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Gaston Bachelard – L’intuizione dell’istante. La psicoanalisi del fuoco – nuova edizione con revisione di Barbara Sambo, Introduzione di Jean Lescure, tr. it. a cura di G. Silvestri Stevan e A. Pellegrino [Edizioni Dedalo, Bari 2010, pp. 222, € 15,50]


«Se il nostro cuore fosse abbastanza grande per amare la vita in ogni dettaglio, ci renderemmo conto che tutti gli istanti sono allo stesso tempo donatori e usurpatori e che una novità giovane o tragica, sempre improvvisa, non fa altro che illustrare la discontinuità essenziale del Tempo» (p. 41).

All’interno del saggio L’intuizione dell’istante, scritto nel 1966, Bachelard si confronta con le tesi di Roupnel, Bergson e Einstein: sulla scorta della poetica di Roupnel, contrasta la filosofia della durata di Bergson, la considerazione dell’istante come presente fittizio, per definire  l’istante come elemento temporale primordiale. Il concetto di durata non è in grado di dar conto della vita e del suo potente élan, poiché ogni atto creatore inaugura un’era nuova che si apre come un assoluto, «ogni evoluzione, se decisiva, è puntuata da istanti creatori» (p. 43). Con Roupnel, Bachelard sostiene che la vita va inquadrata nella discontinuità che la contiene, poiché la vita è «la struttura imposta alla serie di istanti del tempo, ma la sua realtà essenziale è costituita dall’istante singolo» (p. 46). Attraversa la poetica di Roupnel e le scienze contemporanee Bachelard e si avvale della teoria della relatività per sostenere la sua poetica dell’istante: in effetti per Einstein l’istante è un assoluto, un punto nello spazio-tempo, «l’essere si colloca nel punto di convergenza del luogo e del presente: nel qui e ora; non qui e domani, non laggiù e oggi» (p. 52). La critica di Bachelard è come sempre rivolta al sostanzialismo e nella fattispecie alla nozione di durata, che come sostanza non ci rinvia che fantasmi: «Perché allora non accettare, come metafisicamente più prudente, di equiparare il tempo all’accidente, cioè il tempo al suo fenomeno? Il tempo non si nota che per mezzo degli istanti […] La durata può essere descritta come una polvere d’istanti, o meglio come un gruppo di punti che un fenomeno di prospettiva rende più o meno solidali» (p. 54). Non c’è persistenza reale del passato, esso difatti muore completamente all’affermarsi dell’istante nuovo, non esiste dunque questa continuità temporale, il tempo è discontinuo. Bachelard prende come sempre le distanze dalla visione realista che fa avanzare la metafora contraddittoria del germe, secondo cui il passato o l’abitudine sono inscritti nella materia; secondo la metafora del germe «il passato lascia una traccia nella materia, dunque presenta un riflesso nel presente ed è sempre materialmente vivo», l’abitudine a sua volta organizza la solidarietà del passato e dell’avvenire. Per Bachelard il concetto contraddittorio di germe sorgerebbe da quello altrettanto contraddittorio di sostanza «che deve possedere contemporaneamente l’essere e il divenire, l’istante reale e la durata pensata, il concreto e l’astratto» (p. 74). Per i partigiani della durata un’abitudine si inscrive nella materia e si rinforza durando e ripetendosi;  al contrario «i partigiani del tempo discontinuo sono colpiti dalla novità degli istanti fecondi, che conferisce agilità ed efficacia all’abitudine […] L’abitudine è dunque sempre un atto restituito alla sua novità […] può essere definita come l’assimilazione di routine di una novità» (p. 75). L’individuo, allora, in quanto ente complesso, ritrova se stesso in un’armonia di ritmi temporali, che rappresentano la continuità del discontinuo: «un’abitudine particolare è un ritmo sostenuto, in cui tutti gli atti si ripetono eguagliando con precisione il loro valore di novità, ma senza mai perdere il loro carattere nuovo» (p. 78). L’individuo si muove perciò attraverso una gerarchia di abitudini: quella fondamentale  è l’abitudine a essere, che ci regala il senso di identità e quello di durata. In realtà «l’individuo è una somma variabile di abitudini non censite […] una somma di accidenti, per di più accidentale. L’identità globale è composta allora da ripetizioni più o meno esatte, di riflessi più o meno dettagliati» (p. 79). Noi siamo allora riflessi di riflessi che tuttavia anelano: «noi sogniamo un’ora divina: non l’ora piena, ma l’ora completa. Un’ora in cui tutti gli istanti del tempo sono utilizzati dalla materia […] un’ora, di conseguenza, in cui la relatività della coscienza è cancellata, poiché la coscienza costituisce l’esatta misura del tempo completo» (p. 64).

