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Valeria Gammella – Quale vita? La tematizzazione del bios nell’opera di Michel Foucault. A proposito del recente libro di Delio Salottolo – Una vita radicalmente altra. Saggio sulla filosofia di Michel Foucault [Mimesis, Milano 2013, pp. 245, € 20]


«Una vita radicalmente altra», questa in ultimo la posta in gioco e la meta via via più chiara della ricerca foucaultiana: così Salottolo legge l’itinerario filosofico di Michel Foucault, riprendendone le fila proprio a partire dalla tematizzazione del concetto di vita, che corre silenzioso lungo tutto il percorso filosofico foucaultiano fino a configurare il tema celeberrimo della biopolitica, per poi cambiare pelle e tradursi nella ricerca di una vita altra.Salottolo ricostruisce passo dopo passo il contesto del lavoro foucaultiano, mettendone in evidenza anzitutto il legame con lo scenario culturale del dopoguerra, segnato da una certa presa di coscienza su ciò che aveva significato il biologismo, dal positivismo fino al razzismo biologico nazista. Foucault si muove in questo milieu, maturando l’esigenza di rompere con l’hegelismo, ancora imperante nelle università, e di venire a capo del come e del quando il tipo di razionalità da esso espressa si fosse composto e solidificato. Di qui l’influenza dell’epistemologia storica bachelardiana, nonché di Canguilhem, il quale per primo aveva posto la sua attenzione sulla biologia, comprendendo come, a partire da una scienza regionale come questa, si potesse nondimeno giungere a una disamina delle teorie a essa connesse. L’uniformità di un certo orizzonte concettuale, infatti, non appariva riconducibile all’unità del soggetto ma alla coerenza delle pratiche discorsive, lezione questa destinata a incidere profondamente sul giovane Foucault. Canguilhem introduce dunque l’approccio discontinuista bachelardiano nella storia delle scienze della vita, chiarendo per di più come l’errore rappresenti una possibilità strutturale della vita, portando così a un ripensamento dei temi del normale e del patologico. Foucault avrebbe poi ereditato quest’attenzione per il vivente che si pone come errore all’interno del sistema, facendone una costante della sua riflessione.Così, quando scrive Le parole e le cose, con l’intento provocatorio e dirompente di mostrare la storicità dell’“uomo”, ovvero del soggetto della tradizione filosofica occidentale, Foucault si sofferma a lungo sulla biologia, la cui nascita, insieme all’economia e alla filologia, diviene l’indice del passaggio da un’episteme a un’altra. La biologia prende infatti forma contestualmente a un certo concetto di vita, che segna il superamento della storia naturale. Ciò che è essenziale a quest’ultima è infatti una certa orizzontalità della rappresentazione, rispondente al principio cartesiano per cui è vero ciò che è evidente, e per cui quindi il visibile si traduce nell’enunciabile. Nella biologia al contrario diviene preminente la rappresentazione di una verticalità, per cui ciò che è visibile diviene l’effetto superficiale di un principio d’organizzazione interna, la vita, che, come forza vitale, introduce per la prima volta una discontinuità radicale tra ciò che semplicemente esiste e il vivente. Da questa trasformazione della struttura del sapere avrebbero preso forma tanto la biologia quanto la metafisica della vita. Foucault scopre dunque in questa nozione di vita come forza fondamentale, contrapposta a ciò che semplicemente è, l’orizzonte scientifico e metafisico della modernità.Sullo stesso piano si pone la trasformazione del sapere medico, che a sua volta smette di cercare il superficiale e il visibile per soffermarsi sull’organizzazione invisibile degli spazi interni (cfr. M. Foucault, Nascita della clinica, 1998, p. 133 e sgg). Questo nuovo approccio, che introduce una continuità tra la vita, la malattia e la morte, produce la struttura dialettica normale-patologico, ereditata dalle scienze umane e funzionale a ripetere la dinamica