è la funzione di un tratto o di un meccanismo occorre, secondo i sostenitori di quest’approccio, spiegarne l’origine evolutiva in una data popolazione, e cioè identificare gli effetti di quel tratto o meccanismo che hanno prodotto un potenziamento della fitness e che proprio per questo motivo sono stati favoriti dalla selezione naturale. In questo senso, la visione cosiddetta eziologica spiega la presenza della funzione: il cuore è lì per far circolare il sangue ed è stato preferito tra i possibili sistemi disponibili in natura, quindi selezionato, perché faceva circolare il sangue; altrimenti non sarebbe lì. E così i nostri meccanismi cerebrali. La disfunzione (“non funziona”) o malfunzione (“funziona male”) di un meccanismo che ne deriva è «il fallimento o inadeguatezza (deficiency) di un organo nel fare ciò per cui è causalmente diventato parte del nostro equipaggiamento attraverso la selezione naturale»[45]. Più che al modello covering-law di Hempel-Oppenheim, questi approcci si rifanno a concezioni della spiegazione causale di tipo costitutivo[46] che criticano il modello nomologico-deduttivo. E rispetto a prediligere descrizioni volte al futuro (forward-looking), tendono piuttosto a guardare al passato della selezione del meccanismo (backward-looking).

Gli approcci dell’effetto selettivo sono interessati alla funzione “propria”[47], o sarebbe meglio tradurre pertinente, a quelle passate occorrenze del sistema tipico, prodotto attraverso i vantaggi riproduttivi dalla selezione naturale, che danno conto delle sue presenti occorrenze, e non alle sue disposizioni o proprietà presenti, che potrebbero indurre in errore nel tentativo di produrre una spiegazione. Il concetto di selezione naturale è centrale in questa concezione. La funzione pertinente è definita in modo ricorsivo, nel senso che per un sistema A avere la funzione F occorre che A sia stato originato dalla “riproduzione” o come prodotto di qualche altro sistema che eseguiva F in passato (replicazione), e A esiste grazie a questa o queste F[48]. La funzione sarebbe quindi purpose, nel senso di effetto, non goal, per cui quel tratto o meccanismo è stato selezionato naturalmente, senza che ciò implichi concettualmente un qualche grado di intenzionalità, come invece il concetto di disposizione.

Millikan costruisce la sua concezione in modo volutamente alternativo a quella di Cummins, che giudica pretenziosa nell’applicarsi a tutti i domini delle scienze prendendo come esemplare l’ingegneria. In realtà, costatare che la nozione di funzione ha significati ben diversi nei differenti domini disciplinari e che ciò ingenera non poche confusioni[49] è forse controproducente per cercare di trovare una nozione di funzione che abbia un unico significato in tutte le discipline, perché il senso che interessa la medicina, includendo la psichiatria, è quello biologico[50]. Come sottolineato da Millikan, la biologizzazione del concetto di malattia (anche mentale) avrebbe scarso risultato se tale concetto venisse ricorsivamente definito attraverso un altro concetto, quello di (dis)funzione, che a sua volta non è biologizzato. Chiaramente nella medicina, in particolare, il concetto ha un senso fattualmente difettivo, ma ciò non significa che debba essere inteso in modo netto, ammettendo versioni dimensionali e soprattutto “casi borderline”.

Identificare l’effetto selettivo sulla fitness, cioè la replicazione differenziale di geni in generazioni successive, permette di classificare nella medicina evoluzionistica effetti vantaggiosi (adattamenti) e non vantaggiosi (maladattamenti). La centralità dell’adattamento in questa prospettiva è esplicita[51]. Tuttavia ciò non vuol dire che si parli di adattamenti ottimali e che si concentri sui soli adattamenti, ma che li comprende come una delle opzioni esplicative possibili. Alcuni autori ad esempio obiettano che questa prospettiva non tenga conto degli esattamenti (exaptation)[52] o di spandrel e vestigi[53], ovvero nel primo caso di tratti o meccanismi co-optati a svolgere funzioni diverse da quella per cui sono stati inizialmente selezionati, nel secondo caso di veri e propri effetti secondari accidentali di un processo di selezione altro, nel terzo caso di tratti o meccanismi che avevano una funzione in passato ma l’hanno perduta nel presente[54]. È possibile rispondere che «i passati esattamenti hanno esercitato pressione selettiva nel mantenere meccanismi nella popolazione e dunque sono parte del perché i meccanismi esistono oggi»[55], mentre che fallimenti di puri spandrel, cioè di tratti che non implicano alcuna funzione selezionata naturalmente, non dovrebbero essere intesi come malattie mentali (l’analfabetismo per mancanza di opportunità di educazione non può ritenersi una malattia mentale), come anche i fallimenti di meccanismi vestigiali per i quali in molti casi ci sono errori in termini di livelli meccanicistici di spiegazione (ad esempio l’infiammazione dell’appendice, un organo vestigiale, è a carico dei suoi tessuti e non dell’appendice stessa)[56].

