S&F_scienzaefilosofia.it

Gottfried Wilhelm Leibniz – Leibniz allo specchio. Dissimulazioni erudite – a cura di Francesco Giampietri, Prefazione di Antonio Lamarra [Mimesis, Milano 2012, pp. 206, € 16]


Il filosofo che Nietzsche definì temerario e misterioso in sé fino all’estremo a tre secoli di distanza dalla sua morte non smette di offrire numerosi spunti di indagine e di riflessione. Leibniz, come aveva voluto puntualizzare Vittorio Mathieu, costituisce ancora oggi uno degli agenti più attivi del pensiero filosofico e scientifico. La sua influenza nel pensiero del Novecento non si riduce al campo logico ed epistemologico, ma investe diversi ambiti della filosofia, dalla metafisica alla teologia. Tracce del pensiero leibniziano si incontrano in Bergson, Whitehead, Husserl. Eppure, la vocazione enciclopedica del filosofo di Hannover non è stata pienamente restituita dalla storiografia tradizionale, come sostiene Francesco Giampietri, studioso del pensiero filosofico e scientifico del Seicento e curatore dell’opera Leibniz allo specchio. Il testo ci invita a considerare la sorprendente varietà degli interessi culturali del filosofo, dalla geogonia al diritto naturale, dalla farmacopea alla teodicea. Il volume raccoglie per la prima volta tutti i contributi relativi agli scritti di Leibniz apparsi sugli «Acta eruditorum» , la rivista filosofico-scientifica che Leibniz fondò nel 1682 insieme a Otto Mencke, docente di filosofia morale e politica all’Università di Lipsia: recensioni, autorecensioni, compendi e note editoriali. Giampietri utilizza come criterio redazionale la scelta di documenti giornalistici spesso trascurati dalla storiografia più influente. Si tratta di sette scritti, compresi tra il 1691 e il 1711, che «offrono un’esemplificazione della strategia leibniziana di divulgazione delle idee nella comunità intellettuale del tempo» (p. 14), ossia la “Repubblica delle Lettere”.Dissimulazione ed enciclopedismo: queste le caratteristiche salienti dei documenti contemplati dalla raccolta. Lo specchio in cui si riflette l’immagine di Leibniz è quello dell’autorecensione anonima, un elogio della dissimulazione che secondo Villari è «una delle chiavi più importanti e più adatte a decifrare la realtà complessiva della politica barocca» (p. 14). Il velo della dissimulazione emerge dal gusto barocco per l’anamorfosi e il trompe-l’oeil, tecniche pittoriche che in letteratura si traducono nella creazione di illusioni, attraverso l’uso dell’anonimato e dello pseudonimo. Leibniz dissimulava la propria identità, nascondendola oppure ingaggiando un alter ego: il Teofilo dei Nouveaux Essais, il Pacidio del Pacidius Philalethi, il Lubinianus del Phoranomus e molti altri ancora. Si serviva della dissimulazione per diversi scopi: recensire pubblicamente alcune sue opere, biasimare un editore scorretto, favorire la diffusione di uno scritto. L’intento comune dei documenti raccolti in Leibniz allo specchio è di tipo divulgativo, ossia contribuire alla diffusione del patrimonio filosofico e scientifico dell’epoca. Il sapere, non più concepito come una prerogativa esclusiva di pochi eletti, comincia a essere ritenuto un bene comune, una risorsa cui l’umanità ha il diritto di attingere. La strategia di comunicazione, infatti, costituisce il fondamento del progetto culturale cui Leibniz prende parte: la comunicazione è la condizione indispensabile per lo sviluppo della conoscenza perché ne consente la diffusione e quindi l’accrescimento. La conoscenza è comunicazione.Alla «concentrazione antiquaria del sapere» (p. 16) si contrappone un nuovo modello culturale: quello dell’intellettuale frequentatore di corti e accademie, collaboratore e lettore di riviste scientifiche, che fa propria l’alleanza della theoria cum praxi. Un intellettuale che conduce un progetto culturale, ossia fondare uno spazio comune autonomo e indipendente rispetto alla realtà socio-politica, una comunità ideale fondata sull’universalità della conoscenza e la libera circolazione delle idee: una “Repubblica” il cui fondamento non è politico ma culturale. Nell’Europa divisa dalla riforma protestante e dal nuovo ordine della pace di Westfalia, l’emergenza culturale avvertita dagli studiosi era proprio quella di contribuire alla diffusione europea delle idee filosofiche e scientifiche, favorita anche dall’ampliamento dei commerci epistolari (zona franca dalla censura) e dall’attività semiclandestina di collegia e solidalitates.In questo clima nascono gli «Acta eruditorum», «un caleidoscopio di contributi saggistici, di