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Jason W. Moore – Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria [Introduzione e cura di Alessandro Barberi, Emanuele Leonardi ombre corte, Verona 2017]

Il saggio di Jason W. Moore si chiude con un richiamo allo stesso tempo chiaro e perentorio per tutti coloro che si occupano di scienze umane e sociali: «è giunto il momento di aprire un dibattito serio su come forgiare una visione radicale che assuma come proprie premesse la totalità organica della vita, la biosfera, la produzione e la riproduzione» (p. 142). Si tratta, insomma, di un progetto allo stesso tempo teorico e pratico che abbia al centro la pensabilità e la costruzione di pratiche politiche volte al superamento di quell’insieme discorsivo e politico formato da un lato dalla razionalità riflessiva moderna, fondata sulla distinzione (foriera di ibridazioni autoritarie) tra natura e cultura, e dall’altro – e in maniera determinante – da quella che, all’interno del saggio, viene definita ecologia-mondo capitalista.

Il dibattito sui cambiamenti climatici o, per meglio dire, sul cosiddetto surriscaldamento globale è all’ordine del giorno, ma molto spesso – soprattutto in Italia, dove tali discussioni portano un evidente ritardo – il livello risulta essere troppo colpevolmente mainstream e davvero poco efficace. Al centro di questo dibattito (anche dal punto di vista massmediatico) si trova il concetto di “Antropocene”, la supposta nuova era geologica il cui operatore fondamentale sarebbero l’uomo e le sue attività: lo stesso termine richiama appunto l’impatto determinante dell’anthropos, concepito come un tutto indifferenziato (un universale astratto dai contesti socio-politici), sulla natura, concepita allo stesso tempo come un ambiente incontaminato e innocente (la wilderness) e come un tutto indifferenziato che si oppone (nel senso del trovarsi di fronte) all’anthropos. In questo senso, la pubblicazione dei saggi dello storico ed economista Jason W. Moore rappresenta una boccata d’ossigeno nel panorama editoriale italiano, non solo perché presentano in maniera chiara la posta in gioco che si trova dietro al dibattito ambientalista, ma anche perché mostrano allo stesso tempo una posizione originale (anche se non esente da possibili critiche) e una sfida per il pensiero e l’azione.

Jason W. Moore intende immediatamente presentare la “pericolosità” del concetto di Antropocene, quando usato al di fuori dell’ambito di definizione geologica, nella misura in cui riesce sì a fotografare un cambiamento importante nella relazione uomo/ambiente, ma, nello stesso tempo in cui lo “fotografa”, lo mistifica: all’interno di tale “definizione” non si può che leggere «un insieme idealistico di frammenti che ignorano i rapporti storici costitutivi che hanno condotto il pianeta sul baratro dell’estinzione» (p. 29); quello che è possibile definire “Antropocene alla moda” funziona mediante una visione complessiva di popolazioni, ambienti e storie dominata dall’uso delle risorse e completamente astratta dalla dimensione di classe e, genericamente, di potere. In poche parole, l’Antropocene, come concetto-sintomo, nega la disuguaglianza e la violenza del capitalismo, per cui responsabile della catastrofe che potrebbe porre fine al mondo sarebbe un astratto anthropos. Importante è comprendere come, per lo storico ed economista, non si tratti di mettere in discussione l’impostazione geologica che si trova dietro alla definizione di Antropocene, quanto le concettualizzazioni che, muovendo da tale definizione geologica, tendono a mistificare l’intera storia occidentale dell’ultimo mezzo millennio; da qui l’idea di accogliere la definizione di Capitalocene, laddove esso «non è un argomento sulla storia geologica […] è, piuttosto, un tentativo di pensare la crisi ecologica» (p. 31).

Il Capitalocene è, secondo Jason W. Moore, quell’epoca il cui inizio è databile nel lungo XVI secolo (secondo la periodizzazione braudeliana – ma si tratta di un’impostazione molto distante da quelle mainstream, che tendono a vedere l’inizio della nuova epoca, l’Antropocene, di volta in volta con l’invenzione della macchina a vapore, con il primo test della bomba atomica, o, addirittura, con l’introduzione dell’agricoltura) e la cui caratterizzazione è, dal punto di vista teorico, il dualismo cartesiano (la visione di una natura-risorsa), e, dal punto di vista politico-economico, il modo di produzione capitalistico – la Modernità sarebbe la vicenda complessiva di una costruzione concettuale fondata contemporaneamente sulla razionalità riflessiva, che divide umano e naturale, e sul capitalismo, che ha prima prodotto e reso poi operativa questa distinzione e che può essere definito come un modo di organizzare la natura stessa, un’ecologia-mondo. Alla base della teorizzazione e della ricostruzione storico-concettuale di Jason W. Moore si trova un ripensamento della teoria marxiana del valore, per cui il valore «opera attraverso una dialettica di sfruttamento e appropriazione, che illumina il particolare rapporto del capitalismo con la natura» (p. 45); i rapporti di valore, secondo l’economista, si fondano da un lato sul “lavoro sociale astratto” (la produzione) che si determina come lavoro retribuito e sfruttamento, dall’altro sulla “natura sociale astratta” (la ri-produzione) che si determina come lavoro non-retribuito e appropriazione. La “natura sociale astratta” permette, così, di spiegare il capitalismo come unità di potere, produzione, ricchezza e benessere nella rete della vita e come un processo che non ha al centro lo “Stato”, in più consentirebbe di andare oltre il dualismo puramente economicista di struttura/sovrastruttura.