I modelli evoluzionisti della malattia mentale[57] sono almeno di tre tipi e tengono conto del fatto che la selezione naturale è il principale ma non unico processo che interviene nell’evoluzione, comprendendo invece anche mutazioni e derive genetiche casuali[58]. I modelli strettamente adattamentisti suggeriscono che una condizione che definiamo psichiatrica può essere il risultato di un adattamento di un tratto o meccanismo a un certo ambiente e dunque implicare dei benefici per gli individui che ne sono in possesso; questo comporta comunque un certo numero di compromessi (trade-off) di vario genere, sia in termini di risorse impiegate e di vincoli di tempo che in termini di effetti di rimando su altri tratti o meccanismi, come descritti dalle teoria della Life History (LH). Tra i modelli adattamentisti ci sono modelli della selezione stabilizzante (balancing selection), secondo cui alcuni tratti o meccanismi (ad esempio alcuni tratti del disturbo di personalità antisociale) sono stati selezionati o perché offrono un vantaggio di fitness nei termini di successo dell’individuo nell’accoppiarsi, dominanza sociale e guadagno delle risorse in specifici ambienti, oppure sulla base della loro bassa frequenza in alcuni ambienti che ne garantirebbe gli effetti vantaggiosi (frequency-dependent). Altri modelli adattamentisti sono quelli condizionali o del cambiamento contingente (contingent shift), per cui tratti o meccanismi sono adattivi in risposta a cambiamenti contingenti nelle condizioni fisiche o sociali o nelle proprie caratteristiche fenotipiche ereditabili. Esistono poi modelli che ritengono vi sia un carico di mutazioni (mutation load) di tratti o meccanismi propriamente deleteri dagli antenati per molte generazioni. Il concetto cruciale di selezione naturale non è in queste spiegazioni inserito, come molti credono, in modo ingenuo, ma tiene conto nelle varie ipotesi esplicative che possono emergere dalle sfaccettature della teoria contemporanea dell’evoluzione.