trattazioni matematiche, […] di resoconti ed esperimenti, di recensioni giammai imparziali, di note polemiche» (p. 18). Leibniz e Mencke, per non compromettere la vocazione internazionale del loro progetto editoriale, rinunciarono alla Muttersprache, pur consapevoli della piena legittimità letteraria della lingua tedesca e della sua importanza culturale. L’intento divulgativo della rivista era più forte e così scrissero in latino, la lingua veicolare della scienza. Gli scritti in latino sono riportati nella seconda parte dell’opera, mentre la prima parte ne raccoglie le traduzioni, ampiamente corredate da note esplicative. L’insieme dei testi scelti dal curatore restituiscono la complessità del pensiero leibniziano, una linea mobile che attraversa la matematica, la logica, la teologia, la teodicea, il diritto e la storia naturale. Dagli scritti si evince una concezione enciclopedica del sapere, di un sapere universale che in virtù della sintesi theoria cum praxi applica i principi della matematica all’ingegneria, della teologia all’etica, della giurisprudenza alla politica, della scienza alla cura del corpo. La filosofia assume un risvolto pratico, perché dalle leggi generali della scienza si desumono i criteri fondamentali con cui orientare le opere, le scelte e i comportamenti umani. La conoscenza è volta al perfezionamento delle tecniche, al miglioramento della qualità della vita, allo sviluppo dell’umanità.Il primo contributo è una nota editoriale del 1691, relativa alla seconda edizione della Dissertazione sull’arte combinatoria, che Leibniz redasse all’età di diciannove anni e che gli valse, oltre all’abilitazione in filosofia, il titolo di magister, conseguito presso l’università di Altdorf. Il tema dell’opera è il problema dell’ars inveniendi, che consiste nel trovare, dato un soggetto, tutti i suoi possibili predicati o nel trovare, dato un predicato, tutti i sui possibili soggetti. In questo modo, procedendo con un metodo assiomatico, si analizzano i pensieri umani, espressi attraverso le proposizioni, ed è possibile giungere a una sorta di «alfabeto delle nozioni primitive» (p. 46) . Le idee e le combinazioni delle loro relazioni, infatti, possono essere rappresentate simbolicamente, in modo da definire un catalogo di nozioni primitive. Questo, essendo un instrumentum rationis, consiste in un inventario nel quale i concetti sono ordinati secondo le categorie fondamentali ed è utilizzabile come clavis universalis dei saperi. L’intento della nota è chiaramente polemico: Leibniz accusa l’editore di aver ristampato il libretto a sua insaputa, in questo modo esso risulta non del tutto conforme al suo pensiero e alla sua personalità, che con il passare degli anni, chiaramente, maturano e si evolvono. Leibniz «desidera pertanto ammonire i lettori a non credere che quel libretto sia stato rimesso ora in circolazione da lui. E ritiene che l’editore della nuova edizione, chiunque esso sia, sia stato scorretto nei suoi confronti, soprattutto perché non ha fatto neppure un accenno al fatto che quest’edizione non è che una ristampa della precedente versione, pubblicata tanti anni fa» (p. 47). La Dissertazione fu composta in un periodo in cui il filosofo aveva appena cominciato a cimentarsi nella matematica superiore, perciò presenta alcuni errori relativi alla determinazione dei modi delle figure sillogistiche. Errori che Leibniz non ha potuto correggere, non essendo stato avvertito della ristampa dell’opera, come non ha potuto emendare il passo relativo alla dimostrazione dell’esistenza di Dio, che, pur contenendo «qualcosa di buono, al momento non appare all’autore ancora del tutto risolta» (p. 48).La nota editoriale è seguita da un Compendio della Protogaea, composta in occasione di una ricerca condotta sulle caratteristiche naturali della regione montuosa dello Harz, allora dominio del ducato di Hannover, che Leibniz visitò personalmente in più occasioni. In esso, l’autore vuole dimostrare che il globo terrestre abbia subito, nel corso delle varie ere geologiche, più mutazioni rispetto a quanto comunemente si suppone. Tuttavia, la storia del mondo, pur presentandosi come una successione di mutazioni e disordini, non contempla affatto il caos. Il disordine rappresentato dagli sconvolgimenti della materia, (erosione, esplosione, congelamento), è solo apparente: esso infatti obbedisce a una regolarità dinamica che conduce il movimento della materia al conseguimento di una stabilità migliore rispetto a quella precedente, che altrimenti non sarebbe stata