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Roberta Visone – Selezione naturale ed equilibrio della natura. L’evoluzionismo di Alfred Russell Wallace tra Darwin e Spencer [Liguori Editore, Napoli 2022]

In uno scritto al solito molto acuto dedicato al Sublime postumanistico, nel definire il contesto relativamente alla sua proposta speculativa, approcciando dunque l’affaire-Darwin, nel far perciò riferimento al grande laboratorio di discussione che ha preso forma dalla pubblicazione del saggio su L’origine delle specie nel 1859 a partire, però, dal solido retroterra che è andato dal nominalismo di Buffon alla metodologia comparativa in Geoffroy de Saint Hilaire, passando dal trasformismo di Lamarck e ancora fino alla zoonomia di Erasmus Darwin, Roberto Marchesini ha utilizzato una formula estremamente felice: atelier darwiniano [cfr. R. Marchesini, Il sublime postumanistico, in AA. VV., Frontiere mobili. Crisi dell’umanismo e sviluppi del post-human?, Milano, Mimesis 2014, pp. 153-169].

Atelier darwiniano per dar conto, appunto, del multiverso che ha fatto e fa perno sul naturalista di Shrewsbury.

E non c’è dubbio che, specie nella messe di circuiti darwiniani, pre-darwiniani e post-darwiniani, darwinisti, pre-darwinisti e post-darwinisti, evoluzionisti, neo-evoluzionisti e post-evoluzionisti sino a quelli, in qualche modo, meta-darwiniani, ovvero quelli post-umanisti e finanche trans-umanisti, l’idea che quel laboratorio-atelier abbia assunto le fattezze di un vero e proprio Grande Magazzino piuttosto che un Discount, da un certo punto in poi s’è fatta prepotentemente strada. Al punto che, rispetto a Darwin e all’effettivo suo “banco di lavoro”, da quello concretamente preparatorio a quello legato alla effettiva pars construens, s’è preso a ricamare in tutte le direzioni possibili e immaginabili, in prospettive centrifughe. Tanto che, nonostante la tangibile grande messe di argomenti e contro-argomenti realmente rinvenibili e distillabili nell’opera del naturalista inglese, al povero Darwin e ai suoi interlocutori concreti, s’è fatto letteralmente dire tutto e il contrario di tutto.

E questo, indefettibilmente, in considerazione e a partire proprio dalle straordinarie demolizioni e ricostruzioni epistemologiche, dai saperi antropologici e della vita coevi, che Darwin e i suoi interlocutori prima e dopo hanno reso possibili negli ultimi centosessant’anni, tant’è che è oramai ubi consistam di tutte le scienze della vita contemporanee l’impossibilità di attribuire a noi stessi uno status speciale quale approdo di un’evoluzione quale ascensione progressiva e programmata che deve culminare nell’uomo. Tant’è che è divenuto necessario riconoscere, una volta e per tutte, che la scala dell’evoluzione con Homo sapiens sull’ultimo gradino è essenzialmente il risultato di un serio fraintendimento dell’evoluzione e che, dunque, non c’è alcunché di così speciale nell’umanità che ne richieda l’elevazione giacché detentori esclusivi di uno specifico statuto ontologico, qualora ve ne fosse mai uno.

Come si accennava, la portata epocale di queste acquisizioni recenti – e recenti se parametrate, solo nel solco della Tradizione Occidentale, a circa duemilaquattrocento anni di metafisica antropocentrata (a tal proposito val la pena rammentare con Nietzsche l’inclinazione irresistibile dello spirito umano in ordine alla quale «tutte le opere scritte fino a  oggi sono sospette di apologia dell’umano» tant’è che «non c’è stato finora alcun filosofo, sotto le cui mani la filosofia non sia diventata un’apologia della conoscenza» e «allora mi ricordai delle parole di Platone e le sentii tutt’a un tratto nel cuore: “Tutto ciò che è umano non è, in complesso, degno di essere preso molto sul serio”» [F. Nietzsche, Umano, troppo umano I (1878), vol. IV, tomo II delle Opere, tr. it. Adelphi, Milano 1965, pp. 19 e 296]) – ha causato anche “danni collaterali”, nel senso di cui sopra, ovvero superfetazioni sovente disordinate, sconnesse, dilettantesche e arraffazzonate. E ciò ha avuto e continua ad avere ricadute anche rispetto a un certo ordine ricettivo in fatto di nuove pubblicazioni in materia di darwinismo.