Non sembrano di successo i tentativi di unire le due definizioni di funzione, quella disposizionale-teleologica e quella storico-eziologica, ad esempio attraverso il concetto di design o progetto, secondo cui «la funzione di un’entità S è ciò che S è progettato a fare»[59], per quanto inteso in senso evoluzionistico come azione della selezione naturale e dunque non intenzionale, ovvero senza la presenza consapevole o no di un designer. La lunghezza delle orecchie della lepre contribuisce alla termo-regolazione del corpo dell’animale ed è stata selezionata per questo, a detta di Kitcher, dunque la funzione della lunghezza delle orecchie della lepre è la termo-regolazione. Quello del design è tuttavia una metafora, di cui le spiegazioni evoluzionistiche talvolta si servono, ma occorre tenere ben presente che l’evoluzione non ha affatto progetti, non determina progressi né miglioramenti se non in termini di successo riproduttivo, e soprattutto non tende all’ottimalità. Il termine design indica tutti quei processi che portano alla selezione di tratti che hanno mostrato di promuovere l’adattività all’ambiente[60]. Dire che l’ippocampo si è evoluto per la memoria, o che l’area visiva primaria (area 17) si è evoluta per la visione, può far dimenticare che il processo di selezione naturale è un processo progressivo e cumulativo nel tempo di tratti (cd. gradualismo) che portano nel loro insieme alla formazione di strutture che sono tutt’altro che “progettate”, tantomeno con “uno scopo”, e che non sono immutabili. La selezione di questi tratti non mira alla funzione o al miglior funzionamento del sistema, ma dipende dalla fitness, la qual cosa è ben diversa perché implica che meccanismi non funzionanti o malfunzionanti, come raramente ci aspetteremmo sul piano ingenuo, siano selezionati perché incrementano la fitness. Inoltre, tratti selezionati perché incrementavano la fitness grazie al fatto che possedevano alcune caratteristiche e che eseguivano certe prestazioni, possono essere trasmutati nell’esecuzione di altri tipi di prestazioni, perché ad esempio inseriti in una rete di altri tratti che vanno a formare strutture deputate ad altro rispetto a ciò che li ha portati a essere selezionati. L’evoluzione ha inoltre grossi limiti: le nostre strutture (mnemoniche, visive e quant’altro) non sono perfette, anzi specie ritenute inferiori nella scala evolutiva possiedono strutture ben più raffinate delle nostre (ad esempio molti insetti vedono meglio di noi). Esistono poi una serie di processi che intervengono a limitarne lo spettro d’azione: derive genetiche casuali, tassi di mutazioni variabili, retroazioni, leggi fisiche, e perfino il caso o gli incidenti nel processo. Un tratto potrebbe dunque essere il risultato della selezione naturale senza che siano stati gli effetti di quel tratto a esser selezionati: saremmo di fronte a una semplice “selezione di qualcosa” e non a una “selezione per qualcosa”. Il punto è che la selezione biologica naturale non è onnipotente bensì pragmatica, orientata cioè dal risultato. E soprattutto la selezione naturale non è assoluta: non guarda alla scelta migliore in assoluto, ma alla scelta relativa, trattiene tra ciò che è disponibile ciò che produce il risultato anche leggermente più efficace ai risultati prodotti dal resto. Se sottoposta alla scelta tra due opposte alternative, essa è portata a prediligere l’alternativa che si adatterà anche di poco meglio a quel determinato contesto. Ma, poiché la selezione naturale seleziona in base agli effetti, se due meccanismi, l’uno che esegue il compito A e l’altro che esegue il compito B, producono gli stessi effetti, la selezione naturale non sarà in grado di effettuare alcuna scelta. La natura pragmatica della selezione biologica fa sì che l’elemento discriminante che le permette la scelta sia l’effetto prodotto dal meccanismo e non una particolare caratteristica del meccanismo in oggetto. A determinare la scelta non saranno poi i soli effetti esterni (ciò che il tratto fa in relazione all’ambiente) ma anche gli effetti interni (come il tratto opera dal punto di vista del processo interno). Un programma genetico ad esempio è più adatto di un altro se, a parità di condizioni, gli abbinamenti input-ouput che esso produce tendono in modo migliore (in senso relativo, non assoluto) alla sopravvivenza e alla riproduzione. In secondo luogo, un buon programma genetico raggiungerà il suo scopo in modo economico, senza un dispendio di memoria, energia o di altre risorse interne all’organismo, senza tendere al benessere, né alla verità, ma promuovendo adattamenti. Forse l’unità tra le due concezioni non è neanche particolarmente utile[61]. Prendiamo l’esempio di una sequenza mutante di DNA che contribuisce allo sviluppo di un tumore[62]: qualcosa va storto e questa sequenza comincia a produrre cellule cancerogene. Se la sequenza era designata (evolutivamente) a produrre cellule di un certo tipo ma finisce con il produrle cancerogene secondo gli approcci SE[63] produrre un cancro è una malfunzione, ma secondi gli approcci BST[64]questa sarebbe una disposizione di quel sistema e dunque manifestazione prevista di una sua funzione.

L’idea che il significato di funzione come inteso dagli approcci dell’effetto selettivo colga meglio quello delle neuroscienze[65] non è talora del tutto condiviso. Spesso medici e neuroscienziati lavorano con definizioni provvisorie che concernono maggiormente lo scopo nel senso dei biostatistici e non l’effetto selettivo[66]. Ciò determina un pluralismo nelle scienze medico-biologiche[67], visto che queste due spiegazioni sembrano rispondere a due interrogativi differenti del come (funzionale) e del perché (evolutivo) nella tradizionale distinzione di Ernst Mayr[68] e che si possono enunciare funzioni proprie senza avere consapevolezza della storia evolutiva del sistema, perché non sempre ne siamo impossesso (l’esempio comune nel dibattito è quello di Harvey che nell’annunciare la funzione del cuore non sapeva nulla di selezione naturale[69]). Queste considerazioni non intaccano tuttavia il senso filosofico di questa discussione.

La scienza è un processo progressivo di ipotesi provvisorie. Qui si sta discutendo cosa indichi in senso profondo il concetto di funzione e sarebbe triviale ritenere che in ogni stadio della conoscenza biomedica si possegga concretamente una spiegazione funzionale propriamente corretta. In secondo luogo, interesse di questa diatriba è comprendere come meglio caratterizzare all’interno delle neuroscienze cliniche i meccanismi neurali per comprenderne patologie e disturbi, come anche per differenziare tra condizioni effettivamente patologiche e condizioni che sono invece frutto di dissonanza o persistenza evolutiva. Se anche esistono sensi utili di funzione in biologia meramente descrittivi dell’operare di un meccanismo qui e ora[70], le considerazioni esposte cercano di rispondere al problema di determinare cosa costituisce malattia, e cioè un fallimento del meccanismo in senso pertinente, e per quanto il senso disposizionale di funzione non precluda il senso di malfunzione è molto meno chiaro e più problematico a riguardo[71].