di inclusione-esclusione sorta un tempo attorno alla scissione tra ragione e sragione.I temi del normale e del patologico chiamano nuovamente in causa il rapporto con Canguilhem, che Salottolo mette a fuoco in questi termini: al centro dell’opera di Canguilhem su Il normale e il patologico si trova l’idea per cui la medicina nasce per venire incontro a un’esigenza umana, ma nel corso della sua storia tradisce questa vocazione per farsi scienza naturale e sociale, assumendo con ciò un profilo normativo molto netto. Riferimento polemico di Canguilhem è il positivismo medico che riconduce gli stati patologici ad alterazioni quantitative dei rispettivi stati fisiologici, principio questo che ad esempio Comte utilizza in sociologia, rinvenendo negli stati patologici dell’organismo collettivo (ad esempio le rivoluzioni) degli eccessi o difetti del suo funzionamento normale. Canguilhem nota come, in teorie di questo tipo, a una normalità difficilmente definibile viene associato un valore e, viceversa, un disvalore agli stati che differiscono da essa e che sono perciò patologici. Questa valorizzazione della normalità e l’istanza alla sua restaurazione appare a Canguilhem come un principio trasversale al discorso clinico e a quello politico, e su esso sembra fondarsi la possibilità di una medicalizzazione della società. Leggendo insieme Il normale e il patologico e Nascita della clinica emerge subito una critica comune all’oggettività del punto di vista biologico. Ma mentre Canguilhem si pone dal punto di vista dell’esperienza concreta del vivente, Foucault sceglie piuttosto un approccio storico, procedendo a un’archeologia delle norme mediche, viste dal lato del medico e delle istituzioni mediche. E ancora, se per Canguilhem l’imposizione delle norme sociali entra in contrasto con la spontanea normatività del vivente, in questa fase della sua riflessione Foucault disconosce quest’attività autonoma del soggetto, che a lui non appare ancora soggetto di una normatività propria ma sempre punto di applicazione della norma sociale. Nella sua ultima produzione, legata al tema dell’autocostituzione del soggetto, Foucault riscopre e recupera le posizioni del maestro. La questione della vita diviene allora sempre più centrale e complessa fino a configurare un’opposizione tra vita e bios, che riconosce nel bios l’elemento malleabile della vita, che pone dunque il problema della forma da imprimere a essa (quale forma? Chi la imprime?), in antitesi alla vita, ovvero alla «forma-di-vita» già composta e consolidata.Parallelamente a questa direttrice del pensiero foucaultiano, che lo mette a confronto con Canguilhem, Salottolo interroga gli scritti contemporanei e minori di Foucault, mettendo in evidenza l’altro versante di questa riflessione sulla vita. Ponendosi la domanda sulla “nascita dell’uomo” e sulla “natura umana”, Foucault si chiede in fondo come venir fuori da un determinato modo d’esser uomini o soggetti, quali possibilità esistono d’esser diversi. Di qui l’attenzione per il tema batailliano della trasgressione, nonché per autori come Roussel, Brisset e Wolfon, che gli appaiono come possibili guide all’interno di un percorso di decostruzione della “struttura” ragione-sragione attraverso le possibilità offerte dal linguaggio stesso. Ma Foucault comprende presto l’insufficienza dei modelli della trasgressione e del pensiero del fuori, che sembrano testimoniare una resistenza che si traduce in ultimo sempre in esperienze di emarginazione e solitudine, prive per questo di un autentico respiro politico. Di qui il prevalere in Foucault di interessi differenti.  