A partire da tutto questo, da almeno un trentennio, val sempre la domanda in conseguenza della quale ha poi ancora senso un ennesimo libro su queste questioni, ovvero in materia di darwinismo?

Nel caso di specie legato al volume di Roberta Visone, Selezione naturale ed equilibrio mobile della natura, dove la “questione-Darwin” è evidentemente lo scenario, la risposta non può che essere affermativa: sì, ha un senso e, se possibile, un senso anche determinante, giacché proprio nel prendere in esame la questione dell’evoluzionismo di Alfred Russell Wallace tra Darwin e Spencer (così come recita il sottotitolo del libro) la Visone, con rigoroso metodo scientifico, precisione nella registrazione e interpretazione delle fonti, in special guisa in merito al tema dei temi, la selezione naturale appunto, ha davvero messo a posto alcune decisive coordinate segnatamente al dibattito evoluzionistico britannico di metà Ottocento in cui Darwin è evidentemente protagonista oltre che, come si diceva, punto di caduta ad ampio spettro. Ma non l’unico protagonista e, perciò, sulla scorta di una ricostruzione complessiva e allo stesso tempo dettagliata è stato possibile centrare le questioni a partire dalla messa in parallelo dei veri attori di questo dibattito.

Nel far perno su Wallace, difatti, nell’evidenziare come e dove il co-scopritore del meccanismo della selezione naturale (cfr. ad esempio le pp. 124 sgg., ma in realtà i Capp. II e III) si differenzi dalla prospettiva di Darwin, in special modo, sotto anche l’influenza spenceriana, nell’abbracciare una visione complessiva dei processi evolutivi, l’autrice con distesa capacità ricostruttivo-espositiva ha letteralmente messo a posto le cose chiarendo, di riflesso come si accennava, transiti darwiniani all’un tempo tanto sdrucciolevoli quanto risolutivi.

Tuttavia, com’è ovvio, si rende necessario procedere con ordine.

In prima battuta, nel Primo dei tre capitoli che compongono il testo, dedicato a La Species Question prima del 1859. Darwin, Spencer, Wallace (pp. 1-44), con approccio in tutto e per tutto fedele a una metodologia investigativa di un’autentica storia delle idee, l’autrice ha finemente ricostruito il contesto, l’aria in cui ha preso forma l’Origine delle specie. E quando ci si riferisce alla metodologia investigativa di un’autentica storia delle idee, si sta dicendo che con notevole maturità la Visone, consapevole che non è possibile arenarsi all’«impossibilità di distinguere fra storia di fatti e storia di idee» e indi tirar dritto, ha virato in direzione dell’unica condotta scientifica formulabile e prospettabile, quella che implica l’impossibilità di «asservimento della realtà a una logica», il «ripudio di qualunque filosofia del pensiero puro» nonché il «rifiuto di qualunque deduttivismo che da un totale ordine concettuale – dato o posto – ricavi la definizione di singole situazioni di vita». L’idea, infatti – finanche quella di selezione naturale –, non è «incontaminata astrazione», bensì è umana ideazione che modella e costruisce forme: «forme storiche della civiltà, in cui l’essenziale umanità dell’uomo faticosamente si esprime esplicando la propria attività caratterizzante, che è nell’insoddisfazione dell’immediatezza empirica, nella volontà di idealizzare il reale, nel moto perpetuo di una tensione perfezionante» [P. Piovani, Filosofia e storia delle idee, Laterza, Bari 1965, pp. 8-9].