Ne La psicoanalisi del fuoco, saggio del 1967, Bachelard cerca di illuminare le condizioni arcaiche della rêverie sul fuoco. La rêverie ignora completamente l’esperienza scientifica contemporanea, e tuttavia secondo Bachelard «si può studiare solo ciò che si è prima sognato. La scienza si forma più su una rêverie che su un’esperienza e sono necessarie parecchie esperienze per cancellare le nebbie del sogno» (p. 131). Il pensatore francese impronta una critica delle spiegazioni scientifiche moderne, in merito alla loro esplicazione delle scoperte preistoriche: «Queste spiegazioni scientifiche nascono da un razionalismo schematico e immediato, che pretende di servirsi di un’evidenza ricorrente, quindi senza rapporto con le condizioni psicologiche delle scoperte primitive» (p. 131).

La spiegazione scientifica sull’origine del fuoco sostiene che gli uomini primitivi lo abbiano prodotto attraverso lo sfregamento di due pezzi di legno secco; mancano tuttavia i tentativi di spiegare la psicologia di questa scoperta ancestrale: come si passa dalla vista di una foresta che brucia, alla comprensione che l’attrito dei pezzi di legno provoca il fuoco? «È ipotizzabile che il tentativo oggettivo di produrre il fuoco per attrito sia suggerito da esperienze del tutto intime. L’amore è la prima ipotesi scientifica per la riproduzione oggettiva del fuoco» (p. 133). Sarebbe dunque la libido, intesa come desiderio, all’origine di tutte le attività dell’homo faber: «L’uomo è stato definito una mano e un linguaggio. Ma i gesti utili non devono nascondere i gesti piacevoli» (p. 141), e la mano è l’organo delle carezze. La fenomenologia primitiva si presenta dunque come una fenomenologia dell’affettività: «fabbrica gli esseri oggettivi con i fantasmi proiettati dalla rêverie, costruisce le immagini con i desideri, le esperienze materiali con le esperienze somatiche e il fuoco con l’amore» (p. 148). Il testo si snoda attraverso lo scandaglio di una serie di rêverie sul fuoco: dal complesso di Prometeo e della furba disobbedienza, cioè di tutte le tendenze che ci spingono a sapere come e di più dei nostri padri, al complesso di Empedocle e al focolare come primo soggetto della rêverie dell’uomo, fino al complesso di Pantagruele e al fuoco inteso come nutrimento. Secondo l’autore permane nell’avvicinarsi al fuoco una sorta di ancestrale idolatria: più che ente naturale, il fuoco sembra un essere sociale, oggetto di veto e di brama, in cui l’uomo – in quanto creazione del desiderio e non del bisogno –  trova «desiderio di cambiare, di affrettare il tempo, di compiere e superare la vita» (p. 125).Darwin”, ma anche che cosa hanno veramente detto tutti coloro che a lui si sono riferiti. Della storia del darwinismo fa parte tutto quello che è stato detto di Darwin o fatto con le sue idee, non solo quello che riteniamo vitale (ed è molto)» (p. 27).

 

Fabiana Gambardella

03_2010

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