 

  1. Meccanismi, funzioni e attività in una prospettiva evoluzionistica

Dopo queste discussioni e avendo espresso una predilezione per l’approccio dell’effetto selettivo, mi sembra di interesse concludere con alcune osservazioni riguardo a un’annosa diatriba in psichiatria, che potrebbe trovare soluzione attraverso nuove scelte di tipo terminologico, che a mio parere dovrebbero essere di tipo minimale. La diatriba è quella che vede la dicotomia funzione/disfunzione prestarsi ad accuse di normativismo etico.

Per alcuni autori, la caratterizzazione del funzionare bene o male di un meccanismo, come il concetto di fallimento o il prefisso dis- non sarebbero affatto descrittivi ma piuttosto il frutto di un accordo sociale che implicitamente esprimerebbe una discriminazione tra ciò che è ammissibile e ciò che non lo è moralmente, portandosi dunque all’interno giudizi di valore equivoci e discutibili[72]. Sono state tentate diverse risposte. Boorse, come già sopra menzionato, fa notare che il piano del normativismo valoriale e quello della norma statistica sono due piani diversi perché il secondo non intende portare con sé alcun giudizio etico riguardo a quanto intende affermare fattualmente. Tuttavia, la debolezza dell’approccio statistico emerge se si considera che la maggiore prevalenza nella popolazione di un tratto o meccanismo non è sufficiente prova del fatto che questo non sia espressione di un processo patologico (in una popolazione con prevalenza di cechi, seguendo Boorse, la cecità non sarebbe una patologia). E quindi, se standard o soglie vanno stabiliti convenzionalmente, l’idea che l’accordo sociale possa celare un normativismo di tipo etico permane. Altra celebre proposta è quella di Jerome Wakefield[73] che si è battuto per l’inclusione nel DSM di una definizione di disturbo mentale come disfunzione dannosa, cercando di aggiungere esplicitamente una componente valoriale a quella oggettiva. Il danno però non sembra caratterizzare tutte le condizioni psichiatriche, perché alcune di esse possono persino rivelarsi vantaggiose in termini evolutivi, ad esempio favorendo tratti che risultano adattivi perfino nell’ambiente contemporaneo; e in realtà le critiche dei normativisti permangono perché rivolte al concetto di disfunzione stesso.

Un termine minimale per indicare ciò che chiamiamo ambiguamente funzione nelle scienze medico-biologiche è attività[74]. Una percorribile strategia per evitare confusioni sarebbe quindi quella di abbandonare il termine funzione, che si presta a confusioni normativiste (bene/male), in favore di questo suo corrispondente minimale, attività, visto che la funzione è semplicemente ciò che un meccanismo fa, come agisce, e quando non lo fa possiamo pensare di essere in presenza di un problema a carico del meccanismo[75], senza che questo implichi un giudizio valoriale. Il termine attività è un termine attinente alle spiegazioni meccanicistiche delle neuroscienze[76], nelle quali il meccanismo (neurale) è inteso come un sistema organizzato di entità e attività[77] o in altra terminologia di parti componenti e loro operazioni[78]. Per dare conto di quando il meccanismo lavora o non lavora pertinentemente alla sua storia evolutiva e della distinzione tra accidente/funzione, però, occorre che le attività descritte del meccanismo o di una sua parte siano attività evolutivamente pertinenti, ovvero identificate come gli effetti di un processo selettivo che ne giustifica la presenza, tenuto conto di quanto detto precedentemente e preferendo la traduzione libera e minimale dell’espressione di Ruth Millikan proper function con “attività pertinente” per evitare che possa essere data al termine “proprio”, e al suo contrario “improprio” un’accezione etica. Questa posizione è diversa da quella di Karen Neander[79] che ritiene che le spiegazioni di tipo minimale siano diverse da quelle della funzione propria o dell’effetto selettivo, per quanto Neander faccia notare che il senso minimale di attività non sia colto dagli approcci che prediligono sensi disposizionali di funzione, come quelli biostatistici.

