S&F_scienzaefilosofia.it

Yuk Hui – La questione della tecnologia in Cina [tr. it. di Sara Baranzoni, Nero, Roma 2021]

Gli ultimi anni hanno visto un fiorire di pubblicazioni dedicate alla crisi climatica che, da un punto di vista filosofico, spesso giungono a mettere in questione il paradigma occidentale moderno della diade oppositiva uomo-natura. Il dibattito sull’Antropocene si è sempre più polarizzato tra il rifiuto cieco della tecnologia dovuto alla “scoperta” dei danni che l’ideologia dell’illimitato progresso ha comportato sulla natura, e la glorificazione delle sempre maggiori conquiste della specie umana in ogni campo, dal microcosmo all’esplorazione dell’universo.

Il testo di Hui, pubblicato in originale in inglese nel 2016, rientra perfettamente in questo ambito di interesse e il suo punto di partenza è l’origine del concetto di tecnologia in Cina e quindi la filosofia orientale. Per quanto infatti la tecnica sia da sempre presente sulla Terra come attività umana, il concetto filosofico di tecnica non può essere considerato universale. Tale questione non può continuare a essere ritenuta marginale dal pensiero occidentale: alla luce delle complesse conseguenze della globalizzazione tecnologica e del dibattito sull’Antropocene, le relazioni tra il pensiero tecnologico orientale e quello occidentale risultano infatti determinanti e ci aiutano a allargare finalmente lo spazio di riflessione. Per questo, uno dei grandi contributi di questo saggio è di mettere in evidenza lo strettissimo legame che corre tra lo sviluppo di una filosofia della tecnologia cinese e la contemporanea lotta alla crisi climatica.

L’obiettivo di Hui sembra particolarmente ambizioso e si rivela addirittura più complesso di quanto sembri in prima battuta poiché l’autore inizia il suo lavoro dichiarando che il pensiero cinese, in realtà, non ha mai sviluppato un concetto di tecnica come lo abbiamo pensato noi occidentali e non possiede alcuna coscienza tecnologica. Tale impostazione del lavoro può risultare contraddittoria con le premesse dell’autore che inizialmente propone di mettere in campo un confronto tra due modi di vivere la tecnologia, per dichiarare subito dopo la presenza di una forte asimmetria concettuale tra questi, per cui, il modello orientale non sarebbe in alcun modo paragonabile al nostro. Ciò conduce allora alla necessità di ridefinire il termine da indagare, che non è più quello di tecnica/tecnologia.

La proposta di Hui è quindi di concepire la tecnica non solo come categoria filosofica ma come categoria ontologica per interrogarla su una configurazione più estesa, cioè la cosmologia propria della cultura dalla quale è emersa. Da qui la scelta del termine cosmotecnica che sana la tradizionale opposizione natura/tecnica ma anche la progressione da magia/mito a scienza: «La cosmotecnica propone di riprendere la questione della modernità reinventando il sé e la tecnologia allo stesso tempo, dando la precedenza a morale ed etica» (p. 236). Se l’episteme globale dominata dalla mentalità capitalistica occidentale venisse rimpiazzata da una varietà di saperi e conoscenze si potrebbe produrre un nuovo modo di esistenza.

La prima delle due parti che compongono il saggio, dedicata allo studio storico di un pensiero tecnologico in Cina, incontra subito una difficoltà anche di tipo linguistico nel proporre una comparazione tra il pensiero cinese e quello europeo: non è possibile trovare nel pensiero cinese né l’equivalente della téchne greca né del paradigma prometeico su cui si è fondata la filosofia della tecnica occidentale. È proprio il mito di Prometeo, infatti, caratterizzato dalla profonda frattura tra uomini e dei e da una concezione dell’esercizio della téchne come violenza e dominio sulla physis, che, assunto a paradigma del pensiero tecnico in Occidente, segna una distanza fondamentale con il pensiero mitico orientale. Il pensiero cinese presenta piuttosto una visione olistica in cui Qi e Dao, le due categorie filosofiche di cui Hui sceglie di seguire lo sviluppo, sono inseparabili e testimoniano di un’originaria armonia tra produzione umana e principio cosmologico: Dao ha bisogno di Qi per manifestarsi in forme sensibili e Qi ha bisogno di Dao per diventare perfetto.

