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Helmuth Plessner – Antropologia filosofica – tr. it. a cura di Oreste Tolone [Morcelliana, Brescia 2010, pp. 168, € 15]


All’Università di Gottinga, il 30 gennaio del 1936, Plessner tenne una prolusione dal titolo Die Aufgabe der Philosophischen Anthopologie, (Il compito dell’antropologia filosofica), edito per la prima volta l’anno successivo dalla rivista «Philosophia». Mentre questo saggio rappresenta un atto di fondazione dell’antropologia filosofica, quello del 1973, Der Aussagewert einer Philosophischen Anthropologie (Il valore propositivo dell’antropologia filosofica), costituisce una risposta alle obiezioni di fondo mosse dall’ontologia fondamentale heideggeriana al progetto di svolta antropologica degli anni Venti-Trenta. I due scritti, raccolti in Antropologia filosofica, costituiscono un’importante testimonianza del percorso compiuto dalla teoria sull’uomo in un periodo denso di trasformazioni culturali, politiche e sociali. Composti a quasi quarant’anni di distanza, i saggi rispondono a diverse sollecitudini e si focalizzano su due momenti fondamentali dello sviluppo della disciplina.A Gottinga, Plessner inaugurò l’anno accademico rivendicando la dignità di una scienza che stava faticosamente guadagnando la propria posizione tra la fenomenologia husserliana e l’esistenzialismo heideggeriano, mentre dal confronto con l’evoluzionismo darwiniano, lo storicismo di Dilthey e le molteplici scienze umane sorte dallo specialismo di matrice positivistica ricavava i fondamenti del proprio statuto epistemologico. In un contesto così articolato e complesso, caratterizzato dal crollo di teorie onnicomprensive della realtà e dalla crisi dei modelli offerti dalle autorità, la riflessione plessneriana, nel saggio del 1937, si concentra sulla responsabilità dell’antropologia filosofica «nei confronti della vita pratica e delle sue forze» (p. 49), dato che il suo spazio di indagine non può essere delimitato categoricamente da verità aprioristiche.Nel dissolvimento di un mondo determinato dall’antichità e dal cristianesimo, l’uomo, ora totalmente abbandonato da Dio, trovandosi di fronte alla minaccia di sprofondare nell’animalità, rinnova la domanda sull’essenza e sul fine dell’essere umano (p. 48).L’antropologia filosofica studia «“l’uomo” “nel” mondo; mondo che rappresenta una breccia verso orizzonti aperti e la cui plurivocità e insondabilità, così come la sua essenziale insicurezza, hanno dato all’uomo, nel richiamo e nella minaccia dell’esperienza storica, la coscienza di essere “uomo”» (p. 49).La fondazione dell’antropologia filosofica, quindi, passa attraverso la delineazione di compiti, funzioni, obiettivi e strumenti, indispensabili per conquistare un terreno fertile e libero in cui possa radicarsi, non prima di aver tessuto un legame con la tradizione filosofica, le scienze umane e la situazione storica della vita umana. Sin dall’inizio l’operazione appare complicata. Questa nuova scienza è in bilico tra la massima specificazione e la massima generalizzazione, perché cerca di studiare l’uomo «in quanto uomo» (p. 50) evitando, da un lato, il ripiegamento interiore della ricerca, rinvenibile nella filosofia di Kierkegaard, e, dall’altro, le istanze universalistiche di tipo romantico o idealistico, per cui «l’uomo sarebbe in fondo soltanto sangue o popolo o ragione o storia» (p. 51). La prima responsabilità dell’antropologia filosofica rispetto al tribunale della storia consiste nel riconoscimento della costituzionale arrischiatezza (Gewagtheit) dell’essere umano, ossia della sua insondabilità e plurivocità. L’uomo è un essere in continuo divenire, per cui non esiste una proprietà, diversamente identificata nel corso della storia, in grado di attestare definitivamente l’umana essenza, che, pertanto, rimane un definiendum, rendendo sempre aperta e mai risolvibile la questione antropologica. «Formule strutturali non possono rivendicare alcun valore teoreticamente-conclusivo [abschliessend-theoretischen], bensì un valore introduttivo-espositivo [ausschliessend-exponierenden]» (p. 54).Sono dunque tre i principi fondativi di questa affascinante e complessa disciplina: l’equivalenza metodologica di tutti gli aspetti in cui si rivela l’essere e l’agire umano, l’unità di tali aspetti e la consapevolezza dei limiti teoretici di una scienza che ha a cuore la responsabilità pratica di fronte all’insondabilità delle possibilità umane. A differenza di Heidegger e Jaspers che separano la sfera essenziale dell’uomo da quella empirica, l’antropologia filosofica ha il compito di ricomporre ogni forma di dualismo, non solo quello cartesiano tra sostanza estesa e sostanza pensante, ma anche quello tra Geist e Drang presente nella riflessione scheleriana, al fine di costruire un’immagine unitaria dell’essere umano, scevra da ogni forma di dogmatizzazione.Stabilire i limiti dell’antropologia filosofica significa riconoscerne l’impossibilità di pervenire a soluzioni definitive, che per Plessner costituiscono «il più grande pericolo per l’uomo» (p. 57). La filosofia deve trovare il coraggio di operare una scepsi senza riserve, condotta con i mezzi di una critica scientifica. La funzione catartica, infatti, rende possibile la libertà di decisione, consegna l’uomo alla sua responsabilità storica, ossia quella di fare di sé un uomo attraverso un costante processo di autocomprensione, che sappia farsi carico della morte di Dio e del tramonto delle grandi narrazioni: «Noi non supereremo questa scepsi finché non