Ho accennato che in una cornice meccanicistica-evoluzionistica le condizioni che chiamiamo psichiatriche sono classificabili in tre tipologie esplicative: rottura di un meccanismo neurale (breakdown), dissonanza con l’ambiente evolutivo (mismatch) e persistenza adattiva (persistence). Queste spiegazioni non necessitano dell’utilizzo del termine funzione, ma possono essere rese in termini minimali dal termine attività e dai suoi prefissi, a esclusione del prefisso dis- che sembra contenere l’idea di disvalore e implica intenzionalità. Per dirne alcuni, il primo caso descrive condizioni psichiatriche che corrispondono a attività evolutivamente non pertinenti del meccanismo o di una sua parte, per cui i meccanismi potrebbero dirsi inattivi (totale), ipo-attivi o semi-attivi (parziale), iper-attivi, o attivi in modo evolutivamente non pertinente ma avrebbe poco senso chiamarli dis-attivi, visto che “disattivare” è un termine che implica la presenza di un progettista esterno. Gli altri due casi descrivono condizioni che corrispondono a qualche meccanismo adattivo in passato o persistentemente, cioè che agisce pertinentemente, come predisposto dell’evoluzione, ma in un ambiente mutato rispetto a quello in cui è stato originariamente selezionato, o ha attività che risultano adattive anche in ambienti contemporanei. Negli ultimi due casi, per quanto ci troviamo di fronte a condizioni dolorose per chi ne è affetto (illness), non siamo in presenza di genuine patologie (disease).

Poiché il termine funzione si porta dietro un carico concettuale dettato dalla tradizione, da diverse concezioni di funzionalismo e di spiegazione funzionale nelle varie discipline, oltre che accuse di normativismo, sostituirlo e caratterizzarlo in modo minimale sebbene con connotazioni evoluzionistiche aiuterebbe forse le scienze biomediche, compresa la psichiatria, a sciogliere alcune delle confusioni concettuali che la affliggono.

 

  1. Conclusioni

In questo articolo, senza pretesa di esaustività, ho presentato il dibattito sulla definizione naturalistica e oggettivista di malattia mentale come disfunzione biologica-evolutiva, difendendo le ragioni di un approccio dell’effetto selettivo. Ho suggerito la necessità di utilizzo di terminologie minimali perché non insorgano confusioni concettuali circa l’utilizzo del termine funzione nei vari ambiti disciplinari e nel senso comune, che favoriscono critiche dal fronte normativista. La scelta del minimalismo terminologico, unita alle considerazioni storico-eziologiche, consentono di caratterizzare la malattia mentale come attività evolutivamente non pertinente di un meccanismo neurale e includono la possibilità di estendere la tassonomia ad altre tipologie di spiegazioni evoluzionistiche, dalla psichiatria evoluzionistica e ignorate dalla classificazione corrente.

 

 


[1] American Psychiatric Association, Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders (5th ed.), American Psychiatric Publishing, Arlington VA 2013, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2014.

[2] J. C. Wakefield, Diagnostic Issues and Controversies in DSM-5: Return of the False Positives Problem, in «Annual Review of Clinical Psychology», 12, 2016, pp. 105–132.

[3] A. De Block, Why mental disorders are just mental dysfunctions (and nothing more): some Darwinian arguments, in «Studies in History and Philosophy of Biological and Biomedical Sciences», 39 (3), 2008, pp. 338-346.

[4] Cfr. G. Corbellini, Storie e teorie della salute e della malattia, Carocci, Roma 2014.

[5] American Psychiatric Association, Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders, 4th edition Text Revision (DSM-IV-TR), American Psychiatric Press, Washington 2000, tr. it. Masson, Milano 2002, p. XV.

[6] S.A. Kirk, D. Cohen, T. Gomory, DSM-5: The Delayed Demise of Descriptive Diagnosis, in The DSM-5 in Perspective Philosophical Reflections on the Psychiatric Babel, a cura di S. Demazeux, P. Singy, Springer, Dordrecth 2015, p. 65, n. 3.

[7] J. Poland, B. Von Eckardt, W. Spaulding, Problems with the DSM Approach to Classifying Psychopathology, in Philosophical Psychopathology, a cura di G. Graham, G.L. Stephens, MIT Press, Cambridge, M 1994, p. 241.

[8] R.E. Kendell, The concept of disease and its implications for psychiatry, in «British Journal of Psychiatry», 127, 1975, pp. 305-315.

[9] American Psychiatric Association, Diagnostic and statistical manual of mental disorders, 3rd edition (DSM-III), American Psychiatric Press, Washington 1980, p. 6.

[10] R.L. Spitzer, J. Endicott, Medical and mental disorder: proposed definition and criteria, in Critical issues in psychiatric disorder, a cura di R.L. Spitzer, D.F. Klein, Raven Press, New York 1978, pp. 11–40.