Questa differenza tra la mitologia occidentale e quella cinese si riflette poi in configurazioni della tecnica molto diverse; perciò solo con il superamento dell’opposizione tra natura e tecnica, con l’unificazione tra ordine cosmico e ordine morale attraverso la ricerca di una cosmotecnica e situando storicamente la relazione tra Qi e Dao, si può rendere giustizia a una filosofia della tecnologia cinese.

Per cogliere al meglio l’operazione di Hui in tutta la sua complessità è necessario calarsi quindi in una nuova dimensione che non richiede soltanto un ripensamento della tecnica ma che dimostra quanto questo ripensamento sia inscindibilmente legato a altre, forse più fondamentali, questioni filosofiche. Non si può produrre una filosofia della tecnica cinese se non partendo dalla tematizzazione della questione ontologica: «Piuttosto che l’“Essere”, ciò che sta a cuore tanto all’insegnamento confuciano quanto a quello daoista è il tema del “Vivente”, inteso come la possibilità di condurre una vita morale o buona» (p. 65).

La relazione tra ontologia e tecnica nella filosofia cinese, così evidenziata, permette quindi di portare allo scoperto anche l’ontologia sottostante la filosofia della tecnica occidentale ovvero quel legame originario e fondativo di cui sembrano essersi perse le tracce. In tal senso, mentre in Occidente la tecnica è imitazione e perfezionamento della natura, in Cina è piuttosto legata alla realizzazione del bene morale del mondo ed è subordinata all’ordine cosmologico.

È solo a causa di una contingenza storica che la Cina assume per sé la condizione tecnologica occidentale: all’indomani delle Guerre dell’Oppio, la Cina capisce di avere la necessità di sviluppare la propria tecnologia e procede a un adattamento forzato al sistema occidentale. In questo processo i due termini fondativi di Qi e Dao vengono stravolti e l’originaria visione olistica si trasforma in dualismo cartesiano. Si è messo in atto «un movimento di modernizzazione inteso come la possibilità di utilizzare il Qi per realizzare il Dao» (p.132). Questa enfasi strumentale sull’“uso” rovescia il Dao e il Qi e la cosmotecnica olistica viene rimpiazzata dal meccanicismo occidentale. Tutto ciò che risultava incompatibile con quella modernità, e intralciava quindi le forze di sviluppo, viene relegato alla categoria di “tradizione”.

La seconda parte del saggio che pone al centro la relazione tra la tecnica e il tempo, può risultare quindi come l’applicazione delle categorie individuate nella prima parte e dei risultati di quella riflessione come possibili risposte alle sfide della globalizzazione. La globalizzazione tecnologica e il dibattito sull’Antropocene stanno creando un’impasse: la Cina si trova nelle condizioni di dovere rifiutare un modo di concepire la scienza e la tecnica che è frutto di una modernità che non hai mai vissuto. Come chiarisce Hui, infatti, la fine della modernità in Europa non ha affatto significato la sua fine in generale, anzi, la dinamica accelerativa che ha coinvolto l’Occidente e che si è riproposta in Oriente, ha prima condotto la Cina a sincronizzarsi con un pensiero tecnologico che non le è originariamente proprio, e in seguito a riproporlo, facendosi paradossalmente essa stessa portatrice di quella dinamica “moderna” di sfruttamento, nei paesi del Terzo mondo. La globalizzazione ha reso impossibile distinguere il concetto cinese di tecnica da quello occidentale poiché l’accelerazione promossa da Xiaoping ha sviluppato un universalismo che è assimilazione e che conduce all’oblio ogni specificità culturale.