Per Jason W. Moore, allora, «la legge del valore è un modo per organizzare la natura» (p. 102) e il termine “valore” deve intendersi sia nel suo significato economico che in quello morale, nella misura in cui il capitale riesce a mobilitare tutto il suo potere simbolico per rappresentare l’arbitrarietà dei rapporti di valore come “oggettiva”; si tratta chiaramente di una posizione marxista piuttosto eterodossa e, se è vero che occorre accogliere la teoria marxiana del valore (e, soprattutto, la teoria della sottoproduzione, secondo la quale la capacità di trasformare materie prime in merci cresce più in fretta della capacità di produrre le materie prime), è anche vero che essa debba appunto essere integrata dalla dimensione dell’appropriazione della natura sociale astratta (la cosiddetta natura a buon mercato) – con un certo gusto per il paradosso, si afferma che «la lotta riguardante il rapporto tra esseri umani e resto della natura nel sistema-mondo moderno è necessariamente una lotta di classe» (p. 106).

In questo senso la rivoluzione industriale non può essere la “causa” del Capitalocene, ma soltanto un “effetto” di un riordino della biosfera da parte del capitalismo nella sua longue durée: il capitalismo si presenta come un’ecologia-mondo, e, con questa definizione, deve intendersi il fatto che esso presenti una particolare configurazione mediante la quale riordina la biosfera, mettendo a profitto non solo la natura umana (la forza lavoro) ma anche le nature extraumane (risorse). Si tratta di superare una sorta di feticismo dell’industrializzazione dovuto all’attitudine “aritmetica” della Modernità che tende a pensare, anche nel contesto delle critiche di matrice marxista all’ecologia, il rapporto tra capitale e natura come una somma tra elementi “esteriori” e non come «capitalismo-nella-natura» (p. 52); natura e società non sono che violente astrazioni ideologiche, prodotte dal lento avvento del capitalismo, il quale dunque si determina come una “pratica” che, oltre a operare come matrice di sfruttamento dell’umano, crea la natura come un oggetto esterno, la cui appropriazione è a “buon mercato”. 

L’origine del Capitalocene sta nella rivoluzione della relazione lavoro-terra e nella «supremazia della produttività del lavoro come misura della ricchezza» (p. 68 – l’idea è braudeliana) all’interno della zona di mercificazione (da intendersi come la parte del mondo caratterizzata da produzione più scambio) e, allo stesso tempo, nella rivoluzione globale nella zona di appropriazione (colonialismo) – l’inizio del Capitalocene non può che essere l’inizio del modo di produzione capitalistico e del modo di ri-produzione imperialistico. Si tratta, dunque, di una co-produzione tra accumulazione di valore (costruzione del “lavoro astratto”) e appropriazione della “natura astratta” (natura costruita come “esterna”): se è vero, dunque, che «il capitalismo deve mercificare la vita e il lavoro», esso «dipende dalla “appropriazione gratuita” di vita e lavoro non mercificati» (p. 72).

Il nodo, dunque, riguarda la crisi odierna del capitalismo che si intreccia con la crisi ecologica e ambientale: seguendo analiticamente la sua proposta, lo storico afferma che «il “limite” ecologico del capitale è il capitale stesso» (p. 129), nella misura in cui la crisi del primo decennio del XXI secolo si configura come un’incapacità di compiere un rinnovato balzo in avanti nella produttività del lavoro e nel reperimento e ripristino della natura a buon mercato (forza-lavoro, cibo, energia e materie prime); secondo Jason W. Moore si assisterebbe all’esaurirsi dei rapporti di valore che hanno dato avvio alla trasformazione radicale agli inizi della modernità. Ma quale dovrebbe essere la strada da percorrere per “uscire” da una crisi che è allo stesso tempo crisi economica e crisi ambientale e che, entrambe, sembrano presagire più una possibile apocalisse che non una palingenesi? La pars costruens è sempre quella più rischiosa e, in effetti, Jason W. Moore lascia soltanto poche indicazioni (almeno, per il momento): innanzitutto, superare il falso conflitto tra “posti di lavoro” e “salvaguardia dell’ambiente” (in Italia è il tema che riguarda l’ILVA di Taranto); in secondo luogo, mettere al centro il problema della ri-produzione socio-naturale a partire dalle battaglie del femminismo (lavoro non-retribuito); infine, invocare unità di intenti e collaborazione stretta tra classe operaia e militanza ambientalista. Sullo sfondo l’idea che vi sia una “trilettica” (p. 141) del lavoro nel modo di produzione capitalistico: la forza-lavoro, il lavoro umano non retribuito e il lavoro della natura, e che soltanto facendo esplodere questa contraddizione è possibile pensare nuove modalità in vista della costruzione di un’ecologia-mondo rinnovata, solidale, sostenibile e senza sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e della natura da parte dell’uomo. Un nuovo modo di pensare le relazioni transindividuali e transpecifiche.

Delio Salottolo

S&F_n. 21_2019

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