compromessa. L’ordine naturale, infatti, subisce un’alterazione soltanto se questa è finalizzata alla configurazione di equilibrio nuovo, il migliore tra tutti quelli possibili. Così, nella storia del mondo si susseguono diluvi, terremoti, esplosioni e molte altre catastrofi naturali, soltanto perché la natura deve trovare il proprio equilibrio, proprio come un trapezista che ondeggia sulla fune prima di stabilizzarsi e proseguire il proprio movimento.Al Codice diplomatico del diritto delle genti, edito nel 1693, Leibniz dedica sia una lettera sia un’autorecensione, pubblicate entrambe nello stesso anno sugli «Acta Eruditorum». In questi due scritti, che manifestano la fervida passione dell’autore per i documenti d’archivio, Leibniz chiarisce il senso del progetto editoriale e ne commenta i contenuti. Il filosofo dal multiforme ingegno, come l’Ulisse dei poemi omerici, navigando da un territorio all’altro del sapere, si sofferma a lungo sulla descrizione del suo lavoro archivistico, precisandone i criteri di indagine storica e di selezione dei documenti, che costituiscono le fondamenta di quello che Leibniz chiamava, nella Prefazione del Codice, l’edificio della storia. Gli atti pubblici, infatti, secondo l’autore, costituiscono la parte più sicura della storia ed è attraverso questi che è possibile tramandare ai posteri la certezza dei fatti. Il Codice diplomatico del diritto delle genti raccoglie una serie di documenti fino ad allora inediti, «concernenti numerosi eventi di grande importanza, avvenuti fra la fine dell’XI secolo e il secolo scorso» (p. 61). La raccolta contempla non solo atti relativi ai rapporti tra gli Stati europei, come dichiarazioni di guerra o trattati di pace e di alleanza, ma anche documenti che regolano i rapporti tra privati, come contratti matrimoniali o di compravendita, testamenti, arbitrati e donazioni. Vi si trovano ad esempio numerosi patti e trattati sottoscritti tra l’imperatore Federico II e Luigi IX re di Francia, la Prammatica Sanzione di Carlo V, atti dei re inglesi Giovanni ed Enrico III, bolle papali e numerosi documenti che chiariscono la questione dell’origine dei principi elettori in terra tedesca, quest’ultimo, argomento di scottante attualità all’epoca di Leibniz.Mentre la lettera delinea l’iter editoriale dell’opera, sottolineando che il suo fine è la pubblica utilità, dal momento che può fornire informazioni utili a principi e giureconsulti, la recensione si propone di approfondire i principi autentici del diritto naturale e del diritto delle genti, già ampiamente illustrati nella Prefazione del Codice. Fondando la propria argomentazione sul giusnaturalismo di Grozio, Leibniz distingue tre gradi del diritto: lo jus strictum, che definisce la natura degli interessi dell’individuo, l’equità, ossia la corrispondenza torto-pena o merito-ricompensa e infine la pietà, «ossia l’onestà, in virtù della quale anche le azioni che né giovano, né sono di danno ad alcuno, se non a chi le compie, sono tuttavia conformi alla logica della giustizia, in quanto si commisurano alla perfezione della natura razionale e, quindi, alla volontà dell’ottimo e massimo Reggitore del mondo, che è dovere del sapiente amare al di sopra di tutto» (p.64). Compito del legislatore è infatti quello di imitare la perfezione della Repubblica divina, riproducendone l’ordine, l’equilibrio e la giustizia, facendo del terzo grado del diritto il suo campo di azione. Il principe leibniziano è dunque il luogotenente di Dio. «Perfettissima è quella Repubblica che abbraccia l’universalità degli spiriti e proibisce però di abusare delle creature irrazionali e del corpo proprio o altrui, essendo tutto il creato nel potere di Dio» (p. 66), con queste parole l’autore vuole affermare che il fine universale della Repubblica degli spiriti è la felicità suprema, ossia la felicità eterna: per questo motivo la sapienza divina, entelecheia di ogni ente naturale, attraverso la sua immensa virtù, ottiene «non solo che ogni attitudine si converta in facoltà, ma anche, il che è eccellente, che ogni diritto si converta in fatto, di modo che nessun peccato sfugga alla pena e nessuna azione lodevole sia priva di ricompensa» (p. 67). Lo scritto presenta allora una duplice finalità: una primaria, ossia far conoscere i rapporti giuridici intercorrenti tra le autorità oppure fornire a coloro che governano lo Stato casi esemplari cui riferirsi quando toccherà loro di dover prendere iniziative simili, e una secondaria, ossia accrescere l’erudizione del lettore, offrendogli numerose nozioni di