[11] M.B. First, J.C. Wakefield, Defining “mental disorder”, in DSM-V, in «Psychological Medicine» 40, 11, 2010, pp. 1779–82.

[12] A.P.A., cit., 2013, p. 20.

[13] R. Cooper, Classifying Madness, Kluwer Academic Publishers, Norwell, MA 2005; K. Neander, Functions as Selected Effect: The Conceptual Analyst’s Defense, in «Philosophy of Science», 58, pp. 168–84; P.E. Griffiths, J. Matthewson, Dysfunction, and Disease: A Reappraisal, in «The British Journal for the Philosophy of Science», first published online, October 2016, pp. 1-27.

[14] R. Kendell, op. cit.; C. Boorse, On the distinction between disease and illness, in «Philosophy and Public Affairs», 5, 1975, p. 49-68; C. Boorse, Wright on Functions, in «The Philosophical Review», 85, 1976, pp. 70–86; C. Boorse, Health as a Theoretical Concept, in «Philosophy of Science», 44, 1977, pp. 542–73. 2002; C. Boorse, A Rebuttal on Functions, in Functions: New Essays in the Philosophy of Psychology and Biology, a cura di R. Cummins, A. Ariew, M. Perlman, Oxford University Press, Oxford 2002, pp. 63–112; C. Boorse, A Second Rebuttal on Health, in «Journal of Medicine and Philosophy», 39, 2014, pp. 683–724; P.H. Schwartz, Reframing the Disease Debate and Defending the Biostatistical Theory, in «Journal of Medicine and Philosophy», 39, 2014, pp. 572–589.

[15] R. Cummins, Functional Analysis, in «Journal of Philosophy», 72, 1975, pp. 741–765.

[16] L. Wright, Functions, in «Philosophical Review», 82, 1973, pp. 139-168; R.G. Millikan, Language, Thought and other Biological Categories, MIT Press, Cambridge, MA 1984; R.G. Millikan, In defense of proper function, in «Philosophy of Science», 56, 2, 1989, pp. 288-302; K. Neander, op. cit.; P. Kitcher, Function and design, in «Midwest Studies in Philosophy», 18, 1, 1993, pp. 379-397; P. Godfrey-Smith, Functions: Consensus Without Unity, in «Pacific Philosophical Quarterly», 74, 1993, pp. 196-208; J.C. Wakefield, Evolutionary Versus Prototype Analyses of the Concept of Disorder, in «Journal of Abnormal Psychology», 108, 3, pp. 374-399.

[17] S. Guze, Why psychiatry is a branch of medicine, Oxford University Press, New York 1999; R.L. Woolfolk, Malfunction and mental illness, in «The Monist», 82, 4, 1999, pp. 658-670; D. Murphy, Psychiatry and the Concept of Disease as Pathology, in Psychiatry as Cognitive Neuroscience: Philosophical Perspectives, a cura di M. Broome, L. Bortolotti, Oxford University Press, Oxford 2009, pp. 103-117; D. Murphy, Concepts of disease and health, in The Stanford Encyclopedia of Philosophy, a cura di E. Zalta, 2015, online.

[18] D. Murphy, Psychiatry in the scientific image, MIT Press, Cambridge, MA 2006.

[19] Cfr. G. Corbellini, E. Sirgiovanni, Tutta colpa del cervello: un’introduzione alla neuroetica, Mondadori, Milano 2013.

[20] Cfr. G. Corbellini, EBM, Medicina Basata sull’Evoluzione, Laterza, Roma-Bari 2007.

[21] Cfr. L. Cosmides, J. Tooby, Toward an evolutionary taxonomy of treatable conditions, in «Journal of Abnormal Psychology», 108, 1999, p. 453–464; D. Murphy, S. Stich, Darwin in the madhouse: evolutionary psychology and the classification of mental disorders, in Evolution and the Human Mind, a cura di P. Carruthers, A. Chamberlain, Cambridge University Press, Cambridge 1998, pp. 62-92; R.M. Nesse, What Darwinian medicine offers psychiatry, in Evolutionary Medicine, a cura di W.R. Trevathan, J. J. McKenna, E.O. Smith, Oxford University Press, New York, 1999; R.M. Nesse, E.D. Jackson, Evolution: psychiatric nosology’s missing biological foundation, in «Clinical Neuropsychiatry», 3, 2006, pp. 121-131; R.M. Nesse, E.D. Jackson, Evolutionary foundations for psychiatric diagnosis: making DSM-V valid, in Maladapting Minds, a cura di P.R. Adriaens, A. De Block. Oxford University Press, NY 2011, pp. 173-197; R.M. Nesse, D.J. Stein, Towards a genuinely medical model for psychiatric nosology, in «BMC Medicine», 10, 5, 2012, pp. 1-9; M.T. McGuire, A. Troisi, Darwinian Psychiatry, Oxford University Press, Oxford, 1998; A. Stevens, J. Price, Evolutionary Psychiatry: A New Beginning, Routledge, London 1996; M. Brüne, J. Belsky, H. Fabrega, J.R. Feierman, P. Gilbert, K. Glantz, J. Polimeni, J.S. Price, J. Sanjuan, R. Sullivan, A. Troisi, D.R. Wilson, The crisis of psychiatry: insights and prospects from evolutionary theory, in «World Psychiatry» 11, 2012, pp. 55-57; M. Del Giudice, The evolutionary future of psychopathology, in «Current Opinion in Psychology, 7, 2016, pp. 44–50.