l’avremo realizzata. La scepsi realizzata, nel senso del suo superamento, è possibile solo come antropologia filosofica» (p. 57)».Il processo di emancipazione dell’uomo dalle autorità si riflette nel cammino della ricerca filosofica, che perviene a un grado più elevato di maturazione proprio attraverso la offene Frage, la scepsi radicale, la critica scientifica. Se Kant, nel XVIII secolo, operava la critica trascendentale per definire le condizioni di esistenza, i limiti e la validità della scienza fisico-matematica, la cui circoscrizione lasciava spazio alle domande sulla libertà, l’immortalità e l’esistenza di Dio, nel XX secolo l’antropologia filosofica tenta di applicare il lavoro critico su se stessa, per respingere ogni presunzione teoretica e arginare l’umana ybris – ossia l’autodivinizzazione – alimentata dai progressi della scienza e della tecnica. Per svolgere il suo compito essa deve collaborare con le scienze specialistiche fungendo da nesso interno. Soltanto così essa potrà realizzare il suo scopo, ossia «limitare il potere dell’uomo ampliando al massimo la consapevolezza della sua insondabilità e incertezza riguardo all’origine del suo futuro, per fare di nuovo spazio alla fede nell’uomo» (p. 76).Definiti i compiti e i fini dell’antropologia filosofica, Plessner affronta un’altra sfida. Nel saggio del 1973, Il valore propositivo dell’antropologia filosofica, difende la scienza che aveva contribuito a fondare dalle accuse che le furono rivolte da Heidegger sia in Essere e tempo (edito nel 1927, un anno prima della pubblicazione de La posizione dell’uomo nel cosmo di Scheler e de I gradi dell’organico e l’uomo di Plessner), sia nel 1929 nel saggio Kant e il problema della metafisica. Proprio in quest’ultimo scritto Heidegger colpisce alle fondamenta l’antropologia filosofica, destituendola di senso e valore, poiché afferma che il problema dell’uomo è riconducibile alla domanda circa l’essere, rispetto alla quale tutte le altre questioni della filosofia sono destinate a retrocedere. Quella di Heidegger è una vera e propria «clausola di sbarramento» (p. 81), dalla quale non si può prescindere: «secondo lui, la domanda “Che cosa è l’uomo?”, oggi sottoposta al peso della secolare tradizione filosofica – che vive di questa domanda e che da questa domanda è stata perennemente mossa – non può più essere sollevata in tutta la sua gravità se prima non viene chiarita la questione che riguarda la parolina “è”» (p. 81).La storia della filosofia occidentale, da Platone in poi, secondo Heidegger è la storia di un errore, un errore nato da una domanda posta male, in quanto implica l’entificazione dell’essere, ossia la riduzione della domanda circa l’essere alla domanda sull’ente. Piuttosto che chiedersi «Che cos’è l’essere?», provocandone la reificazione, la filosofia deve porsi la domanda: «Qual è il senso dell’essere?», travalicando i confini dell’ente e adeguandosi alla chiamata dell’essere. Solo l’ontologia può svelare la costituzione dell’essere dell’esserci (Dasein), mostrando come essa renda intrinsecamente possibile la comprensione dell’essere. Quest’ontologia, che ha il compito di fondare la possibilità della metafisica, ossia la finitezza dell’esserci come compito dell’ontologia stessa, si dice fondamentale. Essa già include la questione antropologica, perché implica logicamente il problema della finitezza dell’uomo, fatto che rende possibile la comprensione dell’essere. Caratteristica esclusiva dell’essere umano è infatti la capacità di interrogare se stesso, trasformando così l’orizzonte della conoscenza umana. Proprio la trasformabilità, la gettatezza, la precarietà dell’essere umano riflettono la sua costituzionale insicurezza, in base alla quale Husserl potè accusare Heidegger di antropologismo: «egli non voleva che la sua ontologia fondamentale, in quanto filo conduttore dell’umano modo di esserci e della sua collocazione nell’esserci come domanda sull’essere, venisse scambiata con un’antropologia. Tuttavia, contro la sua volontà, tenne questa strada aperta» (p. 86)».Heidegger, preferendo il sentiero che portava all’esistenza, escluse, secondo Plessner, la “vera” vita. Per Heidegger la vita è possibile solo in quanto manifestazione dell’esistenza, intendendola come Ek-sistenz, ossia lo stare nell’illuminazione dell’essere, nell’autotrascendimento che fa dell’uomo l’unico essere vivente in grado di porsi la domanda circa l’essere. Per questo motivo non ha senso chiedersi cosa sia l’uomo, poiché questo significa rimanere all’interno di una logica ontico-esistentiva, precludendosi la dimensione ontologico-esistenziale. Per Plessner invece la vita non è una variabile dell’esistenza, ma è l’esistenza una possibilità della vita. Solo chi vive può esistere, ossia accedere a quella che lui chiamava Exentrizität, una dimensione in cui si realizza l’intreccio tra l’essere un corpo (Leib) e l’avere un corpo (Körper), intreccio grazie al quale l’essere umano può guardarsi dall’esterno, trovando di volta in volta le migliori soluzioni ai problemi cui il mondo lo sottopone. Solo per il fatto che c’è vita può darsi in essa qualcosa di nuovo e originale, un modo di esistere capace di interrogarsi sulla vita e sul suo fondamento. Se l’esserci, secondo Heidegger, costringe a rivedere il rapporto di priorità tra l’essere e la vita, secondo Plessner è la vita la condizione di possibilità del Dasein , del modo e del darsi dell’interrogativo ontologico. 

Maria Teresa Speranza

S&F_n. 13_2015

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