Quando Roberta Visone ha constatato che l’evoluzione era nell’aria ha realmente ricostruito, da un lato, il contesto storico-concettuale nelle sue coordinate essenziali ai fini dello sviluppo delle effettive teorie evoluzionistiche. Dall’altro ha ricondotto dette coordinate essenziali nell’alveo della propria genuina genesi e relativo svolgimento mettendo sotto la lente indagatrice anzitutto l’assunzione in ragione della quale il «vasto corpus di concetti “evoluzionistici” era già ampiamente penetrato nel dibattito biologico britannico degli anni Trenta grazie alle dottrine settecentesche del trasformismo francese» (p. 5). Al netto dei colpi di coda del pensiero teologico (p. 9 sgg.), davvero ricco di motivi contenutisticamente ben intrecciati tra loro è l’iter che la Visone ha seguito. Percorso convincente, teso ad approdare al fatidico 1859 dove, piaccia o meno, si registra la prima vera determinante composizione del dibattito britannico ottocentesco.

Difatti e come già si segnalava, le notevoli intuizioni relativamente a  un primitivo abbozzo in forma scientifica di trasformismo biologico – prima di Georges Buffon poi, soprattutto, di Jean Baptiste Lamarck, il quale nella sua Storia naturale degli animali senza vertebre aveva enunciato quattro leggi che, in pratica, rappresentavano la prima vera formulazione scientifica della modalità in cui si verificherebbe la trasformazione degli organismi – in seno a questo dibattito hanno consentito l’elaborazione di una sistematica teoria al fine di supportare proprio il trasformismo biologico. Una teoria, al netto delle differenze tra gli animatori del dibattito di cui la Visone analizza le prospettive, che si salda a due ordini di fatto ben precisi: l’esistenza di piccole variazioni organiche che si registrano negli esseri viventi nel corso del tempo; la lotta per la vita che occorre tra gli stessi per la tendenza di ogni specie a crescere secondo progressione geometrica.

È da questi due assunti che è poi stato possibile dedurre il fatto che gli individui presso i quali si manifestano mutamenti organici “vantaggiosi” hanno maggiori probabilità di sopravvivere nella lotta per la vita. In virtù, conseguentemente, del principio di eredità, in essi infatti vi sarà la tendenza, pronunciata, a lasciare appunto in consegna ai propri discendenti i caratteri acquisiti accidentalmente. Questa Legge della selezione naturale, che «agisce esclusivamente tramite la conservazione e l’accumulo delle variazioni che risultano benefiche nelle condizioni, organiche e inorganiche, di vita cui l’organismo è esposto nei diversi periodi dell’esistenza» tende, in altri termini, al raffinamento/specializzazione «di ciascun organismo» «in rapporto alle sue condizioni» e «conduce inevitabilmente al graduale progresso dell’organizzazione del maggior numero di viventi in tutto il mondo» [C. Darwin, L’origine delle specie per selezione naturale (1859), Newton, Roma 2004, p. 136].

È in questo solco che si è fatta definitivamente strada l’idea che la natura non è in alcun modo orientata ma anche, cosa questa ancor più importante come pure precedentemente si diceva, che la natura non ci si presenta come centrata sull’uomo.

Questo enorme lavoro di dissodamento, ricostruzione e ricomposizione svolto con estrema scioltezza e scorrevolezza dalla Visone, oltre evidentemente ad affondare le proprie radici in un’attività di scavo e approfondimento intensa e complessa (s’invita a dare solo uno sguardo alla Bibliografia, pp. 129-143, per rendersi conto non solo della mole ma, anche e soprattutto, dell’impegno profuso sulle fonti), trova il suo sviluppo e apertura compiuta nei Capp. II e III, ovvero quelli rispettivamente dedicati a Oltre i disegni, gli argini essenzialistici e le leggi necessitanti: The Origin of Species (pp. 45-78) e Una selezione sempre meno naturale. L’influenza di Spencer e il ritorno del Design negli scritti wallaceani (pp. 79-127).