Negli anni Settanta la ricerca foucaultiana cambia registro, tornando a interrogare le origini della modernità stavolta nel suo versante politico. Ma qui il discorso torna a intrecciare la questione biologica. Le moderne tecnologie di potere infatti non ruotano più attorno alla legge, che regge il dispositivo di sovranità, ma attorno alla norma, ovvero la «regola naturale» sulla cui base il potere moderno pretende di operare. Nella modernità infatti la sovranità non consiste più nel diritto di far morire o lasciar vivere, non è in primis un diritto di morte, ma si esercita anzitutto sulla vita, oggetto di una gestione via via più pervasiva, in cui il corpo (piuttosto che l’anima) diviene il referente privilegiato delle tecnologie di potere. Corpo che con le discipline diventa per la prima volta il sostrato biopolitico del potere. Nei dispositivi moderni le discipline, che individualizzano e assoggettano i corpi, vengono integrate con un meccanismo totalizzante, che al contrario produce un corpo-specie, legato alla materialità dell’ambiente cui appartiene. Fa così la sua comparsa la popolazione, intesa come organismo unitario da gestire a partire dalla sua naturalità, dalla fisica delle sue dinamiche interne. Si avvia quindi una normazione biologica e medica della popolazione (dalle norme sull’igiene alle prime vaccinazioni), tale per cui «dispositivo di sicurezza par exellence diviene la medicina» (p. 135).Entro questa naturalizzazione del corpo sociale e della sua amministrazione acquista un ruolo cruciale la gestione del desiderio. Nella Volontà di sapere, Foucault se ne occupa a partire da una critica dell’ipotesi repressiva – sostenuta da Marcuse e particolarmente in voga dopo il ’68 – per la quale il capitalismo reprime il desiderio in quanto fonte di dispersione della forza utile del lavoratore. A quest’immagine puramente repressiva del potere Foucault contrappone l’idea della sua produttività. La modernità non segnerebbe tanto una riduzione dei discorsi sul sesso quanto, a ben vedere, una loro proliferazione legata alla regolamentazione del sacramento della confessione avutasi col Concilio di Trento, con cui si richiede una confessione accurata e minuziosa dei desideri oltre che degli atti. Attorno alla censura morale della sessualità si sarebbe quindi avuta, per converso, un’esplosione dei discorsi sul sesso e la nascita di una vera e propria scientia sexualis, che sarebbe presto entrata a far parte della giustizia, della medicina, della pedagogia, installandosi in ogni genere di relazione e legame. Il corpo sessuale viene così situato tra morale e biologia.Salottolo riferisce in proposito la critica di Deleuze al tema foucaultiano della costruzione di una interiorità desiderante a partire dalla confessione (G. Deleuze, Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori, Verona 1996). Per Deleuze le relazioni di potere non producono ma riorganizzano, «riterritorializzano» il corpo sociale, mentre produttivo è solo il desiderio, come dimensione originaria che traccia delle vie di fuga, dei movimenti di deterritorializzazione. Dunque se in Foucault il desiderio è essenzialmente una produzione culturale, in Deleuze è invece forza vitale, trasformatasi in mancanza solo quando, con la morale giudaico-cristiana, si è avuta la rivolta del desiderio contro se stesso (Id., Nietzsche e la filosofia, Torino 2002), rafforzata dall’azione congiunta del capitalismo e della psicanalisi (Cfr. Id., L’Anti-Edipo, Torino 2002). Si tratta dunque per Deleuze di liberare il desiderio dall’immagine della mancanza per restituirlo alla sua dimensione di volontà di potenza creatrice. Si comprende quindi come a Deleuze possa apparire insufficiente la riflessione foucaultiana sui contropoteri, i quali, per giunta, non appaiono in grado di far saltare l’intera organizzazione culturale e politica del capitalismo avanzato. Tuttavia, osserva Salottolo, quello che può apparire un limite della riflessione foucaultiana testimonia in realtà la coerenza per cui Foucault non chiama in causa un’origine da riattivare, ma tenta di pensare in maniera radicalmente storica la costituzione del desiderio come mancanza e di cercare vie alternative di costituzione del sé che non rimandino a una forza selvaggia e incomprensibile della vita.Nella modernità dunque non v’è politica al di fuori di un certo controllo, di una certa gestione delle vite e dei