Nasce l’esigenza di costruzione di una episteme nuova non basata più sull’equivalenza o la somiglianza tra il linguaggio della metafisica e della tecnica occidentali e il pensiero tradizionale cinese, bensì sulla differenza, «una traduzione che permetta a una transduzione di aver luogo» (p. 252). Allo stesso modo la sincronizzazione egemonica dell’Occidente, dovrebbe essere sostituita da una nuova costituzione del tempo; non solo in una nuova narrazione, ma soprattutto nella creazione di una nuova pratica e nuovi saperi che si confrontino con la modernità e attraverso questo confronto la superino. L’Antropocene è strettamente legato al concetto di modernità e a una cosmotecnica che possiamo identificare con il capitalismo. Il superamento della rischiosa condizione globale in cui ci troviamo oggi è possibile allora sostituendo l’episteme capitalistica con altri saperi e conoscenze. Ciò non implica però un ritorno ai significati tradizionali di categorie come Qi e Dao, ma richiede una loro risignificazione appropriata alla nuova epoca.

La riappropriazione della tecnologia moderna dal punto di vista della cosmotecnica deve avvenire attraverso due passaggi: «il primo, tentato qui, richiede una riconfigurazione di categorie metafisiche fondamentali come Qi e Dao in quanto base e fondamento; il secondo, esige che su questa base si ricostituisca un’episteme capace a sua volta di condizionare l’invenzione, lo sviluppo e l’innovazione tecnica, cosicché quest’ultima non sia più ridotta a mera imitazione o ripetizione» (p. 250).

I riferimenti presenti nel testo di Hui sono moltissimi e spaziano chiaramente da un paese all’altro, così come permette la formazione dell’autore stesso: originario di Honk Kong, dove si laurea, Hui prosegue la sua attività in Francia conseguendo il suo PhD con Bernard Stiegler, per poi insegnare in Germania, in Cina e a Hong Kong. Da Heidegger a Nishitani e la Scuola di Kyoto, Stiegler e Mou Zongsan, ogni tassello di questa ricerca è funzionale all’arricchimento della prospettiva e alla comprensione di tradizioni diverse attraverso confronti e influenze che l’autore non manca di sottolineare puntualmente. La prima parte, molto affascinante e a volte quasi esoterica, ci avvicina a un mondo o meglio, a una visione del mondo, quasi incomprensibile, ma le citazioni dai più grandi classici della filosofia cinese, per quanto caratterizzate da un linguaggio complesso, si rivelano uno degli elementi di grande forza di questa ricerca.

La sensazione che lascia la lettura del testo di Hui è quella di essere travolti e colpiti dall’estrema diversità di coordinate rispetto a tutto ciò con cui abbiamo familiarità, tuttavia, per quanto sia un testo sulla cultura filosofica e tecnologica cinese, Cosmotecnica ci stimola a riflettere anche sulla cultura occidentale, sul pensiero mitico e sulla cosmologia che l’hanno originata e di cui ancora mantiene i tratti. Leggere della perdita nella cultura cinese di un legame fondamentale tra ordine morale e ordine del mondo, può servire all’Occidente come specchio in cui riconoscere le proprie ferite, come quella frattura tra ontologia e tecnica e che ha reso entrambe, nella loro parzialità, incapaci di rispondere agli interrogativi posti dai propri oggetti di indagine e che oggi va certamente ripensata verso una integrazione capace di affrontare adeguatamente gli squilibri della contemporaneità. Negli ultimi anni la filosofia postcoloniale si sta imponendo nel dibattito sfidandoci a pensare fuori dalla Weltanschauung occidentale e della narrazione della Storia universale come storia europea. Il libro di Hui va anche oltre questa intenzione, alza l’asticella e si impone come un vero e proprio rompicapo, certamente molto stimolante e necessario.

Francesca De Simone

S&F_n. 27_2022

Print Friendly, PDF & Email