Ora qui le questioni distillabili e analizzabili sarebbero non poche tanto più se si considerano le competenze pregresse della Visone su Spencer (basti qui solo far menzione della monografia del 2010 dedicata a Prima dell’evoluzione. Le radici politiche della filosofia di Spencer e la Social Statics del 1850 nonché la traduzione italiana del testo spenceriano The proper sphere of government del 2013). Quella che, su tutte, offre davvero un contributo originale e meritevole di segnalazione in considerazione delle solidissime basi investigativo-preparatorie su cui poggia, è relativa proprio alla tesi di fondo. Quella attorno alla quale è possibile, quasi prospetticamente, reimmergersi nel testo stesso. La tesi in virtù della quale il co-scopritore della teoria/meccanismo della selezione naturale – ovvero Wallace che, com’è noto, ne condivide con Charles Darwin la primogenitura – abbia teso a differenziarsi proprio dal naturalista di Shrewsbury, abbracciando una visione complessiva dei processi evolutivi. In ciò risentendo dell’indiscutibile influenza di Herbert Spencer, in particolar modo sulle tematiche collegate all’evoluzione da intendersi quale “progresso”.

Come si sa, è documentato che Darwin e Wallace hanno elaborato all’insaputa l’uno dell’altro una propria teoria dell’evoluzione per selezione naturale, basandosi su un’enorme quantità di osservazioni personali combinate con la lettura critica di alcuni testi chiave. In tal senso, in una sorta di parallelismo di “tavoli di lavoro”, cruciali per entrambi furono lo scritto di demografia umana An essay on the principle of population (1798) dell’economista Thomas R. Malthus e il trattato Principles of geology (1830) di Sir Charles Lyell.

La letteratura, consolidata in merito, vuole che nonostante alcune differenze di accento su certi punti, la teoria di Darwin e quella di Wallace si siano dimostrate sostanzialmente identiche e la paternità della scoperta legittimamente appartiene a entrambi, al punto che le conclusioni di Wallace collimerebbero in qualche modo con quelle di Darwin: entrambi ritenevano, ad esempio, che la grande variabilità delle popolazioni congiunta alla severa decimazione operata regolarmente dall’ambiente, costituisca base d’appoggio per un cambiamento evolutivo.

E proprio da qui, anche e come si accennava, tramite l’influsso della filosofia di Spencer, s’inseriscono nella proposta di Alfred Russell Wallace una serie di elementi contrastanti con alcuni decisivi snodi teorici darwiniani, primo fra tutti quello della casualità, tant’è che «nel corso degli anni Sessanta dell’Ottocento le opinioni di Wallace e Darwin sul significato della selezione naturale divergono fino a diventare incompatibili» (p. 79).

Di fatto Wallace si è orientato in direzione di «una concezione dell’evoluzione dell’uomo sempre meno armonizzabile coi nuclei teorici fondamentali dell’ortodossia darwiniana» (p. 79). Ciò a dire che il naturalista di Llanbadoc stava assumendo «una posizione “iperselezionista”, contraddistinta da un adattazionismo radicale in base al quale tutti i tratti utili vengono considerati come il risultato diretto del processo della selezione» (p. 81).

E ancora (stavolta sotto l’influenza diretta di Spencer): quando Visone rileva che «in una lettera degli inizi di luglio 1866 Wallace propose a Darwin di sostituire il termine “natural selection” con l’espressione introdotta da Spencer nei Principles of biology» e cioè, sopravvivenza del più adatto, ci troveremmo di fronte al decisivo rilievo in considerazione del quale «la personificazione della natura suggerita dall’assimilazione della selezione naturale alla selezione artificiale avrebbe esposto la dottrina di Darwin a una serie di equivoci» (pp. 106-107). Ciò a dire del fatto che qui «Wallace sottolinea il carattere distruttivo della selezione naturale: essa non agisce come il coltivatore o l’allevatore selezionando le variazioni di suo interesse, bensì elimina le variazioni sfavorevoli» (p. 107).