corpi, che passa per la loro medicalizzazione e sessualizzazione. L’elemento che consente di estendere indefinitamente questo modello biopolitico, facendo funzionare la “struttura” normale-patologico, è il governo, che si insinua come un cuneo tra la famiglia e lo Stato. Il governo nasce quando il potere politico, assimilando i caratteri del potere pastorale, cambia pelle, trasformandosi da potere che si applica su soggetti giuridici a potere che si applica su individui viventi. Ma cosa eredita la modernità politica dal potere pastorale? La costituzione della soggettività attraverso una continua eterodirezione.Salottolo rileva come, nel seguire le sue indagini sul governo, Foucault conduca una sottesa polemica contro il marxismo “ufficiale”, che gli pare sbagliare il tiro quando assume come nemico politico lo Stato borghese, che per Foucault costituisce invece il semplice effetto di determinate pratiche governamentali, le quali, sì, richiedono d’essere indagate ed eventualmente combattute. Si tratta allora per Foucault di ricostruire il processo di governamentalizzazione dello Stato, che corre parallelo a una naturalizzazione della società e dei suoi processi. Così dapprima si osserva la polizia trasferire l’elemento medico e clinico all’interno di una regolazione collettiva, e non più solo individuale, della popolazione (Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Milano 2007, pp. 235-236). Col liberalismo poi, prende forma l’idea di una naturalità dei processi economici che dev’essere assecondata se s’intende governare i fenomeni economici. Questa fisica economica (e non più la ragion di Stato) dovrà costituire il limite interno dell’azione di governo, mentre la libertà verrà a coincidere con l’adesione all’ordine naturale delle cose. E ancora il liberalismo perfeziona la vocazione biopolitica della modernità producendo un tipo di soggettività, l’homo oeconomicus, che si caratterizza in contrapposizione al soggetto di diritto, costituendosi, all’opposto, come soggetto d’interesse. Foucault segue la genesi della comparsa di questa peculiare forma di soggettività, riconoscendo in Locke il primo ad aver definito il soggetto non più a partire dalla relazione dell’anima col corpo, né a partire dalla libertà come principio costituente, ma come soggetto di scelte individuali irriducibili in quanto legate alla soggettività della percezione di ciò che è doloroso e ciò che non lo è. In questo modo la gestione degli affari umani viene liberata da ogni prospettiva trascendente, divina o più ancora giuridica, per essere riportata al piano totalmente immanente dell’interesse soggettivo. La teoria politica smette quindi di immaginare un passaggio dallo stato di natura allo stato civile come passaggio da un soggetto d’interesse al soggetto di diritto, ricorrendo invece al concetto di società civile, che consente di inserire la dimensione del soggetto d’interesse entro un quadro giuridico e quindi governabile. Con la scuola scozzese di Smith e Ferguson infatti, la società civile non è presentata come il frutto di un contratto ma come qualcosa di spontaneamente esistente, frutto dei naturali interessi economici degli individui, i quali però rischiano al contempo di disgregarla, generando così la necessità di un potere politico (Cfr. Id., Nascita della biopolitica, Milano 2005, pp. 217 e sgg.). Il liberalismo dunque ha potuto funzionare in quanto ha prodotto una particolare forma-di-vita e un particolare modo di leggere le relazioni umane, sullo sfondo di una crescente naturalizzazione dell’umano.Se dunque il liberalismo aveva foggiato il soggetto d’interesse, col concetto di capitale umano il neoliberismo americano compie un nuovo decisivo passo avanti, producendo un nuovo tipo di soggettività definito stavolta a partire dal lavoro, il quale viene però ripensato anzitutto come un’attività (e non più come merce): attività che richiede un investimento fisico, educativo, affettivo, a partire dal quale l’individuo si mette alla prova, dando