Chi ha una seppur minima frequentazione con i libri di Michel Serres non può che avere una sensazione costante di inattualità: la sua prosa, sempre in equilibrio tra elegante suggestione e dissonante rigore, fascinans et tremenda, richiama costantemente al compito di complessa inattualità che un’elaborazione realmente filosofica (nel senso più originario del termine) dovrebbe necessariamente portare con sé in vista della sua attualizzabilità. Questo libro, che risale al 1990 e che pochi mesi fa, in epoca di Antropocene, l’editore Feltrinelli ha deciso giustamente di ripubblicare, ci pone dinanzi a un’elaborazione della percezione del nostro tempo che si gioca tutta tra attualità e inattualità (basti pensare che si tratta di un libro che ha già, in questi tempi di iper-velocità comunicativa, una veneranda età, trent’anni, e che davvero potrebbe essere stato scritto oggi – molti, infatti, in un modo o nell’altro, non stanno smettendo di riscriverlo).
L’Antropocene, perché di questo si parla anche se non era stato ancora coniato questo termine fortemente ideologizzato e ideologizzante, in quanto epoca in cui l’umano sarebbe divenuto potenza geologica e il cui sintomo determinante sarebbe il surriscaldamento globale, è stato descritto spesso come una sorta di “risveglio” (Bruno Latour, per indicare il più noto) – l’“uomo” (ovviamente: Bianco, Occidentale e Civilizzato), grazie all’ambiguità sempre coltivata della sua razionalità “riflessiva”, si sarebbe al fine accorto che la sua potenza economica e tecnica, così come si era strutturata, lo stava condannando e andava organizzata diversamente – un “risveglio” che, però, nelle proposte mainstream di soluzione a quello che è il problema del nostro tempo inteso contemporaneamente nel senso meteorologico del clima e nel senso creativo della durata della nostra individuazione psichica e collettiva, non sembra condurre a un passaggio di soglia capace di superare il sogno/incubo delle verità accumulate negli ultimi cinque secoli; sembra piuttosto portare (se tutto va bene) a rallentare una rotta (leggi: Green New Deal e/o ipotesi geoingegneristiche) che conduce sempre e comunque a quei famosi scogli che, al di là del risveglio riflessivo, vediamo già da tempo avvicinarsi e che rappresentano la più classica delle Apocalissi senza Regno a venire. Michel Serres, dunque, comprende bene come il tempo del nostro presente, quello che in un modo o nell’altro scorre, sia il tempo del «brevissimo termine» (p. 44), il tempo della consumazione dell’attuale, di un metabolismo con attitudine «stercoraria o escrementizia» (p. 48) che si determina nel diritto di proprietà (elemento decisivo e complementare alle pratiche di dominio su uomini e nature), mentre il tempo di cui avremmo bisogno, nella potenza umana dell’azione e dell’immaginazione, è il tempo del lungo termine, la previsione o preveggenza, la costruzione della durata creativa della nostra comune natura evolutiva, psichica e collettiva. Questo libro allora ha davvero la potenza dell’inattuale, proprio perché l’attualizzabilità nella nostra attualità deve oltrepassare l’attuale del nostro tempo di breve termine e, allo stesso tempo, la potenza dell’attualità, per divenire davvero attuale, nel senso del passaggio da potenza a atto, deve necessariamente attuare ciò che è davvero inattuale nel nostro tempo, il tempo di lungo termine. Non si tratta – si badi bene – di un gioco di parole ad effetto, un coup de théâtre di un recensore che gioca con le idee di un filosofo che la sa lunga su come usare parole e concetti; non si tratta di una sorta di suggestione ipnotica, calda presenza quando proviamo godimento nel pensare e nell’essere altrimenti nel breve spazio sognante della lettura, e di cui poi dobbiamo dimenticarci al “risveglio” del Beruf del business as usual: seguendo realmente le indicazioni di questo libro, si tratta né più né meno di mettere in discussione radicalmente e definitivamente, senza finzioni o idòla del pensiero, il nostro modo di produzione, capitalistico ed estrattivista, che sfrutta, digerisce e produce immondizie e scarti di umani e mondi – mettere in discussione vale a dire trasformare l’esistente materialmente e nell’immaginario; si tratta poi di riplasmare i fondamenti della nostra scienza moderna, che ha ridotto la natura a mero oggetto allo stesso tempo di studio e di dominio e che, in un strano effetto distorcente di ritorno, sembra essere alla base della tecnica, neutra protesi del nostro antropocentrismo, mentre è effettualmente l’inverso – scienza moderna che è già-sempre “orientata” pur presentandosi ideologicamente come forza plasmatrice “neutra” e “responsabile”; si tratta infine di costruire gli spazi di un nuovo contratto, di un nuovo “legame”, il “contratto naturale” del titolo, che vada oltre la narrazione teatrale e giuridica del “contratto sociale” e del “diritto naturale”, utile ai tempi di Descartes e Hobbes per introdurre la Santa Alleanza (reazionaria per definizione) tra nascita del capitalismo, genesi e struttura della scienza moderna e fondamento giuridico atomizzante sulla base dell’equivalenza tra ragione e un certo uso ideologico della nozione di “natura”. Il libro è suggestivo, fascinans? Forse: ma la posta in gioco, oggi come ieri, nella nostra lunga attualità moderna (a dire il vero, ben poco “riflessiva”), è talmente concreta, che risulta tremenda. E va da sé che il libro è complesso, non potrebbe essere altrimenti.