[22] Cfr. D. Murphy, op. cit., 2006.

[23] C. Boorse, op. cit., 1975.

[24] P. Zachar, Psychiatric Disorders are not Natural Kinds, in «Philosophy, Psychiatry, Psychology», 7, 3, 2000, pp. 167-182.

[25] In particolare, T.S. Szasz, The Myth of Mental Illness, in «American Psychologist», 15, 1960, pp. 113-118; T.S. Szasz, Il mito della malattia mentale (1961), tr. it. Il Saggiatore, Milano 1974.

[26] M. Foucault, Storia della follia nell'età classica (1961), tr. it. Rizzoli, Milano 2005; M. Foucault, La nascita della clinica. Il ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane (1963), tr. it. Einaudi, Torino 1969.

[27] Soprattutto R. Kendell, op. cit. Kendell non si occupa tuttavia di un senso metafisico dell’esistenza del genere naturale di malattia.

[28] Soprattutto Boorse, op. cit., 1975.

[29] R. Kendell, op. cit.

[30] J. G. Scadding, Diagnosis: the Clinician and the Computer, in «The Lancet», 290, 7521, 1967, pp. 877-882.

[31] Ad esempio in H. Cohen, The nature, method and purpose of diagnosis, Cambridge University Press, Cambridge 1943.

[32] C. Boorse, op. cit., nota 14.

[33] Quest’accusa sarà mossa anche da William Fulford. Cfr. K.W.M. Fulford, Moral Theory and Medical Practice, Cambridge University Press, Cambridge 1989; K.W.M. Fulford Nine Variations and a Coda on the Theme of an Evolutionary Definition of Dysfunction, in «Journal of Abnormal Psychology», 108, 1999, pp. 412-420; K.W.M. Fulford, Values in Psychiatric Diagnosis: Executive Summary of a Report to the Chair of the ICD-12/DSM-VI Coordination Task Force (Dateline 2010), in «Psychopathology», 35, 2002, pp. 132-138.

[34] C. Boorse, op. cit., 1977, p. 543.

[35] Ad esempio in C. Boorse, Concepts of Health and Disease, in Philosophy of Medicine, a cura di F. Gifford, Elsevier, Amsterdam, 2011, pp. 13-64.

[36] C. Boorse, op. cit., 1977, p. 555.

[37] Ibid.

[38] Cfr. E. Nagel, La struttura della scienza (1961), tr. it. Feltrinelli, Milano 1978; ma soprattutto R. Cummins, op. cit.

[39] C.G. Hempel P. Oppenheim, Studies in the Logic of Explanation, in «Philosophy of Science», 15, 1948, pp.135-175.

[40] Cfr. C. Boorse, op. cit., 1976.

[41] L. Wright, op. cit.

[42] C. Boorse, op. cit., 1977.

[43] Cfr. Cooper, op. cit.

[44] Cfr. nota 16.

[45] R.L., Woolfolk, op. cit.

[46] Cfr. W. Salmon, Scientific Explanation and the Causal Structure of the World, Princeton University Press, Princeton 1984; Van Frassen, 1980

[47] R.G. Millikan, op. cit., 1984.

[48] R.G. Millikan, op. cit., 1989.

[49] M. Mahner, M. Bunge, Function and functionalism: A synthetic perspective, in «Philosophy of Science», 68, 1, 2001, pp.75-94.

[50] Per una disamina sul concetto di funzione e sulle spiegazioni funzionali in varie discipline e domini cfr. G. Romano, Essere per, Il concetto di “funzione” tra scienze, filosofia e senso comune, Quodlibet, Macerata 2006.