diritto, storia, geografia, toponomastica, genealogia e araldica. Il fine complessivo dell’opera è dunque la pubblica utilità, lo sviluppo dell’ars politica da un lato, l’incremento e la divulgazione della conoscenza dall’altro.Dal diritto alla medicina, il viaggio prosegue illustrando le proprietà terapeutiche di una radice fibrosa, l’Ipecacuaña, proveniente dall’America del Sud, un efficace rimedio antidissenterico già sperimentato con successo dagli Incas brasiliani. Ancora una volta Leibniz si riflette nello specchio di un’autorecensione, edita nel 1695, relativa alla Relazione che compose per la celebre “Società leopoldina dei curiosi della natura”, concernente proprio le virtù curative di questa pianta esotica. Lo scritto comincia con una dichiarazione di intenti, nella quale l’autore asserisce che il fine della Relazione è «far progredire diversi campi del sapere» (p. 85). Per il bene comune, l’autore ritiene doveroso rendere pubbliche le informazioni che ha ottenuto attraverso un intenso commercio epistolare con eruditi tedeschi e stranieri, sottolineando che nemmeno uno degli esperimenti condotti con questo farmaco è fallito. A contendersi il primato della scoperta, che naturalmente ha generato notevoli profitti, furono il mercante Grenier e il medico di Reims Jean-Adrien Helvétius, il quale, dopo aver appreso da Grenier la composizione del farmaco, ne informò subito la corte regale. Luigi XIV autorizzò la sperimentazione, e, in seguito agli esiti favorevoli, elargì un lauto compenso a Helvetius, offrendogli inoltre la licenza di commercializzare il rimedio. Grenier, sentendosi defraudato, citò vanamente in giudizio il medico e cominciò a vendere il farmaco sottobanco. La querelle viene riportata solo per evidenziare ulteriormente la straordinaria efficacia del medicinale: infatti a Leibniz preme soprattutto diffonderne le istruzioni per l’uso, perciò compila una sorta di “foglietto illustrativo”, in cui indica dosi e modalità di somministrazione del farmaco. Il contributo leibniziano al progresso della scienza e della tecnica è peraltro attestato dalla sua partecipazione alla “Società delle Scienze di Berlino”, fondata da Federico I re di Prussia. La Società si occupò di redigere una collana, la «Miscellanea Berolinensia», con il preciso scopo di promuovere lo sviluppo delle scienze e delle arti. Leibniz curò la pubblicazione del primo volume, recensito dal suo allievo Christian Wolff sugli «Acta Eruditorum» nel 1711. Si tratta di un’opera politematica, concernente sia alcuni studi di fisica e di matematica sia alcuni di filologia, linguistica e letteratura. Vi si trova una riflessione intorno al linguaggio, un vero e proprio atlante linguistico europeo che delinea una metodologia comparativa ed etimologica per il riconoscimento delle relazioni parentali tra i diversi idiomi, un saggio di numismatica, relazioni di fisica e geologia. Importante è la dimostrazione del parallelismo tra il calcolo algebrico e quello infinitesimale, di cui Leibniz contese la paternità con Newton. E poi ancora dimostrazioni geometriche, relazioni di meccanica e astronomia. Infine la descrizione della macchina aritmetica, antesignana della nostra calcolatrice, che segnò una svolta nella storia della matematica perché a differenza dei modelli di Schickard e Pascal, fu progettata anche per operare moltiplicazioni e divisioni.Nel 1711 Wolff recensì anche i Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male. Elogiando il proprio maestro, Wolff sostiene che le principali aporie concettuali presenti nelle opere filosofiche e teologiche avvalorate dalla tradizione, che Pierre Bayle ha raccolto nel Dictionnaire historique et critique, sono state brillantemente risolte dall’autore dei Saggi. Nel Dictionnaire Bayle sostiene, partendo da un punto di vista scettico, l’impossibilità di elaborare teorie generali e risolutive, poiché ogni tentativo in tal senso si risolve nell’incoerenza e nella contraddittorietà. Egli ha poca fiducia nelle verità fabbricate dalla logica formale, ma ne ha nella realtà dei fatti in quanto sola e vera fonte di conoscenza. Ebbene, Wolff sostiene che Leibniz a differenza di Bayle, che pur definisce un uomo dall’eccellente ingegno, non si è limitato a recidere il nodo gordiano, ma lo ha districato completamente. I Saggi di teodicea costituiscono infatti il punto di approdo di una intensa discussione tra Leibniz e Bayle intorno al tema dell’armonia prestabilita. Bayle rappresentava il referente della perorazione leibniziana dei principi della giustizia divina in