Ulteriormente: «la visione della selezione naturale come forza distruttiva – quasi una “purificazione del tipo” da varianti inferiori, alla quale Darwin contrappone la caratterizzazione del processo selettivo in un senso creativo e produttivo – è anche spenceriana. Il significato che Spencer attribuisce al termine “sopravvivenza del più adatto”, a dispetto di quanto si potrebbe credere, è irriducibile alla nozione darwiniana di selezione naturale: l’alternativa che egli avanza ripropone, seppur ammodernandolo e dinamizzandolo, il paradigma tradizionale dell’oeconomia naturae che la “rivoluzione darwiniana” mirava a rovesciare. […] È comprensibile che, essendo connesso con l’idea che l’evoluzione consista in una sorta di continuo perfezionamento della specie, il concetto di “sopravvivenza del più adatto”, accolto con tempestività da Darwin dopo l’invito di Wallace, si sarebbe rivelato molto più insidioso della metafora della selezione naturale» (p. 108).

Ora non è possibile addentarsi oltre nelle sapienti e persuasive ricostruzioni della Visone: già questo lungo passaggio dovrebbe esser sufficiente a esibire la sagacia chirurgica con la quale l’autrice ha messo mano ad argomenti così complessi per dimostrare la propria tesi.

Pur tuttavia va sottolineato un altro nodale passaggio del testo: quello in cui da un lato è fatta emergere con chiarezza la consapevolezza dello stesso Wallace in merito; dall’altro, e correlativamente, si indica il punto in cui si consuma il distanziamento anche da Spencer. «Nel 1870 il co-scopritore della selezione naturale appare del tutto consapevole di essersi allontanato definitivamente dall’ortodossia darwiniana con la pubblicazione dei Contributions, e di essere arrivato a sfidare il proverbiale agnosticismo huxleyano», tanto che «nel saggio conclusivo dei Contributions, The limits of natural selection as applied to man […] Wallace tratteggia l’immagine del “selettore” soprannaturale che, appena tre anni prima, sulla scia delle osservazioni di Spencer, aveva ritenuto essere pericolosamente sovrapponibile alla metafora darwiniana della selezione naturale. Pur richiamandosi al superiore statuto dell’uomo riconosciuto da Spencer nella Social statics (dove la felicità umana viene presentata come fine di una divine idea), l’antropogenesi wallaceana si tinge dunque di toni spiritualistici che hanno ormai ben poco a che fare anche con le concezioni “teistiche” del primo evoluzionismo spenceriano» (p. 125).

Insomma, una sorta di complessiva inversione di marcia tant’è che «nell’estate del 1870, recensendo i Contributions, lo zoologo svizzero René Edouard Claparède attaccò duramente l’idea di “intelligenza superiore” alla quale Wallace si era appellato per elevare l’uomo al di sopra delle altre creature» (p. 127).

Come che sia in merito – forse sarebbe più confacente parlare di dinamicità, per quanto a tratti sovvertitrice – nel far tutto quello che s’è detto nei termini del contributo scientifico fedele a una metodologia investigativa di un’autentica storia delle idee, la Visone ha tallonato Wallace, seguendone la parabola speculativa che, come sovente accade, non è lineare bensì, per certi versi, a raggiera. Con chiarezza ci ha mostrato che Wallace è stato davvero scienziato moderno, incarnando già il paradigma attorno al quale si muove la scienza contemporanea – ovvero tutt’altro che assiomatico e assertorio ma, al più, relativistico e transitorio – tant’è che «se anche la mia idea non dovesse essere quella giusta, le difficoltà che ho sollevato rimangono, e credo provino che qualche legge più generale e più fondamentale sta sotto quella della selezione naturale» [A.R. Wallace, Contributions to the theory of natural selection. A series of essays, Macmillan & Co., London & New York 1870, p. 360].

 

Gianluca Giannini

S&F_n. 28_2022

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