[51] Cfr. ad esempio D. Murphy, S. Stich, op. cit.; A.L. Glenn, R. Kurzban, A. Raine, Evolutionary theory and psychopathy. Aggression and Violent Behavior 2011; 16: pp. 371–380.

[52] R.J. McNally, On Wakefield’s harmful dysfunction analysis of mental disorder, in «Behaviour Research and Therapy», 2000, pp. 309–314.

[53] D. Murphy, R.L. Woolfolk, The harmful dysfunction analysis of mental disorder, in «Philosophy, Psychiatry, and Psychology», 7, 4, 2000 pp. 241–52.

[54] S.J. Gould, R.C. Lewontin, The spandrels of San Marco and the Panglossian paradigm: A critique of the adaptationist programme, in «Proceedings of the Royal Society», 205, 1979, pp. 581–98.; S.J. Gould, E.S. Vrba, Exaptation – A Missing Term in the Science of Form, in «Paleobiology», 8, 1, 1982, pp. 4-15.

[55] J.C. Wakefield, Evolutionary history versus current causal role in the definition of disorder: reply to McNally, in «Behaviour Research and Therapy», 39, 2001, pp. 347–366.

[56] J. C. Wakefield, Spandrels, Vestigial Organs, and Such: Reply to Murphy and Woolfolk’s ‘The Harmful Dysfunction Analysis of Mental Disorder’, in «Philosophy, Psychiatry, and Psychology», 7, 4, 2000 pp. 254-269.

[57] A.L. Glenn et al., op. cit.

[58] P. Gluckman, A. Beedle, M. Hanson, Principles of evolutionary medicine, Oxford University Press, Oxford 2009.

[59] P. Kitcher, op. cit., p. 259.

[60] Cfr. P. Gluckman et al., op. cit., 2009, pp.8-9.

[61] P. Godfrey-Smith, op. cit.

[62] P. Kitcher, op. cit.

[63] Nei termini di L. Wright, op. cit., 1973.

[64] Soprattutto nei termini di R. Cummins, op. cit.

[65] P.S. Churchland, T.J. Sejnowski, The Computational Brain, MIT Press, Cambridge, MA 1992.

[66] C.F. Craver, Functions and Mechanisms in Contemporary Neuroscience, in Des Neurones A La Conscience: Neurophilosophie Et Philosophie Des Neurosciences, a cura di P. Poirier, L. Faucher, E. Racine, E. Ennan, De Boeck Universite, Bruxelles 2005.

[67]P. Godfrey-Smith, op. cit.; R.N. Brandon, A General Case for Functional Pluralism, in Function: Selection and Mechanisms, a cura di P. Huneman, Springer, Dordrecht 2013, pp. 97-104.

[68]Cfr. K. Neander, Functional analysis and the species design, in «Synthese», published online, October, 2015, pp. 1-22.

[69] Cfr. R.G. Millikan, op. cit., 1989.

[70] C.F. Craver, op. cit.

[71] K. Neander, op. cit., 2015.

[72] K.W.M. Fulford, op. cit., 1989, 1999, 2002; K.W.M Fulford, T. Thornton, Fanatical about “harmful dysfunction”, in «World Psychiatry», 6, 2007, pp. 161-162.

[73] JC. Wakefield, The concept of mental disorder: on the boundary between biological facts and social values, in «American Psychologist», 47, 1992, pp. 373–388; J.C. Wakefield, Disorder as harmful dysfunction: a conceptual critique of DSM-III-R’s definition of mental disorder, in «Psychological Review», 99, pp. 232–247; J.C. Wakefield, The concept of mental disorder: Diagnostic implications of the harmful dysfunction analysis, in «World Psychiatry», 6, 2006, pp. 149–156.

[74] M. Mahner, M. Bunge, op. cit.; K. Neander, op. cit., 2015.

[75] Anche P. Kitcher, op. cit., sostiene che “fare quel lavoro” è la funzione.

[76] C.F. Craver, Explaining the Brain: Mechanisms and the Mosaic Unity of. Neuroscience, Clarendon Press, Oxford, 2007; W. Bechtel, Mental mechanisms: Philosophical Perspectives on Cognitive Neuroscience, Routledge, London 2008.

[77] P.K. Machamer, L. Darden, C. F. Craver, Thinking about Mechanisms, in «Philosophy of science», 57, pp. 1-25.

[78] W. Bechtel, A. Abrahamsen, Explanation: a Mechanistic Alternative, in «Studies in History and Philosophy of the Biological and Biomedical Sciences», 36, 2005, pp. 421-441.

[79] K. Neander, op. cit., 2015.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *