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Philippe Borgeaud, Sara Petrella Le singe de l’autre. Du sauvage américain à l’histoire comparée des religions [Bibliothéque de Genève-Éditions des Cendres, Genève-Paris 2016, pp. 128, € 24]


Sin dall’antichità, l’occidente europeo ha adottato la strategia di definire la sua identità in contrasto con un’alterità radicale composta di esseri ibridi o uomini folli e idolatri, situata ai margini della società o addirittura oltre le frontiere del mondo conosciuto. Dai cinocefali descritti da Ctesia ed Erodoto, attraverso la figura dell’homo selvaticus e fino alla stregoneria del XVII secolo, ogni epoca ha definito la sua idea di umanità e di civilizzazione tracciando il ritratto dettagliato del suo contrario, insistendo sul suo riflesso deformato e grottesco. Nel XV secolo, quando si è trattato di descrivere gli abitanti del Nuovo Mondo, esploratori, missionari e colonizzatori disponevano dunque di un vasto repertorio d’immagini d’antropofagi, ibridi uomo-animale, idolatri e streghe, con il loro corollario di nudità, danze oscene e rituali occulti. Non è difatti raro trovare, nelle prime incisioni che illustrano i racconti di viaggio in America, dei diavoletti forniti di ali di pipistrello e zampe di rapace che sorvolano svolazzando un mondo popolato da bestie sconosciute e uomini nudi dediti al massacro reciproco e al cannibalismo.In seguito, il nuovo statuto dell’immagine che si impone a partire dal XVII secolo, dopo il Concilio di Trento, che risponde all’iconoclasmo protestante, e la rivoluzione scientifica galileiano-copernicana, decide del valore di un’illustrazione sulla base del suo essere la riproduzione fedele di un’osservazione, autoptica e oggettiva. Le incisioni e le descrizioni testuali che accompagnano i resoconti e le relazioni dei viaggiatori si offrono dunque al lettore come riproduzioni fedeli della realtà, e come tali sono percepite e riprodotte per secoli, fino a entrare nella cultura popolare, da un lato, o a contribuire alla genesi del discorso etnoantropologico, dall’altro. Ma ciò non impedisce a editori e incisori del XVIII secolo di continuare a rifarsi a testi precedenti, a stereotipi antichi e medievali, e d’inserire nelle loro opere, che esse descrivano il Brasile o la Nuova Francia, riferimenti polemici all’attualità europea con lo scopo di fare propaganda religiosa e politica, o di attirare sponsor interessati a investire nell’esplorazione e nel commercio con le colonie.Scritto a quattro mani da uno storico delle religioni e una storica dell’arte, Le singe de l’autre fa parte di una nuova collana editoriale intitolata «Le monde dans une noix», che ha lo scopo di mettere in valore i tesori conservati nella Biblioteca di Ginevra. Questo testo, che si presenta come una dettagliata descrizione di due importanti opere illustrate dell’inizio del XVIII secolo che trattano degli usi e dei costumi degli autoctoni amerindiani, arricchita da oltre 80 immagini, non solo ne ricostruisce la storia editoriale, ma soprattutto decostruisce un momento storico di passaggio nel quale il «selvaggio» non è più il riflesso mostruoso o ridicolo dell’uomo civilizzato, come era stato fino alla fine del XVII secolo, ma non è ancora l’oggetto di studi biologico-razziali che diventerà nel secolo successivo.La prima parte del libro di Borgeaud e Petrella presenta nel dettaglio le due opere in questione, e cioè le Cérémonies et coutumes religieuses de tous les peuples du monde, pubblicata da Jean Frédéric Bernard e illustrata da Bernard Picard (Amsterdam 1723), e le Mœurs des sauvages américains comparées aux mœurs des premiers temps, del gesuita Joseph François Lafitau, le cui incisioni sono attribuite a Jean-Baptiste Scotin e ai suoi collaboratori (Parigi 1724). Se Lafitau, missionario in Nuova Francia, ha come scopo dichiarato quello di provare l’origine adamitica di tutte le credenze e pratiche religiose dell’umanità, allo scopo di ribadire la superiorità della Rivelazione cristiana (ovviamente nella sua versione cattolica), Bernard, protestante, ma con tendenze deiste, presenta tutte le religioni sullo stesso piano, allo scopo di contribuire a creare una visione del mondo libera dalle superstizione – e in ciò può essere considerato vicino ai libertini dell’epoca e precursore dell’Illuminismo. Entrambi, tuttavia, rifiutano le teorie in voga per spiegare le differenze tra le religioni e i popoli del mondo (e soprattutto di quelli che, inspiegabilmente, non sono nominati nella Bibbia) – e cioè quella dell’«imitazione diabolica», sostenuta dai missionari spagnoli, la «teoria del plagio», quella delle «razze preadamitiche», o l’idea che gli autoctoni siano semplicemente «atei» (e quindi folli, secondo la tradizione medievale). Per quanto, dunque, Lafitau sostenga un punto di vista universalista e intriso di teologia, e Bernard