opposizione alla rivendicazione libertina dell’inesorabile frattura tra fede e ragione, dovuta all’ammissione del fondamento ontologico del male. Il problema del male nel mondo invece, secondo Wolff, è stato argutamente superato dal suo maestro, che è stato investito dalla divina provvidenza dal compito di «illuminare le scuole dei teologi dello stesso fulgore con il quale ha finora rivestito i licei dei filosofi e i circoli esoterici dei matematici» (p. 114). La recensione che fa dei Saggi leibniziani vuole permetterci di «pregustare il nettare che spegnerà, con inattesa dolcezza, la nostra ardentissima sete» (ibid.). Per spiegare l’origine del male, sia fisico sia morale, l’autore premette alcune considerazioni sull’esistenza di Dio e la sua perfezione. Sostenendo la tesi della contingenza del mondo, occorre cercare la ragione per cui esso è così com’è al di fuori del mondo stesso. Perciò, il mondo non può esistere di per sé, ma dovrà essere opera un ente altro da sé, intelligente e dotato di volontà. Questo ente che vuole il mondo, essendo sommamente potente e saggio, lo sceglie tra un’infinità di mondi possibili e poiché è infinitamente buono, sceglie il migliore tra tutti i mondi possibili. Dato che Dio ha scelto il migliore dei mondi possibili, ne consegue che un mondo senza peccato sarebbe peggiore del nostro. Si possono immaginare mondi senza peccato e senza miserie, come quelli dei romanzi che parlano di utopie, ma questi mondi sarebbero senza dubbio inferiori rispetto al nostro. Il male del mondo è funzionale al mantenimento dell’equilibrio, al permanere dell’armonia prestabilita. Tutto accade per una ragione, nulla è senza scopo. Il male deriva dall’ originaria imperfezione della creatura, che, a differenza del Creatore, non è onnisciente e onnipotente, quindi può commettere errori. Si potrebbe dire che il male del mondo rappresenta un difetto strutturale della grande opera divina, dal momento che esso non ha alcuna causa positiva o efficiente, ha piuttosto una causa deficiente. La ragione formale del male consiste nella privazione, ossia qualcosa che la causa efficiente non produce affatto: esso pertanto non ha un fondamento ontologico, perché non è voluto da Dio. Le creature soffrono di una originaria imperfezione, di un difetto, di una privazione, che non è causata dalla volontà divina ma dalla resistenza della materia all’opera creatrice di Dio. Leibniz concorda con Agostino nel ritenere che Dio è causa solo dell’aspetto materiale del male, ma non in quello formale, che consiste nella privazione. Questo passaggio è reso più chiaro grazie a una potente metafora esplicativa: la corrente di un fiume spinge il battello, ma il suo peso ne ritarda il movimento, in questo modo il battello procede più lentamente di quel che farebbe se fosse meno carico. L’aspetto materiale, o positivo, del movimento, ossia la velocità, è dunque causato dal fiume, mentre l’aspetto formale del rallentamento, ossia i limiti della velocità, deriva dal peso o dall’inerzia della materia.Rispetto al tema della libertà umana, Leibniz sostiene che la predeterminazione divina, e la prescienza che ne è la condizione, non la annullano affatto. L’ordine dell’universo è contingente e libero, perché creato da un atto libero di volontà divina e conservato dalla libertà delle sostanze spirituali. Il principio di ragion sufficiente, sul quale è fondato l’ordine del mondo, conduce Leibniz a vedere quest’ordine orientato verso il meglio, che è il fine della volontà divina e quella umana. La predeterminazione divina, agendo attraverso la volontà che tende al meglio, non è quindi necessitante ma inclinante. Pertanto, la scelta del meglio da parte delle creature rimane libera e responsabile. Numerose sono le difficoltà che Bayle, Jaquelot e altri hanno ravvisato nella teologia di Leibniz. Ma la teologia è solo una parte della sua filosofia, che è ricca, poliedrica, complessa e affascinante. Il principio ispiratore di tutta la sua opera logica, politica, storica, giuridica e di tutta la sua vita, è la libertà dell’ordine universale. Leibniz cercò di realizzare nella sua filosofia la giustificazione dell’atteggiamento che egli assunse costantemente di fronte ai problemi di ogni genere che affrontò nel corso della sua vita: l’atteggiamento di chi vuole promuovere e fondare nel mondo umano, e riconoscere in tutto l’universo, un insieme di attività che liberamente si incontrano, si limitano e finiscono per trovare la loro pacifica coordinazione.

Maria Teresa Speranza

04_2013

Print Friendly, PDF & Email