significato alla propria vita. In questo modo, l’educazione, gli stimoli ricevuti durante l’infanzia, l’affettività diventano tutte variabili economiche, e l’economia stessa viene configurandosi come l’assegnazione di risorse rare per fini alternativi, inglobando così tutta una serie di attività e comportamenti fino ad allora considerati non economici (cfr. ibid., p. 198 e sgg.). La biopolitica messa in campo dal neoliberismo americano si configura dunque come la forma più estesa e onnicomprensiva di gestione del vivente, essendo per altro l’individuo portato a concepire se stesso come uomo dell’impresa, come imprenditore di se stesso. Quale libertà si rende dunque possibile in uno schema così costruito? Sarà questo problema a guidare Foucault nelle ricerche immediatamente successive.Il corso che segue Nascita della bipolitica è Du gouvernement des vivants, in cui Foucault pone il problema della relazione tra soggetto e verità, con l’intento di indagare la dinamica che ha condotto l’individuo occidentale a costituire se stesso sotto il segno dell’obbedienza e della soggezione. Si tratta di un primo radicale spostamento negli studi di Foucault dagli effetti dei dispositivi di potere sull’individuo all’analisi dell’iniziativa del soggetto su se stesso, fino a risalire al momento in cui tali meccanismi di soggezione e obbedienza non si erano ancora prodotti. Questo scorcio è dato dal soggetto antico, che, come osserva Salottolo, è un soggetto della cura prima che un soggetto di verità. Se infatti nella modernità la ricerca della verità passa per la conoscenza ed è finalizzata alla conoscenza, nell’antichità si accede alla verità unicamente attraverso una trasformazione di sé, che ha come premio una beatitudine tutta terrena. Di qui la distinzione con la filosofia moderna, cristallizzata da Descartes e consacrata a una conoscenza fine a se stessa, entro la quale però Foucault intravede le tracce di una spiritualità che tenta di recuperare terreno. A questo faticoso riemergere di una spiritualità rimossa, Foucault lega le esperienze del marxismo e della psicanalisi, che tornano potentemente a porre l’esigenza di una metamorfosi del soggetto. Il tema è in generale quello della possibilità di plasmare la propria vita «non come libertà assoluta ma come spazio di “gioco” tra le determinazioni fondamentali dei regimi discorsivi (ai quali apparteniamo e nei quali ci muoviamo) e delle relazioni di potere (all’interno delle quali siamo presi e nelle quali ci dibattiamo)» (p. 186).Di quali margini di autonomia e creatività dispone dunque l’uomo tra le variabili dei regimi discorsivi e delle relazioni di potere? Nell’introduzione a L’uso dei piaceri Foucault riflette sul senso della morale. Ebbene la moralità dei comportamenti non implica l’adesione incondizionata al codice morale ma ammette la possibilità di equilibri differenti, che consentono un margine di autonomia rispetto alle regole. Insomma una prospettiva diversa rispetto alle possibilità di trasgressione indagate nei primi anni di studio. Il bios diviene allora lo spazio di questo gioco con le regole, in cui il soggetto determina se stesso attraverso i suoi comportamenti. Si delinea così lo spazio di una libertà meno solitaria di quella associata alla trasgressione e meno definitiva di quella legata alla rivoluzione: una libertà lenta di definizione e cambiamento di sé che forse Foucault immagina proprio a partire dalla riflessione su come il neoliberismo pensi lucidamente il modo in cui l’individuo debba lavorare su se stesso, producendosi continuamente. L’analisi delle forme di soggettivazione configura così una nuova forma di resistenza o di lotta, una nuova genealogia della morale volta a indicare la possibilità di forme di soggettivazione senza assoggettamento.Gli studi degli ultimi anni, dedicati all’autocostituzione del soggetto, presuppongono l’elaborazione di una nozione di bios come relazione, come correlato di una techne, a significare che non esiste una “nuda vita”, il cui