sia piuttosto scettico e relativista, le due visioni – contemporanee, ma indipendenti – introducono una prospettiva apertamente comparatista nella cultura dell’epoca e per questo contribuiscono ad aprire non solo quel campo di studi che prenderà il nome di «storia comparata delle religioni», ma anche a fondare l’etnoantropologia moderna.Questi due sistemi di pensiero contraddittori condividono dunque non l’interpretazione, ma l’osservazione dei fatti, e cioè la stessa visione dell’alterità, incarnata, in maniera quasi prototipica, dall’autoctono amerindiano. La seconda parte de Le singe de l’autre illustra questa consonanza, che potremmo definire come metodologica, a partire dalla scelta del materiale iconografico preesistente del quale i due editori disponevano. Entrambi, infatti, decidono, in maniera assolutamente indipendente, di riprendere talvolta non solo le stesse fonti, ma addirittura le stesse immagini, e ne offrono ciascuno la propria versione e la propria interpretazione. Entriamo dunque nel campo di una ricerca puramente iconografica, nella quale l’evidente somiglianza di alcune delle illustrazioni del XVIII secolo con quelle che accompagnano le più celebri relazioni di viaggio della fine del XVI costringe il lettore a riflettere sullo statuto stesso dell’illustrazione scientifica, e non solo in campo etnoantropologico.Per gli umanisti, sia l’Antichità sia il mondo dei «selvaggi» rinviano alle origini dell’uomo, a un passato che può essere tanto idilliaco quanto crudele. Di conseguenza, alla scoperta del Nuovo Mondo, la creazione delle immagini che accompagnano i racconti di viaggio riattiva innanzitutto una serie di topoi antichi, presenti già in Erodoto e Strabone, dalla pelosità animalesca del corpo, alla nudità, alla gesticolazione frenetica, alla danza e l’idolatria. Ma, soprattutto, gli autori mostrano che tanto Lafitau quanto Bernard attingono, interpretandole e modificandole ognuno alla sua maniera, non solo alle immagini dei Tupinamba del Brasile di de Bry, de Léry e Thevet (per illustrare, però, gli Amerindiani del Nord-est), ma addirittura ai testi dei mitografi e degli antiquari del XVI secolo, che riproducevano divinità, riti e simboli greco-romani ed egiziani. Infine, a complicare ulteriormente questa genealogia del selvaggio, Borgeaud e Petrella ricordano che la presa di distanze di Bernard dalle danze e dal gesticolare dei «preti» autoctoni costituisce una (nemmeno tanto) velata allusione polemica di stampo protestante e iconoclasta ai riti dei cattolici; e che si tratta, in fondo, della stessa accusa di idolatria che aveva giustificato, dall’altra parte dell’Atlantico, la sottomissione e il massacro degli autoctoni da parte dei cattolici. Ogni uomo è davvero «la scimmia di un altro», come scrive Bernard.Tra le tante piste aperte da questo ricco studio, tra i tanti sentieri interrotti a causa dei vincoli imposti dal soggetto della ricerca e dalle sue finalità, due di essi meriterebbero soprattutto d’essere ripresi. Il primo concerne una visione teorica più generale di questo momento di transizione, che gli autori situano all’inizio del XVIII secolo e nel quale, sembrano suggerire, l’intervallo tra l’esaurirsi della visione del «selvaggio» come animale quasi diabolico e l’affermarsi del razzismo biologico crea un vuoto, uno spazio di libertà nel quale è possibile, se non liberarsi di stereotipi e pregiudizi, almeno scegliere consapevolmente quali riattivare e a che scopo.Il secondo punto è lasciato intenzionalmente alle ultime pagine della conclusione. Se il «selvaggio», in questo passaggio storico, non è più un ibrido uomo-animale, ma non è nemmeno ancora appartenente a una «razza» differente, cosa lo differenzia dall’uomo «civilizzato»? Tanto Lafitau che Bernard lasciano ben poco spazio ai miti e alle cosmogonie degli Amerindiani, che per loro non sono altro che deformazioni degli stessi miti e racconti e meglio conservati nelle statue, nei monumenti e nei libri degli Antichi. Allora come si descrive, come si identifica una popolazione che fisicamente non è poi tanto diversa dal resto dell’umanità e che non ha lasciato tracce del suo passato? Se ciò che i «selvaggi» sono e dicono non basta, occorrerà rivolgersi a ciò che essi fanno, ai loro abiti, ai loro utensili, certo, ma soprattutto ai loro gesti, alle loro danze. Che sia per criticarla come un corollario dell’idolatria, come fa Bernard, o da considerare come una forma di religione primitiva, come afferma Lafitau, entrambi prendono in considerazione la danza come una forma di memoria immateriale, gestuale, fatta di immagini in movimento. Occorrerà allora riflettere ancora sulla rapida sparizione di questa «antropologia dell’immagine» ancora in nuce e sulla sua successiva riapparizione, due secoli dopo. 

Aldo Trucchio

S&F_n. 18_2017

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