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Ludwig Binswanger – La psichiatria come scienza dell’uomo – a cura e con un saggio introduttivo di Bianca Maria D’Ippolito [Mimesis, Milano-Udine 2013, € 12]


L’intero senso di questo volume potrebbe essere espresso da questa considerazione, secondo la quale «lo psicoterapeuta di orientamento analitico-esistenziale dovrà dunque indicare il rapporto che ha con il malato non come “contatto psichico”, in analogia con il rapporto tra due batterie elettriche, ma come libero incontro di liberi sull’“abisso dell’esserci”» (pp. 53-54). In questa breve e fulminante citazione si raccoglie tutta l’intensità del progetto di Binswanger: da un lato la necessità di una riflessione profonda sul senso della libertà che soltanto nell’incontro trova la sua realizzazione, dall’altro la definizione concreta e reale di un abisso, sul limitare del quale si agitano le azioni degli individui “sani” e “malati”, o, come preferirebbe lo stesso psichiatra svizzero, le azioni degli uomini al di là della separazione, avvenuta in un momento preciso e secondo dispositivi da analizzare, tra “uomo sano” e “uomo malato”: «quanto più queste ricerche, come del resto i moderni metodi fisicali e chimici in psichiatria, si sviluppano sotto il segno della comunicazione esistenziale e non solo dell’ambizione psico e fisioterapeutica e della routine terapeutica, tanto prima anche il folle, abbandonato il ruolo del combattente cieco e martire sulla scena della follia, potrà essere da parte sua un compagno dell’esistenza, cioè non solo un uomo sano, ma un uomo» (p. 55). L’immagine dell’abisso, che fa da sfondo all’intero progetto di Ludwig Binswanger, richiama da vicino la sua rappresentazione del terribile come ciò che precede ogni possibile modificazione ontica della struttura ontologica fondamentale, o, come direbbe la D’Ippolito nel bel saggio introduttivo, «ciò che dà allo spazio dell’esser-uomo la sua curvatura e il suo significato è il “terribile”, in cui la possibilità è l’essere esposti all’annientamento come alla realizzazione» (p. 30). Il “dramma” dell’esistenza per Ludwig Binswanger non risiede in una qualche concezione “naturale” della malattia – una concettualizzazione in questo senso è assolutamente assente dal suo programma di una psichiatria come scienza dell’uomo – ma nella determinazione fondamentale dell’ek dell’ek-sistere proprio dell’uomo: la storicità, il mondo della possibilità, la realizzazione e l’annientamento risiedono, in definitiva, nello stesso ek dell’uomo ed è per questo che la malattia e la salute rappresentano modalità differenti di realizzare la propria struttura esistenziale ed è sempre per questo che la differenza sostanziale tra queste due modalità, la salute e la malattia, sta tutta nella realizzazione delle possibilità, tra infinito della realizzazione e finitudine dell’annientamento nell’incontro sempre possibile tra esistenze differenti sull’orlo dell’abisso: «solo nel rischio di tale incontro, infatti, sarà possibile allo psichiatra aprire all’altro uomo malato che è per lui il compagno dell’esistenza la comprensione della struttura dell’esserci umano, indicargli dove, come e quando in questa struttura egli si è “perduto nelle altezze”, posto “di sghembo”, irrigidito nella “maniera”, perduto nei sogni, smarrito, abbattuto, per trarlo via dal suo mondo di eccentricità, obliquità o irrigidimento manieristico, nel mondo della cura comune; per trarlo, dal suo sotterraneo mondo-buca o mondo-caverna sulla terra; per ricondurlo dal suo mondo sghembo o distorto al mondo del “diritto”» (p. 54). Ed è in questo senso che Ludwig Binswanger può costruire un modello all’interno del quale – ancora una volta, verrebbe da dire – il folle incontra il poeta e il filosofo sul limitare dell’abisso: mentre il “folle” è colui che si abbandona in un modo o nell’altro «agli artigli del “grande avvoltoio dell’angoscia”» (p. 53) e in lui il terribile diviene destino, il poeta e il filosofo, che riescono a immergersi nelle profondità delie e abissali del terribile, hanno sempre la possibilità di volgersi di nuovo alla vastità del mondo delle possibilità umane, attraverso un movimento che solo può permettere l’incontro e la comunicazione esistenziale; soltanto chi è in grado di risiedere nell’angoscia e di agire la scena del terribile può aprirsi alla vera simpatia, alla vera comunicazione sull’orlo dell’abisso. La D’Ippolito suggerisce, nel saggio introduttivo, che «il folle, il poeta e il filosofo (come fenomenologo) rappresentano per Binswanger tre modi per esperire il terribile, in quanto essi sono i tre modi esemplari del manifestarsi dell’essenza umana nel suo forte rapporto con la figuralità. Visione delirante, visione poetica e visione d’essenza rappresentano l’inquietante lavoro del ‘demoniaco’ o dell’immaginazione trascendentale, che non fa sorgere un mondo se non distruggendo e consumandone temporalmente la forma» (p. 31). Il motivo, insomma, per cui la psichiatria