concetto appare piuttosto una costruzione culturale del XX secolo. Ma qual è la tecnica di vita che Foucault incontra nell’antichità e che lo interessa? Foucault si confronta prevalentemente con lo stoicismo, e lo fa con un’attenzione particolare per quegli aspetti che, nella vicinanza, ne fanno qualcosa di totalmente differente dal cristianesimo. Così ad esempio è prassi tra gli stoici redigere un resoconto giornaliero di ciò che si è fatto nella giornata, ma il senso non è quello di scovare e condannare il peccato, di far emergere la debolezza e quindi la dipendenza del soggetto in esame, ma semplicemente un’analisi obiettiva di ciò che si poteva fare e non si è fatto, degli errori commessi, delle opportunità mancate, in vista di un rapporto sempre migliore col mondo. Lo stoico si esercita alla verità, prova a plasmarsi a essa senza per questo annullare se stesso o rinunciare al mondo. Viceversa, nel cristianesimo il bios è costantemente chiamato a provarsi all’obbedienza e a un’attenzione esasperata a ciò che si nasconde nelle pieghe di un sé divenuto ormai «anima desiderante» (Cfr. M. Foucault, Tecnologie del sé. Un seminario con Michel Foucault, Torino 1992, p. 30 e sgg.). Tuttavia, la stessa modalità stoica di costituzione del sé finisce con l’apparire insufficiente a Foucault per il suo rimanere ferma su un piano individuale, inservibile in una prospettiva etico-politica. Di qui lo spostamento dal tema più ampio della cura di sé a quello più circoscritto, ma politicamente più pregnante, della parresia.Per parresia si intende il dir vero, il dir tutto, in un atto linguistico che però richiede un certo investimento esistenziale, un coraggio della verità, perché coincide con la critica di un potere e comporta per questo un certo pericolo. È questo il caso del filosofo, del maestro che dice al principe che la sua tirannide è sgradevole e ingiusta, perché tale è ogni tirannide, correndo così il rischio di essere arrestato, esiliato, ucciso: la parresia è un atto che muove dal basso verso l’alto. Nello stesso corso su Il coraggio della verità, Foucault si sofferma poi sul cinismo, in cui i temi della parresia e della cura di sé sono declinati in modo del tutto particolare. Il cinico estremizza i precetti della morale tradizionale fino a capovolgerli, esibendoli provocatoriamente con la sua propria esistenza. Così il precetto tradizionale della vita non dissimulata raggiunge i caratteri estremi e scandalosi della masturbazione nella pubblica piazza, quello della vita autonoma, senza mescolanze né dipendenze, si traduce nella scelta di una vita povera fino al disonore. Lo scandalo è il mezzo mediante cui i cinici, plasticamente, richiamandosi alla vera vita, rimandano a una vita altra. Foucault se ne serve per giocare coi concetti cristiani della vita vera e dell’altra vita, per mostrare nel cinismo una sorta di militanza filosofica, che lo rende in ultimo radicalmente diverso dallo stoicismo e dell’epicureismo. Il cinismo infatti sfora la dimensione privata della ricerca della pace interiore, dell’aponia e dell’atarassia, per svolgere a suo modo una missione politica, quella di mettere la società dinanzi all’ipocrisia delle sue convenzioni, insinuando un germe di verità, un’esigenza di rottura e autenticità. Di qui dunque l’interesse finale per il cinismo, che soddisfa la vocazione politica della riflessione di Foucault, che al termine della sua ricerca può concludere che non c’è istaurazione della verità senza una posizione contestuale dell’alterità, che la verità non è mai il medesimo, e, anzi, non può esserci verità che nella forma della vita altra.Così il tema della vita altra chiude il cerchio di una riflessione che della vita ha seguito le varie concettualizzazioni e le rispettive utilizzazioni, per porre in ultimo la questione di una vita da costruire in proprio, alla luce di una libertà intesa come “spazio di gioco” tra le maglie del potere. 

Valeria Gammella

07_2016

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