Il libro, dicevamo, è stato pubblicato nel 1990, e anche la data non è di poco conto: si tratta di un momento storico di passaggio tra la fine della possibile “fine del mondo” connessa alla Guerra Fredda, e l’inizio della “fine del mondo” connessa al “risveglio” del disastro ambientale – un fenomeno di passaggio dall’incubo atomico all’incubo ecologico, una soglia tra due “fini”, temute almeno quanto evocate, una pulsione di morte che l’Occidente sembra dover coltivare necessariamente: la continuità tra queste due percezioni della fine è data propria dalla discontinuità che pone la questione della relazione tra umano e natura, che si sposta e si ridetermina, ponendo nuove minacce, ancora più complessive. E quella che, nel “lontano” 1990, sembrava a Michel Serres la vera minaccia, di cui poi soltanto un paio di decenni dopo la nostra razionalità riflessiva ci ha resi finalmente consapevoli, viene analizzata all’interno di una serie di passaggi teorici elaborati con grande suggestione e rigore.
Innanzitutto, il fatto decisivo dell’ingresso della natura nella storia e della storia nella natura (in piena assonanza con le affermazioni di Dipesh Chakrabarty, giunte una ventina d’anni dopo), la conseguenza è la fine del dispositivo fondamentale della storia e della sua interpretazione moderna: «sino a oggi la nostra gestione del mondo passava attraverso la belligeranza, così come il tempo della storia aveva nella lotta il suo motore» (p.20), tutto questo starebbe per (o dovrebbe, per meglio dire) essere superato – il modello delle “guerre soggettive” (quelle, per intenderci, tra stati e che hanno caratterizzato le vicende umane) dovrebbe tendenzialmente scomparire, nel momento in cui a venire in primo piano sarebbe la “violenza oggettiva”, quella che oppone tutta l’umanità a ciò che ha pensato sempre come sfondo, la natura o il mondo (in queste affermazioni, sembrano leggersi in anticipo alcune riflessioni “politiche” di Bruno Latour, contenute ad esempio in Tracciare la rotta). Il conflitto crescente sarà una guerra dei mondi: da un lato «il mondo mondano dei nostri contratti» (p. 22), quello del «teatro della dialettica» (p. 21), della storia e delle guerre (del resto «la storia comincia con la guerra» (p. 23) così come il contratto sociale hobbesiano), e dall’altro «il mondo mondiale delle cose» (p. 22), quello dello sfondo naturale (che poi sfondo non è), del mondo che muta, di quella Terra che rischia di sommergere entrambi i belligeranti come i duellanti di Goya con cui si apre questa narrazione filosofica. Occorre abbandonare il “mondo mondano” in favore del “mondo mondiale”: «la crescita dei nostri mezzi razionali ci spinge, a una velocità difficile da valutare, nella direzione della distruzione del mondo che, per un effetto di ritorno piuttosto recente, può condannarci tutti insieme, e non più per località, all’estinzione automatica» (p. 25) – se il diritto e il contratto sociale sono nati per permettere la sopravvivenza delle comunità umane a partire dalla violenza soggettiva che poteva portare alla distruzione (e guerra, dominio e sfruttamento sono stati i suoi strumenti), ora che si sta scatenando la “violenza oggettiva”, quella del mondo, della natura, della Terra, suscitata dalla “pacifica” concorrenza economica (profitto e sfruttamento), occorre lavorare a «un patto nuovo da firmare con il mondo: il contratto naturale» (p. 25). Un patto che può essere stipulato soltanto se comprendiamo, preliminarmente, che non siamo tutti sulla stessa barca: certo, il libro di Michel Serres potrebbe mostrare i medesimi difetti di tanta riflessione contemporanea sull’Antropocene, soprattutto per quanto concerne l’ideologico e anti-dialettico siamo tutti sulla stessa barca (cosa non vera né all’origine capitalista ed estrattivista del problema né negli esiti intermedi – la crisi ambientale ricade già oggi maggiormente sul Sud del mondo e nel Nord sulle classi di dannati, cosa al massimo vera soltanto se l’eventuale fine del mondo arriverà davvero alla fine della sua fine, ma questa fine non finisce in un attimo, è un lungo percorso nel tempo), ma è anche vero che ha la forza di proporre strumenti teorici e immaginifici di cui può essere sempre utile servirsi anche in contesti di elaborazione differenti.