è una scienza dell’uomo sta proprio nel fatto che essa, partendo dai risultati dei saperi “scientifici e operativi” delle scienze naturali ma non seguendo la seduzione di una rappresentazione dell’essenza come semplice-presenza, può permettere l’apertura alla stessa problematizzazione che investe ogni avventura umana nel mondo e portare avanti ciò che ha iniziato Freud, «la trasformazione della nostra conoscenza dell’essere umano e della nostra idea di scientificità» (p. 77).Quest’opera di Ludwig Binswanger, dunque, rappresenta una sorta di summa della sua riflessione, sia dal punto di vista filosofico sia dal punto di vista psichiatrico, e il testo si compone di tre interventi brevi ma densissimi, raccolti dallo stesso autore all’interno di un’unica pubblicazione. Il primo saggio, La psichiatria come scienza dell’uomo, cerca proprio di raccontare la maniera attraverso la quale è concepibile l’idea di una psichiatria che abbia al proprio centro l’idea di uomo come esserci, non soltanto nella sua gettatezza ma nella sua struttura fondamentale: Heidegger viene “evocato” spesso nelle pagine di Binswanger e lo stesso psichiatra svizzera ci tiene a sottolineare come la differenza fondamentale tra il filosofo tedesco e lo psichiatra-fenomenologo consista proprio nel fatto che il primo analizza la struttura fondamentale (ontologica) dell’esserci, il secondo, in maniera empirica, analizza le modificazioni ontiche cui questa struttura può andare incontro, nella consapevolezza che «noi non potremmo affatto parlare di forme e corsi di esistenza determinati, averli dinanzi, se la fondamentale struttura ontologica dell’Esserci non mostrasse in ogni effettivo modo di esistenza, differenze ben determinate, che si possono indicare in modo preciso» (p. 35). Il terzo saggio, brevissimo, della raccolta si intitola proprio Martin Heidegger e la psichiatria e rappresenta un omaggio al filosofo tedesco e una sottolineatura della sua importanza anche nell’ambito appunto della psichiatria.Il secondo saggio, infine, rappresenta il confronto tra Ludwig Binswanger e Sigmund Freud; nonostante la distanza più volte segnalata dallo stesso psichiatra nei confronti dell’“inventore” della psicanalisi, si tratta di un saggio molto complesso e che, attraverso la definizione di tutto il percorso di avvicinamento e confronto tra i due, determina qual è l’apporto fondamentale di Freud alla conoscenza della struttura fondamentale dell’uomo e delle sue “deviazioni”. L’elemento probabilmente più innovativo dell’analisi di Binswanger è rappresentato sicuramente dal fatto che Freud sarebbe un filosofo della natura e non soltanto della natura umana, laddove l’elemento fondamentale della sua riflessione consiste proprio nel sostantivo “natura” più che nell’aggettivo “umana”: «se ci ricordiamo del fatto che dietro ogni sogno v’è un atto psichico pienamente valido, o, che per Freud è lo stesso, una connessione psichica di senso nel suo pieno valore; e se tale connessione di senso è ricostruibile solo in “ampia misura” come “inconscia”, se almeno “in un punto” si perde nell’inconoscibile, ne deriva che l’homo natura va considerato come un essere “dotato di senso”, tale cioè che nutre “mire e tendenze” fin nelle profondità insondabili del suo essere. Tali mire e tendenze però non si trovano solo nell’essere dell’uomo singolo, ma nell’essere della natura, e ciò deriva dal fatto che “ciascuno di noi esseri umani” corrisponde ad uno degli innumerevoli “esperimenti” in cui le “ragioni della natura entrano nell’esperienza”» (p. 75). È proprio l’unità di psiche e natura a rendere vertiginosa l’esperienza di pensiero di Freud e, a nostro avviso, nelle parole di Binswanger, si respira ancora una volta l’idea che la vera rivoluzione concettuale della modernità sia rappresentata dal darwinismo: la vita è qualcosa che eccede l’uomo e di cui l’uomo non è che un’espressione limitata e “finita”, o, come forse preferirebbe Binswanger, limitata e finita nella misura in cui può essere illimitata e in-finita nelle sue mire e tendenze. La psiche è complessa e “potente” nella misura in cui tutta la vita è complessità e potenza. Il fatto che Freud, in poche parole, non raggiunga mai o non ritenga di poter raggiungere mai un risultato definitivo o una “verità” sulla struttura della psiche umana e giochi tra meccanismi di personalizzazione delle funzioni e spersonalizzazione della coscienza, rappresenta più che una prudenza empirica una sorta di timore reverenziale nei confronti dell’immensità e insondabilità della natura. Insomma, un testo fondamentale, non soltanto per lo “studioso” di Ludwig Binswanger, ma anche per tutti coloro che si interrogano sul destino dell’uomo, sulla scena terribile da cui prende avvio la sua esistenza, sull’abisso intorno al quale si gioca la piccola porzione di vita umana tra salute e malattia, tra potenzialità e impotenza, tra in-finito e finitudine.

Delio Salottolo

S&F_n. 14_2015

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