E arriviamo così al cuore del libro, alla soglia: «qui si biforca la storia: o la morte o la simbiosi» (p. 50) dice Michel Serres, in una di quelle sententiae di cui l’argomentazione è ricca. Dopo aver dimostrato efficacemente come il dispositivo giuridico moderno (dal contratto sociale al diritto naturale, fino alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo) escluda di fatto il mondo, ponendo al centro il parassitismo dell’umano (e non che manchi di radicalità in affermazioni di questo tipo: «il parassita prende tutto e non dà nulla (…) il diritto di dominio o di proprietà si riduce al parassitismo», p. 55), la questione si sposta immediatamente sul che fare?: «aggiungere al contratto esclusivamente sociale la stipulazione di un contratto naturale di simbiosi o di reciprocità in cui il nostro rapporto con le cose lascerebbe dominio e proprietà per l’ascolto ammirativo, la reciprocità, la contemplazione e il rispetto, in cui la conoscenza non presupporrebbe più la proprietà, né l’azione il dominio, e l’una e l’altra non presupporrebbero i loro risultati o condizioni stercorarie» (p. 54). C’è dell’utopia naïve, dell’inattualità, è ovvio: ma c’è anche un programma di massima, un orizzonte complessivo, che può essere sempre utile come promemoria per elaborazioni teoriche e prassi di intervento che dovrebbero permeare questo nostro tempo di passaggio.
E così, la riflessione – sempre tra il fascinans e il tremendum – è attraversata da una serie di figure e il nodo centrale è la relazione che intercorre tra scienza e diritto, caratterizzata dai processi (nel senso giuridico del termine) che hanno di fatto costituito la storia del sapere occidentale: sul palcoscenico della riflessione sale innanzitutto Zenone di Elea, l’Anfoteroglosso, fondatore della dialettica e colui che, a seconda della tradizione, morde l’orecchio del sovrano fino a che non viene ucciso dalle guardie o stacca la propria lingua a morsi, per sputarla addosso al sovrano, suscitando la rivolta della massa – «la scienza prevale sul diritto» (p. 88), dice Serres, anche se il vero conflitto resta aperto, quello tra «la giustizia e la giustezza» (p. 87), quello tra ragione che intende giudicare e ragione che intende dimostrare: «quando e come diverranno simbionti?» (ibid.) è la vera domanda che attraversa quella che viene considerata la questione fondante dell’organizzazione dei saperi in Occidente; poi, è la volta del processo ad Anassagora di Clazomene, filosofo della natura e colui che ha dimostrato come essa sia extra-giudiziale, luogo di non-diritto, pur richiamandosi alla natura come vera legislatrice, a tal punto che, quando viene condannato a morte, ritiene che quella condanna sia stata pronunciata già dalla natura al momento della nascita – dunque: «il diritto prevale sulla scienza» (p. 99). E allora, chi sopravanza l’altro? Evidentemente, non c’è soluzione: «in un primo tempo le leggi prevalsero sulle scienze, processo dopo processo; la scienza prevale sulle leggi, poiché ciascuno di essi è oggetto di revisione, alla luce della ragione; ma il diritto prevale perché la logica interna della storia, anche delle scienze, rimane quella del diritto; ma la scienza ha il sopravvento perché delega sempre a rappresentarla presso i tribunali i suoi periti; ma… La metapolemica della scienza e del diritto, della ragione e del giudizio, non si dirime definitivamente e costituisce il tempo della nostra storia» (p. 105). Ma poi si giunge al più famoso dei processi alla scienza, quello che vede imputato Galileo Galilei, e che sancisce la nascita della scienza moderna: «la scienza, e la scienza soltanto, ha tutti i diritti (…) alla fine, la scienza, unica competente, rimane padrona del terreno e della Terra» (p. 110); il diritto può interrogarsi sul mondo degli uomini, ma la natura appartiene alla scienza, e, proprio perché appartiene alla scienza e non riguarda il mondo del diritto positivo tra gli umani, allora può divenire contemporaneamente terra di conquista, di dominio e di appropriazione violenta, oltreché di studio disinteressato per il severo ingenuo che vi crede. Si tratta allora del gesto aurorale della modernità: la scissione del mondo umano dal mondo della natura, quello che allo stesso tempo ha prodotto ed è stato prodotto dalla Santa Alleanza di capitalismo, scienza e diritto moderno, e che ci sta portando allo schianto dell’Apocalisse senza Regno a venire.
Certo, il libro di Serres può stupire ulteriormente, soprattutto quando si richiama alla necessità di ripensare – in vista del “contratto naturale” – l’esperienza profonda del religioso, il senso di una “religione” (dall’etimo di legare, connettere, riunire) diligente del mondo (e non negligente che è l’opposto di religioso): «attraverso i contratti esclusivamente sociali, abbiamo lasciato il legame che ci connette al mondo, quello che lega il tempo che passa e scorre al tempo che fa, quello che mette in relazione le scienze sociali e le scienze dell’universo, la storia e la geografia, il diritto e la natura, la politica e la fisica, il legame che rivolge la nostra lingua alle cose mute, passive, oscure, che in virtù dei nostri eccessi riprendono voce, presenza, attività, luce. Non lo possiamo più trascurare» (p. 66). E la religione è nulla senza amore: se la prima legge è quella che comanda di amare il prossimo – che poi se il prossimo sono fondamentalmente i vicini, allora si arriva al razzismo, se invece il prossimo è tutta l’umanità, mentre la sfruttiamo, è soltanto «ipocrisia diffusa dei moralisti predicatori» (p. 67) – la seconda legge, davvero determinante, deve essere quella di amare il mondo, non nel senso di suolo, non terra e sangue, ma un «amore universale della Terra fisica» (p. 67).
Il percorso stabilito da Michel Serres è un percorso più concreto di quanto possa sembrare: si tratta di un libro che spinge all’azione anche se sembra rifugiarsi in un immaginario contemplativo, intimo ed esistenziale. L’effetto è quello di una scarica elettrica anche quando nell’ultima pagina si legge: «Chi sono io? Un tremito di niente, che vive in un sisma permanente. Ora, per un attimo di felicità profonda, al mio corpo vacillante viene a unirsi la Terra spasmodica. Chi sono io, ora per qualche secondo? La Terra stessa. In comunione, in amore lei e io, doppiamente smarriti, palpitanti insieme, riuniti in un’aura. L’ho vista, con i miei occhi e il mio intelletto, poco fa; infine, con il mio ventre e i miei piedi, con il mio sesso sono lei» (p. 158).
Questo libro è un’esperienza e come con ogni esperienza non dobbiamo necessariamente concordare in ogni suo momento, ma un’esperienza è già sempre un’apertura all’azione. Possiamo vivere esperienze paniche, o possiamo agire perché si possano ancora vivere. Agire oggi significa rovesciare la Santa Alleanza che Michel Serres, in un libro-esperienza capace di andare dall’universale al particolare, dal collettivo allo psichico, dall’esteriorità all’intimo, e vice versa, ha raccontato con precisione e rigore. Prima cambiare il mondo, poi godere di legami e amori che vanno sempre al di là e che difficilmente, ora, riusciamo a intravedere.
Delio Salottolo
S&F_n. 23_2020